Ancora droga

Mi si permetta un appunto in merito all’eterno dibattito sulle droghe, recentemente ripreso sul vostro sito dopo i "fatti" del Mezza Canaja.

Le politiche attuali sulle droghe sono vecchie di novanta anni ma non hanno ancora risolto il problema per cui sono nate, anzi ne hanno creati molti altri: nutrono i fatturati della grande e piccola criminalità, rallentano (paralizzano?) l’azione giudiziaria e quella delle forze dell’ordine (si può svuotare l’oceano con un cucchiaino?), nel complesso incentivano a partecipare all’"affare droga", che rende più di ogni altro affare legale.

Chi e’ malato ha bisogno di cure mediche. Chi si droga ha bisogno di medici, psicologi, assistenti sociali, riabilitazione, ma anche di lavorare e di vivere. E’ difficile credere che abbia bisogno di galera, di dormire per strada, di fare una vita da criminale, di rubare, spacciare, ammazzare, con la disperazione nelle vene. Le politiche attuali sulle droghe sono rudimentali e primitive, in quanto pretendono di affrontare problemi socio-sanitari con la polizia.

Lo Stato affronta la questione droghe con schizofrenia: i consumatori di certe droghe (sigarette, alcool, psicofarmaci…) sono dissuasi, curati, se necessario forniti delle loro droghe; e questo avviene in modo legale, garantito, medicalmente assistito; i consumatori di altre Droghe (hashish, marijuana, cocaina, eroina…) sono molto meno fortunati: in quanto "diversi" essi prima vengono ignorati e abbandonati, poi, quando il loro problema medico si aggrava e diviene questione di sicurezza e di ordine pubblico, essi sono trattati inevitabilmente da criminali.

Spesso si dice che vendere sigarette e alcool con una mano e con l’altra combattere tumori ed incidenti stradali sia un atteggiamento contraddittorio e ipocrita dello Stato. Al contrario, penso che lo Stato faccia bene ad agire così, e faccia male a non agire allo stesso modo verso tutte le droghe ora "proibite" (leggere e pesanti). Pensiamo che controllare il mercato, evitando i suoi sregolati eccessi, sia l’unico modo per limitarne i danni. Il confronto non e’ tra droga si e droga no; la scelta da fare e’ tra droga LIBERA, cioè di contrabbando, ovunque, per chiunque, senza controllo, e droga LEGALE, dunque offerta secondo criteri medico-scientifici volti alla riduzione del danno, e concentrando gli sforzi nella cura della domanda.

Nota: Quest’articolo è stato anche pubblicato il 12/01/2005 su Vivere Senigallia con il titolo "L’attuale politica sulla droga è sorpassata".

Caso Moro: quella mano sbadata…

La signora Nunzia Damiano abita al numero 96 di via Gradoli, a Roma, in un anonimo condominio sulla Cassia. La mattina del 18 aprile 1978, viene svegliata da frettolosi passi nell’appartamento soprastante, e poco dopo si accorge che sul soffitto della cucina si sta allargando una macchia di infiltrazione d’acqua. Corre ad avvisare l’ingegner Borghi, l’inquilino del piano di sopra, prima che si allaghi mezzo mondo. Suona all’interno 11 una, due, tre volte: non c’è nessuno. Non le resta che chiamare i pompieri.

La caduta del covo

La colpa è del telefono della doccia lasciato aperto e appoggiato contro il muro, ma l’appartamento riserva ben altre sorprese: è un covo delle Brigate Rosse, ancora “caldo” cioè in uso.
Magari tenendo la scoperta riservata si potrebbero organizzare appostamenti e fermare eventuali frequentatori, come già fece il generale Dalla Chiesa a Robbiano di Mediglia nel ‘74; invece la notizia è subito data in pasto a giornali e TV, e l’appartamento diventa la grande vetrina delle BR: armi in bella mostra sul tavolo, volantini, divise della Polizia e dell’Alitalia, targhe false. Questo toglie ogni dubbio: si tratta della centrale operativa dei terroristi che il 16 marzo hanno sequestrato Aldo Moro e ucciso i cinque agenti della scorta. Il capo brigatista Mario Moretti, che abita il covo sotto la falsa identità di Mario Borghi, addirittura apprende la notizia dalla TV e si guarda bene dal far ritorno a casa.

