Luisa Gasbarri con Popinga a San Rocco

Venerdi 26 agosto discuteremo il romanzo “L’istinto innaturale” (edizioni Todaro, 2005) e lo faremo insieme alla sua autrice, Luisa Gasbarri.
Per la prima volta nella breve storia del Club Popinga l’incontro sarà pubblico e si terrà alle ore 21.30 presso l’Auditorium San Rocco di Senigallia (Piazza Garibaldi, proprio di fronte al Duomo).

Siete tutti invitati a partecipare!

Scarica la locandina (in formato PDF): in bianco&nero, a colori (bassa risoluzione), a colori (alta definizione). (grazie Livia!!)
Scarica l’invito: in formato Word o in formato PDF.

Su questo sito trovate una intervista all’autrice. È inoltre possibile contattare direttamente Luisa al suo indirizzo e-mail.
Ecco altre informazioni sulla scrittrice e il suo libro.

È la seconda volta che il Club incontra un autore, dopo Enzo Pettinelli con il suo “La città del Ping Pong“.

Intervista a Luisa Gasbarri

Pubblichiamo con piacere l’intervista che Luisa Gasbarri, l’autrice del romanzo L’istinto innaturale, ha rilasciato a Lino Faraone.
Luisa sarà ospite del Club Popinga nella riunione del 26 agosto; l’incontro sarà pubblico e si terrà alle ore 21.30 presso l’Auditorium San Rocco di Senigallia. Siete tutti invitati a partecipare! Leggi tutto “Intervista a Luisa Gasbarri”

Viaggio a Corfù

Questo viaggio non doveva essere fatto a Corfù bensì a Copenhagen. Per cause tecniche non ho potuto fare i 4040 Km andata e ritorno in macchina per la capitale danese. Comunque per una coincidenza fortuita ho colto l’occasione di un viaggio via mare per Corfù.

Fortuna vuole infatti che Luca, un mio amico in partenza per Corfù, fosse in cerca di una quarta persona per riempire un appartamento e condividere le spese di alloggio per dormire in un appartamentino in quel di Barbati, circa 20 Km a nord di Corfù.

Insieme a Luca sono partito con Andrea e Paolo il 13 pomeriggio e il viaggio, con passaggio-ponte su traghetti della Minoan lines, è stato bello, anche se all’andata, causa caldo ed eccitazione da partenza, ho dormito poco, mentre al ritorno, causa stanchezza, sono sprofondato in un sonno ristoratore.

Appena arrivati a Corfù, dopo aver fatto un cambio di nave a Igoumenitsa, mi sono accorto che c’erano molti italiani in vacanza e che i corfioti erano una esigua minoranza. Nella settimana seguente ho avuto conferma di tutto ciò: l’isola pullulava di italiani, le insegne dei negozi sono in italiano e tutti parlano la nostra lingua.

La casetta a Barbati era veramente comoda e carina sia come arredamento che come posizione. Avevamo anche un tavolo all’aperto dove fare colazione la mattina, api permettendo, e cenare a lume di candela la sera.
Per gli spostamenti abbiamo utilizzato un suzuki samurai: si tratta di un piccolo fuoristrada.

Mare limpido e pulito ovunque, le spiagge passano da quella sabbiosa, simile a quella vellutata di Senigallia, per arrivare a quelle sassose. A nord l’isola si presenta prevalentemente montuosa ed è dominata da un monte di circa 900 m di altezza; andando verso sud l’isola si restringe e diventa più pianeggiante.

Consiglio di visitare la spiaggia di Sidari al nord e la baia di Glifada, al centro sul lato occidentale. Ovviamente anche il centro storico di Corfù merita di essere visitato sia di giorno, con il caos legato ai turisti e vita normale di una grande città, sia di notte quando complice la notte il dedalo di vicoli stretti e tortuosi diventano un labirinto dove è facile perdersi. Il centro ricorda Corinaldo con i sali e scendi dei vicoli, solo che è 10 e passa volte più grande ed è in condizioni peggiori poiché molti palazzi sono fatiscenti.

Aspetto gustoso è il mangiare, i piatti che ho provato sono una decina, ottima è la gyros pitta, simile alla nostra piadina come forma e paragonabile alla nostra pizza come snack da fare ad ogni ora del giorno. Si tratta di una simil-piadina arrotolata con dentro patatine fritte, pomodori, yoghurt, cipolle e gyros (questa è carne di maiale cotta alla brace)… in effetti è una piccola bomba calorica.
Ovviamente l’insalata greca è ottima.