La perquisizione del 18 marzo

Si tratti di scoperta accidentale o pilotata, subito affiorano strane coincidenze.
La Polizia è già stata in quel condominio. Il 18 marzo, appena due giorni dopo la strage di via Fani – non si saprà mai se durante una perquisizione a tappeto o dopo una soffiata – le forze dell’ordine arrivano a via Gradoli 96 e ispezionano uno per uno gli appartamenti. Il magistrato che conduce le indagini, dottor Infelisi, è stato chiaro: degli appartamenti chiusi o si sfondino le porte o si attenda l’arrivo degli inquilini con il piantone. L’ordine, eseguito in innumerevoli casi con gran disagio di cittadini innocenti, proprio quella volta che poteva avere effetti di incalcolabile portata, viene disatteso. Arrivati all’interno 11 e non ricevendo risposta, gli agenti se ne vanno senza accertamenti: a detta dei vicini, gli inquilini sarebbero persone tranquille. La Commissione Moro censurerà questa clamorosa omissione, definendola “grave inosservanza”, e la magistratura scoprirà un particolare che ha dell’incredibile: la relazione di servizio di quella perquisizione, datata 18 marzo 1978 e saltata fuori solo quattro anni dopo, risulta scritta su carta intestata “Dipartimento di Polizia”, un organismo costituito solo nel 1981 dopo la legge di riforma. Si tratta di un falso.

La seduta spiritica

Il nome “Gradoli” riemerge una seconda volta in pieno sequestro, il 2 aprile. Quella domenica, nella casa di Alberto Clò sulle colline bolognesi, si riunisce un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Tra gli altri, ci sono anche Romano Prodi e Mario Baldassarri. L’atmosfera è quella di una scampagnata, peccato che piova. Per allentare la noia, a qualcuno viene l’idea di tenere una seduta spiritica ed evocare gli spiriti di Sturzo e La Pira per chiedere loro dove sia la prigione di Moro. Tra i farfugliamenti del piattino, un paio di nomi viene fuori chiaramente: G-r-a-d-o-l-i, B-o-l-s-e-n-a. La rivelazione arriva alla segreteria DC e da qui al ministro dell’Interno Cossiga, che fa perquisire il paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo. Eleonora Moro, moglie del rapito, suggerisce di verificare se esista a Roma una strada con quel nome, ma le viene risposto che a Roma una via Gradoli non c’è. Scriverà Leonardo Sciascia, nella sua relazione di minoranza alla Commissione Moro: «Non meravigli che negli atti di una commissione parlamentare d’inchiesta si parli, come in una commedia dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici persone, come si suol dire, degne di fede, e per di più appartenenti al ceto dotto della dotta Bologna, sono state sentite una per una dalla Commissione e tutte hanno testimoniato della seduta spiritica da loro tenuta e da cui è venuto fuori il nome Gradoli».
Dietro l’occultismo, con ogni probabilità si nasconde un espediente per far filtrare una notizia riservata senza doverne rivelare la fonte (forse l’Autonomia bolognese, come ipotizzato dalla Commissione Stragi e anche da Giulio Andreotti). Che poi questa notizia sia stata manomessa e depurata del particolare decisivo (la via anziché il paese), è una questione ancora più profonda e inquietante.

Insomma: il covo BR di via Gradoli, base operativa del sequestro Moro e abitazione di Mario Moretti, sfiorato il 18 marzo e dimenticato il 2 aprile, cade finalmente il 18 aprile grazie a una “manina” che lascia la doccia aperta. Chi è stato? Anche concedendo che l’allagamento del covo sia stato provocato – volontariamente o meno – da qualche brigatista e che gli “spiriti” si riferiscano al paesino, sembra strano che Moretti abbia potuto dormire sonni tranquilli per due settimane in quel posto divenuto così pericolosamente “omonimo”. Forse, gli “spiriti” avevano visto giusto e volevano veramente aiutare le indagini? Oppure solo lanciare un avvertimento a chi lo sapesse cogliere?
Ambigua, torbida, a tratti grottesca, ma gravida di implicazioni e sottintesi, la vicenda del covo BR di via Gradoli rappresenta lo snodo cruciale del caso Moro. Vi si intrecciano inefficienze, ritardi, menzogne e una serie impressionante di errori (non sappiamo se colposi o dolosi). Di via Gradoli certamente gli investigatori e i servizi di sicurezza sapevano; e se ci fossero arrivati prima e avessero gestito le informazioni un po’ meglio o solo un po’ meno peggio, sarebbe stata diversa la storia del sequestro e forse anche quella dell’Italia.

Il falso comunicato n° 7

Ma torniamo al 18 aprile. Quello non è un giorno qualsiasi: è il trentennale della vittoria DC alle elezioni del ’48. E proprio quel giorno, quasi contemporaneamente all’allagamento, avviene un altro fatto enigmatico: è diffuso il comunicato n. 7, che annuncia la morte del prigioniero e l’occultamento del corpo nel Lago della Duchessa, sui monti tra Lazio e Abruzzo. Si scoprirà che il comunicato è un falso, non opera delle BR ma di tale Antonio Chichiarelli, un falsario romano legato alla banda della Magliana e ai servizi segreti; sulle prime però gli inquirenti lo giudicano autentico, scatenando affannose quanto inutili ricerche. Allora, a cosa e a chi serve la messinscena? Di sicuro, dando per autentico un comunicato falso, s’invade il campo della comunicazione brigatista, si aggiunge un rumore che rende indistinguibili le voci, si intacca la “credibilità” delle BR verso le masse. Ma non si potrebbe anche voler saggiare la reazione dell’opinione pubblica di fronte ad un epilogo tragico? Lo stesso Moro, dal carcere del popolo, scriverà di una “macabra prova generale” della sua esecuzione. E perché il riferimento a quel lago? Ci sono nel messaggio allusioni oscure, comprensibili solo dai veri destinatari?
A distanza di tempo, un’impressione resta: gli accadimenti del 18 aprile 1978 sembrano messaggi in codice rivolti alle stesse Brigate Rosse, affinché il sequestro si avviasse ad una rapida conclusione. Ma da chi? Possiamo ipotizzare l’esistenza di un “partito non brigatista dell’omicidio”, che spinse per la fine cruenta chiudendo tutti i canali di una possibile trattativa, per vie sia istituzionali che – diciamo così – extra-legali. È probabile, infatti, che da quando Moro aveva iniziato a parlare, rivelando forse informazioni riservate, si fosse messa in moto una macchina volta insieme a liquidare l’ostaggio e a recuperare il materiale compromettente (il famoso “memoriale”).
Verosimilmente, il messaggio che dalle operazioni Gradoli e Duchessa dovette arrivare al commando che tratteneva Moro poteva essere questo: “vi stiamo addosso; sappiamo dove siete, siamo in grado di smantellare le vostre sedi e di occupare i vostri canali di comunicazione con i mass-media. Non vi venga in mente di gestire l’affare in modo diverso da quello indicato nel comunicato della Duchessa”. Le Brigate Rosse eseguirono.

Bibliografia consigliata

  • Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro”, Adelphi 1978
  • Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini Recchia, “Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale”, Franco Angeli 1984
  • Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Kaos 1993
  • Sergio Flamigni, “Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro”, Kaos 1998
  • Alfredo C. Moro, “Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro”, Ed. Riuniti 1998
  • Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico”, Ed. Riuniti 1998
  • Sergio Flamigni, “Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro”, Kaos 1999
  • Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000
  • Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, “Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro”, Einaudi 2003
  • Vladimiro Satta, “Odissea nel caso Moro”, Edup 2003
  • Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 17/06/1998, 23/06/1998, 10/11/1999 e 11/11/1999.Materiale reperibile in rete:
    www.apolis.com/moro