I corfioti (abitanti di Corfù) sono disponibili e gentili, grazie alla loro ospitalità il viaggio è stato ancora più bello.

Un ristorante carino dove mangiare bene a due passi dal mare, immersi in un atmosfera rilassata, è la taverna di Nikolas presso il paesino di Agni, a nord.

Le strade sono pericolose e mai come in questa vacanza ho pregato così tanto on the road!

La sera si è usciti sempre e abbiamo avuto modo si vedere la vita notturna, anche se la maggior parte dei posti sono ad uso e consumo dei soli turisti. Molte sere le ho passate presso un pub irlandese (tenuto da irlandesi) chiamato “dirty Nellies” lungo la spiaggia di Ipsos, altrimenti nota come Little Italy, data l’enorme presenza di connazionali partenopei.

Nel complesso è stata una bella vacanza e tenendo conto di tutto si è arrivati a spendere sui 500 € a testa, viaggio+vitto+alloggio+macchina+spese extra.

Il fascino oscuro della guerra

Le premesse di una guerra e le conseguenze per coloro che ne sono coinvolti sono descritte in modo coinvolgente e preciso.
Un libro che si legge velocemente ma che aiuta a riflettere su quali possano essere i pericoli nel nostro futuro descrivendo gli errori ed orrori del passato prossimo.

Possiamo fidarci di Chris Hedges. È stato nei posti peggiori e ha visto le cose peggiori. Così dobbiamo ascoltarlo quando sostiene che la guerra è una droga che uccide, che il nazionalismo è sempre pericoloso e che dobbiamo svegliarci e renderci conto di quanto il mondo attuale sia terrificante. Michael Ignatieff
Facile dire che la guerra è sinonimo d’inferno. Ma per molti di coloro – sia civili che militari – che la provano, la guerra è un’esperienza intensa, emozionante e persino gioiosa. La guerra inebria, dà un obiettivo, una motivazione, una soluzione: Chris Hedges la conosce bene. Per il “New York Times” è stato nei Balcani, in Medio Oriente, in America Centrale e ciò che ha visto lo ha sconvolto: amici, nemici, colleghi intossicati e quasi drogati dallo scontro. Partendo dai classici, da Omero a oggi, in questo libro Hedges affronta una triste verità e un mito antico: il legame d’amore fra gli uomini e la guerra, l’attrazione fatale tra il rischio e la gloria, la seduzione della battaglia e la perversione del conflitto.

L’indemoniato

Il 28 luglio, in Piazza Roma a Senigallia, serata sul satanismo. Sul palco un sacerdote, don Aldo Buonaiuto, coordinatore del numero verde anti sette occulte, ausiliare di polizia giudiziaria e consulente tecnico della magistratura. Presentando il libro “Le mani occulte, viaggio nel mondo del satanismo”, Don Buonaiuto ha tratteggiato il fenomeno, la sua storia e le molteplici sfaccettature. Un punto di vista socio-religioso, tutto sommato interessante ed equilibrato.

Poi, a metà serata, quando s’è trattato di analizzare le cause del fenomeno, Don Buonaiuto ha fatto intervenire sul palco un indemoniato. Aveva le sue stesse sembianze, portava gli stessi vestiti e addirittura lo stesso nome. Un indemoniato in carne ed ossa: la prova che Belzebù non solo esiste, ma può tranquillamente passeggiare per le nostre strade in un’afosa serata estiva.

L’indemoniato ci ha rivelato che, oltre a quelli del mostro di Firenze, anche l’omicidio di Cogne e la recente morte dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi (una studiosa del tema) potrebbero nascondere casi di satanismo. Chissà, magari anche Erica e Omar sarebbero disposti a dichiararsi in preda a Satana ed ottenere uno sconto di pena. Dopo la Pedofili S.p.A. ci mancava la Satanisti S.r.l.
Di seguito se l’è presa col relativismo etico e la scristianizzazione della società, che hanno rimosso il sacro, ridotto al silenzio e alla subalternità l’etica cristiana (soprattutto cattolica) e proposto modelli vuoti e ingannevoli, su cui le sette prolificano. Tra i modelli ingannevoli, oltre ai soliti (denaro, droga, successo, affari, edonismo, ecc.), ci sarebbe anche Harry Potter (noto anticristiano, già oggetto delle attenzioni del Papa). Anche il Codice da Vinci sarebbe pericoloso: troppo critico verso la Chiesa, le crociate e l’Opus Dei, avrebbe il torto di spacciare finzione per verità. Per non parlare della New Age…

Mentre l’indemoniato parlava, a nessuno – neppure a Don Buonaiuto – è passato per la testa che il fiorire di sette occulte, soprattutto in società occidentali evolute di matrice cristiana, potrebbe essere la degenerazione del tentativo di ricerca di una dimensione spirituale e trascendente che le chiese “tradizionali” – nella fattispecie quella cattolica – negli ultimi anni faticano ad offrire.
Se queste chiese alla fede sostituiscono un’etica, in cui la gerarchia si arroga il compito di stabilire cos’è Bene e cos’è Male, e i fedeli sono semplici osservanti tenuti ad uniformarsi a quei precetti, pena non solo essere peccatori ma anche non potersi dire cristiani, ci si può meravigliare se sempre più gente volge lo sguardo altrove?
Per andare sul concreto: una Chiesa che nega il funerale ad una poveretta ritenuta pubblica peccatrice perché viveva more uxorio con un divorziato forse non viene meno alla caritas e alla pietas che molti invece cercano nella dimensione spirituale? Ed ha qualcosa a che vedere con la fede il fatto che una normalissima coppia, anche sposata, non si possa dire cristiana perché fa uso di anticoncezionali?
L’immagine di una cultura cattolica marginalizzata, ridotta al silenzio e all’insignificanza dal relativismo etico e dal “laicismo” semplicemente non esiste. I recenti referendum sono stati l’ennesima dimostrazione del contrario: l’etica cattolica imposta (per legge) a tutti, anche a quelli che non la condividono magari perché appartenenti ad altre confessioni.
Stiamo assistendo in Italia al dilagare del relativismo etico o piuttosto al tentativo di imporre a tutti una sola etica, quella cattolica, magari sottoforma di etica condivisa? È in atto una rimozione del sacro oppure una progressiva dilatazione dello spazio del sacro a tutti gli ambiti dell’esistenza umana? Ma, in tal caso, se tutto è sacro, cosa rimane di sacro?
Non ci aspettavamo che l’indemoniato rispondesse a queste domande, ma almeno che ce (e se) le ponesse Don Buonaiuto.
Macché. Alla fine i due hanno salutato cordialmente, e dopo l’applauso se ne sono andati. Insieme.

Da Senigallia al Monte Catria

Da Senigallia, che si trova sulla costa adriatica a Nord di Ancona, nelle giornate chiare e serene, guardano verso Ovest, tra il profilo della catena appenninica che ci appare variamente sfumato all’orizzonte, si può osservare la sagoma del Monte Catria col suo caratteristico “gibbo” dantesco (Alcuni cultori di studi danteschi sostengono che Dante fu anche a Senigallia, perché solo da qui è possibile vedere il Catria con il caratteristico “Gibbo”). Maestoso nella sua mole, per più mesi all’anno incappucciato di bianco, il nostro monte, alle spalle delle colline marchigiane, è tra gli altri di certo il più bello per i suoi interessanti aspetti geologici, per le molteplici attrattive botaniche e per tutta quella miriade di curiosità naturalistiche che è in grado di offrirci.

Mettiamoci dunque in viaggio e percorrendo la SS N. 16 (Adriatica) verso Nord per circa cinque chilometri attraversiamo il ponte sul fiume Cesano e voltiamo immediatamente a sinistra sulla strada che ci porterà verso San Lorenzo in Campo e Pergola.