“Il Codice Da Vinci” di Dan Brown

Il Codice Da Vinci

Perché Dan Brown ha venduto milioni di copie in tutto il mondo? Semplice, ha usato una ricetta vincente mettendo insieme i più grandi misteri della storia (il Santo Graal, i quadri di Leonardo, i dogmi religiosi, i codici numerici) condendo il tutto con una narrazione intensa e coinvolgente con un ritmo da film di azione.
Il risultato è un libro leggibile tutto d’un fiato che farà storcere il naso a molti (soprattutto ai cattolici credenti), ma che va preso per quello che è: un “romanzo”. Leggi tutto ““Il Codice Da Vinci” di Dan Brown”

Droghe, una nuova legge

Il 18 Novembre scorso è approdata in Senato la cosiddetta “legge Fini”, un giro di vite nei confronti del traffico e del consumo di stupefacenti. Il punto di forza, l’elemento innovativo della legge – si dice – è l’equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, sotto l’aspetto della pericolosità e delle sanzioni. L’approccio è: non esistono droghe leggere, la droga è droga. Detenere, cedere o consumare tali sostanze, non importa in che quantità, sono comportamenti puniti dalla legge. In particolare, possedendo più di una quantità massima prestabilita, si diventa spacciatori e si rischiano pene da uno a vent’anni di carcere, secondo la gravità; il consumo è comunque punito con sanzioni amministrative (il ritiro della patente, del porto d’armi, del permesso di soggiorno, ecc.) revocabili se l’interessato si sottopone a programma terapeutico, di cui si è certificato il buon andamento.

Dal punto di vista teorico ed etico l’impostazione “dura” sembra accattivante e miete consensi, a patto però di mettersi d’accordo su alcuni punti.
In primis, su cosa è droga e cosa non lo è. La distinzione non è per nulla facile: se definiamo droga ciò che produce alterazione mentale e percettiva creando dipendenza, allora dovremmo includervi anche il vino, il caffè e le sigarette. Inoltre, bisognerebbe capire in che misura una legge dello Stato può sanzionare un comportamento supposto auto lesivo per l’individuo. Ad esempio, fatta salva l’ovvia (ma non per tutti) distinzione tra peccato e reato, una legge che sanzionasse l’azione sommamente auto lesiva dell’integrità individuale – ovvero il suicidio – sarebbe probabilmente incostituzionale, per violazione dell’articolo 2. Più in generale, sarebbe da stabilire se il “diritto” alla salute (art. 32 della Costituzione) si traduce automaticamente in “dovere” alla salute. Se questo esistesse, e se quindi lo Stato avesse il potere sanzionatorio per farlo rispettare, perché si continuano a vendere i tabacchi in regime di monopolio? Delle due l’una: o il dovere alla salute esiste e il monopolio dei tabacchi è incostituzionale, oppure questo dovere non esiste ed è incostituzionale il divieto all’uso personale di stupefacenti. Tertium non datur.

Dal punto di vista pratico, invece, bisogna fare i conti con l’applicazione delle questioni di principio alla società fatta di persone in carne ed ossa. Il proposito del legislatore è quello di combattere un fenomeno sociale – mediante la repressione, la prevenzione, eccetera – senza “se” e senza “ma”, trattando le droghe leggere come le droghe pesanti ed assumendo che il consumo di droghe leggere sia l’anticamera per quelle pesanti. Si sente dire, infatti, che l’80% dei consumatori di droghe pesanti (eroina e cocaina in primis) ha iniziato facendo uso di droghe leggere come la marijuana o l’hashish. E questo cosa prova? Per dimostrare che da una certa premessa segue una certa conclusione, è un non-senso logico osservare la conclusione e cercare di inferire la premessa. Se chiedessimo agli eroinomani se da bambini bevevano latte, probabilmente il 100% ci risponderebbe di sì. Dovremmo forse dedurne che l’uso di latte, specialmente in tenera età, apre la strada al consumo di eroina? Tutti gli alcolizzati hanno cominciato con un bicchiere di vino, ma qualcuno se la sentirebbe di proibire il vino perché c’è chi eccede fino al bottiglione? Se un nesso tra il consumo di marijuana ed eroina esiste, esso trova semmai ragione nella contiguità o nella coincidenza dei rispettivi mercati: ad uno spacciatore del mercato nero conviene ovviamente vendere droghe pesanti (più remunerative e generatrici di dipendenza fisica) piuttosto che droghe leggere (che non creano dipendenza fisica). Se non altro per una questione di marketing: bisogna fidelizzare la clientela.

Dal punto di vista legale, poi, uniformando le pene per lo spaccio di marijuana ed eroina, siamo davvero sicuri di ridurre lo spaccio e la conseguente diffusione? Se deve rischiare lo stesso numero d’anni di carcere, uno spacciatore opta per lo spaccio di droghe pesanti che, come dicevamo poco fa, sono più remunerative. L’approccio del proibizionista, fondato sull’equazione “io non lo farei = nessuno lo deve fare”, è assoluto, etico: c’è il Male da estirpare e bisogna farlo con tutti i mezzi, ad ogni costo. Non si rende conto che, molto spesso, crea problemi maggiori di quelli che pretende di combattere. Le leggi proibizioniste sulle droghe, in particolare quelle leggere, hanno il merito d’aver trasformato negli ultimi 40 anni un problema socio-sanitario in una questione d’ordine pubblico. Esattamente come avvenne negli Stati Uniti degli anni ’20 con il diciottesimo emendamento, che proibiva la vendita e il consumo di alcolici: anni dopo l’approvazione della legge, bevevano praticamente tutti, anche quelli che prima erano astemi; la pericolosità del prodotto era aumentata perché l’alcol era di pessima qualità non essendoci alcun controllo nel mercato nero; la malavita faceva affari d’oro sui traffici e i crimini aumentavano. È vero: la polizia girava per cantine sequestrando tonnellate di whisky e arrestando migliaia di persone, così come oggi si sequestrano quintali di fumo sui tir provenienti dall’Albania, ma questo significava (e significa) ridurre il problema oppure cercare di svuotare il mare con un cucchiaino? E ancora: un tizio sorpreso allora a farsi una birra era veramente un delinquente? E uno che oggi si fa uno spinello può essere considerato un delinquente?

Mezza Canaja: sede nuova, mobili vecchi

Leggo su diversi quotidiani cittadini di episodi intimidatori da parte della polizia ai danni dei no-global del C.S.A. “Mezza Canaja”, nella loro nuova sede sul lungomare Da Vinci.
A voi, ragazzi del “Mezza Canaja”, a voi intimiditi, repressi e manganellati, ha già risposto 36 anni fa Pier Paolo Pasolini il quale, all’indomani degli scontri di Valle Giulia a Roma, tra l’euforia della maggioranza degli intellettuali, andò controcorrente: «siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari». Leggi tutto “Mezza Canaja: sede nuova, mobili vecchi”

Io, Suad, condannata a morte

“Per punirla di una gravidanza illecita il cognato l´ha cosparsa di benzina e ha dato fuoco. La donna si è salvata ma ancora oggi non mostra il suo volto e si nasconde dietro l´anonimato. Il suo libro ha venduto in Francia oltre trecentomila copie ed è stato tradotto in diciotto paesi”.

Ho letto il libro. Lo aspettavo da tempo, avevo letto delle recensioni…e per farmi ancora + del male, in alcuni giorni di vacanza me lo sono letto.

Agghiacciante, ma da leggere, quindi ve lo segnalo per il vostro club.

Cecenia, il disonore russo

Le guerre, si sa, non sono tutte uguali. Capita che i morti dell’Iraq si possano contare uno ad uno sui TG, mentre in Cecenia, nel silenzio, si muore “per un si o per un no”, oppure, piu’ semplicemente, per essere ceceno.
Per l’esattezza un ceceno su cinque e’ morto negli ultimi dieci anni a causa di due guerre, ripetutesi su un territorio grande come la Campania e una capitale, Grozny, ormai rasa al suolo. Perche’?