Non a caso il nostro itinerario ha avuto inizio da Senigallia; infatti a noi sembra che questa ridente cittadina, famosa per la sua immensa spiaggia dalle sabbie finissime e vellutate, sia il naturale avampaese del gruppo del M. Catria in quanto vicinissima alla valle del Cesano che ora risaliamo e che è quella percorsa dall’omonimo fiume che nasce da versante Sud del nostro monte. Questa valle si presenta ampia e ricca di verde; le colline declinano dolcemente sia verso il mare che verso il fiume testimoniando così con la morbidezza delle loro forme, i tipi geologici presenti, cioè argille e sabbie del Pliocene; nei tratti in cui si riscontra una morfologia leggermente più aspra troviamo affioramenti di sabbie e arenarie debolmente cementate. Dopo quattro chilometri circa si sale su un evidentissimo e direi quasi didattico terrazzo fluviale; dopo poche decine di metri ci si immette sulla SS 424 proveniente da Marotta. Ai lati è possibile osservare i campi con le colture più caratteristiche della zona che oltre al grano e alle erbe foraggere tradizionali (medica, sulla, trifoglio) annoverano anche barbabietole, mais, cavolfiori ed ottimi vigneti; oggi si notano anche molte colture più moderne e specializzate quali il pomodoro, il pisello, il peperone, il girasole, la cipolla ed altre di questo genere. Dopo nove chilometri (sempre dal ponte su fiume Cesano) ci appare sul pendio delle colline che sono alla nostra sinistra un bosco artificiale a conifere e latifoglie con molti e grandissimi lecci; questo ha una estensione di circa dieci ettari ed è conosciuto come il bosco di Monterado poiché sorge ai piedi dell’omonimo paese noto soprattutto per la tradizionale a sagra della “porchetta” che ogni anno raccoglie qui, i primi giorni di maggio, gente da tutta la regione.

Ancora più avanti, sulla destra, Castelvecchio e poi Monteporzio; quest’ultimo toponimo ci ricorda come una volta tutte queste colline fossero ricoperte da estesi querceti e quindi anche… luogo di pascolo per i maiali. Dopo una trentina di chilometri incontriamo San Lorenzo in Campo. Dopo questo centro abbandoniamo i terreni del Pliocene che erano qui presenti soprattutto con le argille marnose e siltose, azzurre del Pliocene inferiore e medio ed entriamo nelle argille marnose ed arenarie del Miocene superiore, che sovrastano di poco la strada stessa, la quale corre pero sempre sulle alluvioni terrazzate del fiume. Prima di arrivare a Pergola, da cui distiamo ancora una decina di chilometri, incontriamo la caratteristica alternanza di calcari marnosi e marne della formazione dello “Schlier” e soprattutto del “Bisciaro” (il termine “bisciaro” ha avuto forse origine dal tipico aspetto degli strati calcarei nodulosi che simulano la sagoma di un rettile). Poco prima del bivio per Monterolo possiamo osservare, per quasi un chilometro, il primo affioramento di “Scaglia cinerea”, altra caratteristica formazione della serie marchigiana. Successivamente, poco prima di Pergola, la strada toccherà la formazione della Scaglia cinerea che in quel punto presenta tipiche alternanze di marne grigio-verdognole e rosso-vinate in cui non è troppo difficile rinvenire molte interessantissime “impronte problematiche”.

La località ora raggiunta, Pergola, è oggi poco conosciuta, fu fondata nel 1200 dagli Eugubini alla confluenza del Cinisco col Cesano, sui terrazzi alluvionali; godeva nel Medioevo di grande celebrità per la produzione e la lavorazione delle lane, che qui era fiorente.

A questo punto ci si presenta la possibilità di scegliere due percorsi: prendere la strada che conduce a Cagli e percorrerla fino a S. Savino dove si volta per Frontone (da qui ancora due chilometri di strada in terra battuta, ma con fondo agevole), oppure passare per Bellisio Solfare e Serra S. Abbondio per giungere fino a Frontone; chi volesse, da Bellisio Solfare può raggiungere con una piccola deviazione Percozzone e Cabernardi per raccogliere cristalli di zolfo nelle discariche delle miniere un tempo assai sfruttate. Pur essendo la prima strada proposta forse la più panoramica, in quanto ci consente di vedere il gruppo del Catria nella sua completezza, noi transiteremo per la seconda poiché ci permette l’attraversamento di zone più interessanti dal punto di vista geologico e perché consente, a coloro che lo volessero, di effettuare una sosta al Santuario della Madonna del Sasso, che sorge inerpicato su un dirupo scosceso, circa duecento metri prima del bivio per Serra S. Abbondio. Da qui la strada che corre ora con un tappeto asfaltato di ottima qualità, incide più o meno profondamente una anticlinale, mettendo in luce particolarmente una alternanza di calcari marnosi e marne della formazione della “Scaglia rossa”, che con varie, policrome ed elegantissime sfumature ci accompagnerà per un certo tratto.