Il libro cerca di rispondere fin dall’introduzione, in cui il francese Andre’ Glucksmann ci riporta alla realta’ della storia, e ci spiega che i perche’ non vanno cercati in Cecenia ma nel resto della Russia, e siano di natura politica, di antica data.

Anna Politkovskaia, quarantenne giornalista russa, premio OSCE 2003 per il giornalismo e la democrazia, ci racconta soprattutto i come: come si vive, come (non) si mangia o (non) ci si lava e invece troppo spesso si muore in massacri gratuiti.
La giornalista disegna personaggi reali e conosciuti personalmente, soldati e alti ufficiali russi, gente comune e capi ceceni, e racconta avvenimenti visti e uditi, o raccolti in testimonianze dal valore storico, oltre che giornalistico.

Anna Politkovskaia parla anche da protagonista, avendo vissuto spesso in Cecenia negli ultimi dieci anni ed essendo stata la mediatrice durante il tragico sequestro nel teatro Nord-Ost a Mosca nell’ottobre 2002 costato la vita a piu’ di 140 persone: quel gesto terroristico, “frutto della disperazione”, e’ ripreso da vicino, in una cronaca chiara e appassionante.

Il libro spiega cosa ci sia dietro la parola Zaciska, e chiarisce come a compiere i misfatti piu’ efferati sia il banditismo, spietato quanto ben organizzato, costituito da russi e ceceni, alleati in nome del redditizio contrabbando di petrolio; a tutto cio’ assiste l’esercito russo, nutrito dai disordini che esso stesso alimenta. La corruzione nell’esercito e’ giunta al punto in cui gli ufficiali negano ai soldati meta’ della ricca ricompensa di guerra se questi chiedono di tornare a casa.

Ma l’esercito in Russia, e in modo particolare le unita’ speciali di stanza in Cecenia, sono un governo nel governo, una autorita’ autonoma e molto potente, che nemmeno i tribunali hanno il coraggio di toccare. Il caso del colonnello Budanov ne e’ la dimostrazione: dopo aver rapito, violentato e strangolato una diciottenne cecena, Budanov e’ stato assolto perche’ “temporaneamente irresponsabile” nel momento dell’omicidio.

Al Governo russo la Politkovskaia riserva un intero capitolo: l’amministrazione Putin vuole apparire all’esterno come garante dell’ordine e della sicurezza, ma in realta’ getta benzina sul fuoco e i suoi servizi segreti (FSB, ex KGB) sono particolarmente attivi in questo. In Russia il ceceno e’ “diverso”, malvisto e vessato dalla polizia. In TV gli sceneggiati in prima serata lo descrivono crudele e spietato mentre i russi sono raffigurati come eroi esemplari: in Russia il razzismo e’ di Stato.

Ma tutti i russi, eccetto forse i caucasici, vivono tradizionalmente da subalterni verso lo Stato, “non c’e’ popolazione meno sicura di se dei cittadini russi”, dice l’autrice, che spiega come verso l’autorita’ essi non alzino mai la testa, a meno di essere persone particolarmente importanti, per fama, soldi o meriti militari, motivi di molto superiori rispetto ai semplici diritti umani o civili. Questo atteggiamento e’ piu’ antico del comunismo ed si e’ ben conservato fino ad oggi.

In sintesi quello di Anna Politkovskaia, edito da Fandango, e’ un libro di estrema attualita’, per non dimenticare che dietro la “lotta al terrorismo” ci sia di tutto, anche un genocidio.

“Harry Potter and The order of the Phoenix”

Più degli altri quattro libri di Harry Potter, quest’ultimo presenta il protagonista nel suo travaglio di crescita in fase adolescenziale. È in questa transizione verso l’età adulta che Harry incomincia a sperimentare che anche gli eroi falliscono e che la verità non è sempre così semplice come sembra o come la si vorrebbe. Un libro decisamente orientato all’introspezione sul protagonista e meno (rispetto ai precedenti) agli eventi fantastici del mondo dei maghi.