Di fronte a noi, improvvisamente, su un cucuzzolo caratteristico ed inconfondibile, ci appare il Castello malatestiano di Frontone, altra apprezzata meta di gite ed escursioni… gastronomiche. Qui infatti si trovano le specialità più gustose a tipiche di tutta la zona, cioè il coniglio in porchetta, la crescia (una specie di piadina romagnola) col prosciutto e dell’eccellente agnello arrosto. Si continua oltre Frontone, verso Cagli, per un chilometro, fino alla frazione di Buonconsiglio dove si volta a sinistra di fronte alla chiesetta, per la stradina che ci condurrà fino al rifugio della Vernosa, a duecento metri dalla vetta. Abbandonate le case di Buonconsiglio la strada corre a fondovalle, parallela ad un torrentello le cui acque ci scendono incontro tenendosi sulla nostra sinistra.

Ad un certo punto arriviamo ad una caratteristica gola chiamata Stretto del Mandrale, il cui fianco sinistro è per la maggior parte dell’anno bagnato da uno stillicidio che consento lo sviluppo di feltri viscidi e compatti di Cianoficee; nelle nicchie e nei luoghi adiacenti prosperano moltissime felci dalle fronde delicate ed eleganti. Circa cinquanta metri prima dello stretto è possibile rinvenire, nel detrito di falda che si trova sulla destra, una interessantissima stazione di Drypis spinosa, una bellissima cariofillacea che attira l’attenzione dell’osservatore non solo per le sue foglie oltremodo pungenti, ma anche e soprattutto per il suo habitat d’avanguardia: infatti vive rigogliosa su questa grossolana breccia calcarea che tra l’altro è in continuo movimento. Questa è una specie di origine balcanica e ciò ha permesso ad alcuni ricercatori di fare interessantissimi studi sulle relazioni che intercorrono tra le flore appenniniche e quelle danubiano-carpatiche.

Continuiamo il percorso ed affrontiamo i primi tornanti che incidono i fianchi della montagna rendendo visibili gli strati di calcare biancastro a grana fine (calcare rupestre) in cui si possono osservate chiaramente gli effetti della microtettonica; nei giunti di stratificazione, e più precisamente nelle piccole cavità che qui si sono formate, e facile rinvenire molti piccoli cristalli di calcite, la cui raccolta è assai facile e divertente.

Sulle pendici più ripide della montagna s’intravedono delle macchie quasi nere sparse qua e là: sono i lecci che hanno resistito alla millenaria caccia dell’uomo e che con caparbietà sostengono questa terribile battaglia per la vita.

Gli aspetti vegetazionali sono qui i più disparati nelle diverse stagioni; in marzo i primi accenni della vita che riprende li dà il Corniolo (Cornus mas) che si ricopre di minuscoli fiori gialli prima ancora di inverdire. Subito dopo è possibile cogliere i colori delicatissimi degli amenti dei noccioli (Corylus avellana) che sono sparsi qua e la nella boscaglia. L’estate è un’esplosione di verde che gradualmente scema nella policromia indescrivibile del paesaggio autunnale. In mezzo alle querce incontriamo frequentemente carpini, aceri e frassini; tra i muschi che tappezzano le pareti più ripide ed umide si notano i magnifici esemplari di una bellissima Polipodiacea, Ceterach officinarum, la “Felce rugginosa”.

I faggi li incontriamo poco prima di raggiungere i prati di Valpiana che sono a quota 950 circa. Qui, stante la presenza di un opportuno ricovero, troviamo al pascolo molte mucche, alcuni cavalli ed i muli, collaboratori insostituibili dei boscaioli. Nel mese di maggio questa zona è ancora più bella del solito a causa di una splendida fioritura di candidi asfodeli.

Tra i faggi, per ancora un paio di chilometri rinveniamo abbondante l’Agrifoglio (Ilex aquifolium); nel sottobosco ci sono Daphne laureola, Scilla bifolia, Cardamine bulbifera, e talvolta anche una bellissima Papaveracea, Corydalis cava.

Abbiamo superato quota mille e percorriamo la strada che è stata tracciata sul fianco nord del Monte Acuto nel mezzo del bosco di faggio che qui è piuttosto giovane ma rigoglioso e vitale; ciò testimonia le adatte condizioni ecologiche presenti per questa specie. Sempre sul fianco dell’Acuto esiste un piccolo rifugio aperto a tutti e quindi anche affidato alla pubblica educazione; purtroppo stiamo costretti a lamentarci (e il discorso vale anche per il prossimo rifugio, quello della Vernosa) della maleducazione e della scorrettezza dei visitatori che lasciano qui in terra i resti dei loro festini e che imbrattano molto volentieri anche i muri di queste stanze. Proprio qui intorno al rifugio è facile la ricerca delle ammoniti liassiche e con un pò di fortuna e buona volontà se ne possono trovare degli esemplari interi e piuttosto belli. Sì continua a salire su questa strada che è di recente costruzione; come le altre (più nuove e più inutili) ha inferto con il suo tracciato una grave ferita alla montagna. Arriviamo ai primi prati; in questa zona si trovano le rocce più antiche, infatti sotto le cosiddette Balze della Porta c’è il “Calcare Massiccio”, formazione ben individuabile perché costituita da calcari, calcari dolomitici anche cristallini senza stratificazioni evidenti. In tutto il resto della zona c’è la formazione della “Pietra corniola”, costituita da calcari grigio-brunastri, ben stratificati, con all’interno eleganti e regolarissimi cristalli di pirite, noduli e lenti di selce grigia, ammoniti, brachiopodi ed echinidi.

La vetta del Catria, che si raggiunge a piedi dal rifugio della Vernosa in circa venti minuti, è costituita da calcare rupestre, i cui strati emergono abbastanza regolarmente in direzione S-W.

Sulla sella tra i due monti (Acuto e Catria) si osservano dei magnifici prati circondati dal ceduo di faggio in cui sono sparsi qua e là cespugli di questa specie che assumono qui forme elegantissime in seguito sia all’azione del vento sia come conseguenza delle morsicature inferte dal bestiame durante il pascolo (“meccanomorfosi”). È difficile dire quante sia il più bello tra gli spettacoli che ci vengono offerti dalle fioriture primaverili: all’inizio distese di crochi, poi la fantasmagoria dei colori delle viole e delle primule che for mano un tappeto continuo. Qua e là ogni tanto si osserva il volo festoso del Fringuello, del Cuculo, della Ghiandaia che rallegrano ancor di più il paesaggio. In questi luoghi fino a qualche decina di anni fa c’erano le aquile che nidificavano; il territorio era considerato come il più nordico raggiunto dal lupo; per la Coturnice, che dovrebbe essere la regina incontrastata di queste vette, dobbiamo dire che non è così frequente come ci si potrebbe aspettare. Nella zona ci sono oggi i cinghiali liberati qualche anno fa a titolo sperimentale dal Comitato della Caccia di Pesaro; essi sono divenuti numerosissimi ed anche molto dannosi perchè “rufolano” sui prati incidendo gravemente la cotica erbosa ed offrendo cosi la prima via d’attacco all’erosione. Ad un centinaio di metri dal rifugio arriva anche la strada che, dall’antica Abbazia di Santa Croce di Fonte Avellana, sale sul versante Sud-Est del Monte attraverso bellissimi boschi di faggio, seguendo un tracciato molto discutibile anche dal punto di vista tecnico. Scendendo di qui qualcuno potrà fermarsi per raccogliere un po’ di vischio (Viscum album) che cresce rigoglioso su alcuni faggi, e che, sempre verde com’è, si può notare molto più facilmente in inverno.

Dopo essersi ancora fermati in qualche prato per raccogliere Carlina acaulis var. caulescens (oggi tanto apprezzata per le composizioni di fiori secchi), arriviamo all’Abbazia che sorge ai piedi del monte, nel mezzo di un “catino” di detriti di falda quivi assai potenti; il luogo è bello paesisticamente e l’architettura della costruzione assai interessante: infatti vi si può ammirare un chiostro, una sala capitolare, un refettorio e l’antico scrittolo dove i monaci ricopiavano i testi classici; la chiesa è costituita da una navata con presbiterio sopraelevato che appoggia sulla cripta sottostante; l’abside ha forma circolare. Dal piazzale antistante il Monastero si può osservare un magnifico esemplare di Tasso (Taxus baccata) a testimonianza di come una volta questa specie crescesse abbondante nella zona; oggi è possibile rinvenire solo alcuni piccoli esemplari sparsi più in alto nel ceduo di faggio.