In parte devo dire che mi ha deluso. Il tono dei primi quattro libri era abbastanza fanciullesco, qualche volta gioioso. In questo libro Harry si presenta invece come un adolscente piuttosto irascible e dai sentimenti abbastanza cupi. Benchè la storia finisca, com è ovvio, con la vittoria del bene e la sconfitta del male, il finale lascia un po’ “l’amaro in bocca” e l’atmosfera alla fine dell’anno scolastico ad Hogwarts è tutt’altro che di sollievo. Infine la lunghezza del libro è decisamente eccessiva (più di 700 pag.).

Direi che è un libro che vale la pena leggere se si sono letti i primi quattro, ma che certamente non tiene il passo dei precedenti.

“Lungo le rive del Colorado” di Dee Brown

La vera storia del “West” raccontata finalmente da uno storico senza i pregiudizi e gli stereotipi cinematografici ed analizzata senza dare giudizi etici, ma solamente basandosi sulla realtà dei fatti. Dee Brown ci presenta l’epopea della conquista delle terre dell’Ovest tramite dei racconti brevi sulle figure più rappresentative di quell’epoca.
Troviamo quindi i primi pionieri che attraversano la valle dell’Ohio fino al Mississippi, gli esploratori, i cacciatori di pellicce, i fuorilegge, i cowboys, i Pony Express, i cercatori d’oro ed i grandi militari che hanno creato la grande nazione americana.

Di grande rilievo ed interesse è anche la parte relativa agli indiani d’america, i quali vengono descritti dalle origini fino al genocidio perpetrato ai loro danni dall’ uomo bianco.
Se nomi del calibro di Buffalo Bill, Butch Cassidy, Geronimo, Toro Seduto, Cavallo Pazzo ecc… vi hanno in qualche modo affascinato, non potete perdervi questa lettura!

“1984” di George Orwell

Winston è un ingranaggio nella grande macchina di un sistema politico che governa l’Inghilterra secondo i principi del Socing (abbreviazione di socialismo-inglese).

Questo sistema è guidato dal “Grande Fratello”, una sorta di dittatore onnipotente che controlla tutto tramite i “teleschermi” ( dei televisori bidirezionali che ricevono e trasmettono allo stesso tempo), che spiano ogni casa, e tramite la “psicopolizia” che punisce ogni persona che contravvenga le sue leggi.
Il principio fondamentale è l’ortodossia del pensiero: tutti devono pensare allo stesso modo del Grande Fratello; non è ammesso avere opinioni diverse ed anzi lo scopo del regime è proprio di eliminare il “pensiero” per eliminare “l’individuo”.

Ad un certo punto Winston si rende però conto che il mondo in cui è immerso lo opprime e cerca la sua liberazione disobbedendo alle leggi ed alle costrizioni impostegli dal sistema.
Questo percorso lo porta a cercare altre persone che la pensino come lui e così conosce Julia, un’ altra “dissidente”, che per la prima volta gli fa conoscere il vero amore spingendolo ancora più alla ribellione.
Questa impari lotta tra il sistema e l’individuo è però persa da Winston che sarà costretto a ritornare entro gli argini in cui tutti sono relegati.

Libro di straordinaria preveggenza ed attualità, centra dei temi che vengono ancora oggi dibattuti:
-La tecnologia come mezzo di controllo della popolazione.
-La guerra come entità che nutre sé stessa e che serve a sviare l’attenzione della popolazione dai reali problemi della società.
-La propaganda martellante che fa passare per vere le menzogne più grandi e palesi.

Tutto questo in un romanzo, che travalica i confini della fiction rendendo esplicito il messaggio politico di Orwell: la sua avversione ai regimi totalitari in cui l’individuo è annullato e che sono sorretti, più che dalle armi o dalla polizia, da un male endemico in ogni gruppo sociale: l’indifferenza.

Uno dei capolavori della letteratura del ‘900.