Seguendo la strada di fondo valle ci si porta rapidamente fino a Serra S. Abbondio, luogo in cui vi salutiamo e vi auguriamo un buon rientro alle vostre città; ci scusiamo con voi qualora vi avessimo fatto affaticare un po’ troppo, ma siamo sicuri che ricorderete sempre con piacere il Monte Catria.

(Ringrazio il dott. Francesco Corbetta ed il dott. Giulio Pisa per il prezioso aiuto e gli appassionati consigli che hanno contribuito ad una migliore stesura di questo lavoro).

L’Italia e il terrorismo islamico

Dopo i ripetuti inviti di mescalino e andrea finalmente mi sono deciso a scrivere alcune brevi righe sul terrorismo di matrice islamica che in questi giorni sta colpendo ripetutamente in Europa e nel resto del mondo minacciando attentati anche in Italia.

L’ ispirazione mi è venuta leggendo proprio su popinga un articolo di andrea intitolato “Lacrime e Sangue”, dove partendo da una affermazione del direttore di libero Vittorio Feltri (per me condivisibile), sul fatto che per avere maggiore sicurezza bisogna rinunciare ad un po’ di libertà, si ribadiva la posizione liberale secondo cui anche le emergenze gravi come il terrorismo vanno affrontate senza misure eccezionali e nel rispetto delle leggi ordinarie.

Questa posizione, se in linea di principio può essere condivisibile, non tiene, secondo me, conto della situazione e delle caratteristiche del moderno terrorismo, riflettendo purtroppo l’incapacità della nostra classe politica di affrontare e risolvere i problemi del paese reale senza ricorrere ai soliti teatrini e alle astuzie da legulei che hanno ormai schifato tutti gli italiani.

Nei dibattiti televisivi infatti tutti sono d’accordo nel riconoscere le peculiarità di questo terrorismo basato sul fanatismo religioso ed antioccidentale rispetto al terrorismo degli anni ’70 e ’80 che era invece di natura ideologica o nazionalista (come ad esempio nel caso dell’ IRA) ma nessuno sembra disposto ad affrontare seriamente il problema di come, aldilà delle misure proposte dal governo, il nostro paese deve affrontare il problema del terrorismo e dei rapporti con l’islam.

L’unico vantaggio che l’Italia ha nei confronti dei terroristi è che essi appartengono tutti, come hanno dimostrato gli attentati di Madrid e Londra, alle comunità islamiche dove trovano aiuti e fiancheggiatori e che per nostra fortuna queste comunità sono facilmente identificabili e controllabili all’interno del territorio nazionale anche perché composte da persone di origine araba o africana anche se ben integrate.

Quindi è vero che bisogna agire, come da più parti ripetuto, in campo internazionale e ben vengano le misure approvate dal governo tra cui quella che permette all’esercito di perquisire persone e cose (approvata proprio ieri), ma soltanto colpendo duro i terroristi ed i loro fiancheggiatori con misure volte ad un maggior controllo sulle comunità islamiche italiane (come ad esempio l’espulsione degli imam più pericolosi, la chiusura delle moschee, la schedatura di tutti i mussulmani e degli italiani convertiti all’islam, le limitazioni per l’acquisto di apparecchiature elettroniche come i computer e i telefonini o all’accesso a determinate professioni legate alla sicurezza nazionale) si potranno prevenire nuovi attentati evitando di piangere nuovi morti e si darà maggiore sicurezza ai cittadini.

I soloni liberali e i loro amici comunisti si mettano il cuore in pace, purtroppo siamo in guerra (per fare la guerra diranno loro, bisogna essere in due ma come la storia insegna per dichiararla basta uno solo) e per tutti, ma sopratutto per chi comanda, dovrebbe valere l’antico detto latino “Salus Rei Publicae suprema lex esto”, senza contare che è mille volte preferibile, pur nella sua decadenza e nelle sue contraddizioni, la nostra civiltà occidentale che la folle teocrazia islamica di Bin Laden e soci.

La Grande Storia della Guerra

Quali sono le pulsioni dell’animo umano che spingono alla guerra? Come si è evoluto il concetto di guerra e la sua realizzazione pratica?

John Keegan risponde a queste domande partendo dalle prime battaglie rituali dei popoli preistorici sino al concetto di annientamento totale dell’avversario. Keegan parte appunto dai combattimenti dell’età della pietra, spesso incruenti e puramente rituali, per poi legare lo sviluppo dell’arte bellica allo sviluppo della società stessa.

Con la nascita dell’agricoltura cominciano infatti i primi conflitti tra popoli nomadi e popoli sedentari nelle pianure dell’Asia minore. Questo periodo vede l’avvento dei popoli a cavallo (animale domesticato già nel IV millennio a.C.), prima tramite il carro da combattimento, che porta gli Assiri al dominio di tutta la mezzaluna fertile.

In seguito il carro da combattimento (utile solo in pianura) viene soppiantato dall’uso del cavallo montato. A prendere il sopravvento sono dunque i popoli della “steppa”, eccellenti cavalcatori, tra cui i più noti sono gli Unni, i Turchi e i Mongoli, che riusciranno a conquistare il più grande impero della storia.

Parallelamente i Greci cambieranno radicalmente il modo di combattere, introducendo la “falange”, la prima forma di esercito organizzato in maniera “moderna” con un armamento standardizzato (la panoplia) e uno schieramento disciplinato. I romani modificheranno poco questo schema, rendendolo solo più flessibile, nella conquista del loro grande impero.

E’ solo nel XV secolo che avviene un’altra svolta epocale: l’avvento della polvere da sparo e del cannone che permette ai turchi di abbattere le poderose mura di Costantinopoli.

Il cambiamento introdotto dal cannone non è solo tattico ma anche psicologico: dallo scontro “corpo a corpo” si passa “all’uccisione a distanza” che finisce per togliere ogni remora ai guerreggianti. Si giunge così alla teoria “dell’annientamento totale dell’avversario” ottenibile ai nostri giorni con le “armi di ditruzione di massa”.

Siamo giunti quindi alla fine della guerra? La paura dell’annichilimento totale porrà fine all’innato istinto che porta gli uomini a sfogare la propria aggressività contro i propri simili? Keegan conclude la sua analisi asserendo che la guerra è diventata ormai una abitudine per l’uomo, ma che non sopravviveremo se non ci disferemo delle nuove abitudini che abbiamo imparato!

John Keegan
La grande storia della guerra
Dalla preistoria ai giorni nostri

(Mondadori, 1996)

“The Marble Man” di Thomas L. Connelly

Chi non conosce il mitico generale Robert E. Lee comandante dell’armata della Virginia durante la guerra civile americana? Ebbene la sue fama ha valicato i confini degli Stati Uniti ed è giunta in tutto il mondo. Molti conoscono il nome del generale Lee pur essendo completamente all’oscuro delle vicende e dell’esistenza stessa di questo conflitto.Ma come ha potuto la figura di Lee, uno degli sconfitti, divenire così famosa?

Ce lo spiega Thomas Connelly, professore di storia dell’università della Carolina del Sud, in questo interessante saggio. In realtà alla fine della guerra civile la fama del generale Lee era pari, se non inferiore, a quella di altri generali confederati tra cui “il vecchio Joe” Johnston, “Stonewall” Jackson ed altri. Certo il ruolo di Lee durante la guerra fu di primo piano e fu l’unico generale sudista che provò a invadere il territorio dell’Unione, ma la sua fama e la sua grandezza crebbero solamente al termine della guerra e dopo la sua morte.

Le varie generazioni che gli succedettero crearono e modificarono l’immagine del generale a seconda dei loro scopi politici, facendolo diventare prima un idolo dei popoli del Sud, vinti ma sempre combattivi e pronti al riscatto, poi un vero e proprio simbolo nazionale, venerato anche al Nord da coloro che lo avevano sconfitto, ed infine un eroe della middle-class, il prototipo dell’uomo libero che combatte per la sua terra contro le ingiustizie. Insomma la figura di Lee viene plasmata ogni volta in maniera diversa a seconda dei fini politici dei suoi apologi.

Una visione della storiografia alquanto orwelliana che ci invita a riflettere sui personaggi storici, su come le loro figure siano state rappresentate attraverso i secoli e su come siano giunte a noi. Un monito a essere sempre critici di fronte alla storia ricordando che questa, come noi la conosciamo, non è la pura verità, ma solo una rappresentazione fatta da uomini con i loro fini politici e propagandistici.

The Marble Man
di Thomas L.Connelly (libro in inglese)