Quando il giornalismo va a farsi benedire /1

Ogni tanto, in qualche telegiornale capita di imbattersi in “notizie” come queste: “il tal ministro smentisce seccamente le accuse di corruzione nei suoi confronti”, oppure “il governo ribadisce la piena fiducia al tal politico investito dai violenti attacchi dell’opposizione”.
Le accuse di corruzione o i violenti attacchi non costituiscono notizie con dignità autonoma e meritevoli d’approfondimento: censurate come tali, sono riportate solo per essere neutralizzate da una tempestiva smentita.

Simili miserie, si parva licet, capita di vedere anche a Senigallia. Dopo queste note, mi riprometto di non tornar più sull’argomento. Visti gli interlocutori, conviene lasciar perdere.

Su La Voce Misena dello scorso 30 giugno è apparso un corsivo a firma di P. Alberto Teloni dal titolo “Blasfemia”. A tale articolo ho risposto l’11 luglio, inviando alcune puntuali osservazioni alla redazione del settimanale e per conoscenza all’autore. Ho chiesto che fossero pubblicate, tutte o in parte, nello spazio dedicato agli interventi dei lettori.
In assenza di un riscontro, ho reiterato la richiesta via e-mail 5 volte (20 e 22 luglio; 5, 9 e 22 agosto) sperando in una risposta, di qualunque segno fosse. Se la pubblicazione non fosse possibile – per qualsiasi motivo: contenuti, linea editoriale, mancanza di spazio, o semplicemente perché il giornale non pubblica interventi di chi si chiama Andrea – che almeno si avesse l’onestà di dirmelo. Invece nulla: silenzio assoluto.
Poi, il 25 agosto su La Voce Misena nº 29 è uscita la contro-replica di Teloni ai miei commenti mai pubblicati. Senza entrare nel merito di ciò che scrive Teloni (e ci sarebbe parecchio da dire), voglio complimentarmi con La Voce Misena per il metodo.

Un capolavoro assoluto di giornalismo surreale: si pubblica un articolo, si censura la replica di un lettore ed infine si pubblica la contro-replica dell’autore. Ovviamente l’autore fa riferimento alla replica, ma di questa ai lettori non è dato conoscere neanche una riga. Tutte le affermazioni restano allora sospese a mezz’aria, svuotate e non verificabili: da una parte ci sono i monologhi del rispettabile opinionista, dall’altra un fantasma senza voce.
Cosa capiscono i lettori dell’intera vicenda? Nulla, ma poco importa, quando l’obiettivo è evitare il contraddittorio.
Da dei giornalisti avrei gradito un minimo di professionalità, ma mi sarebbe anche bastato uno straccio di decenza e d’educazione. Sempre che, beninteso, simili metodi abbiano qualcosa a che vedere col giornalismo.
Di nuovo, i miei complimenti.

Il giorno 16

«L’organizzazione di quest’azione era pronta per il 16 mattina come uno dei giorni probabili in cui sarebbe potuto o sarebbe anche potuto non passare l’onorevole Moro, perché non c’era certezza, perché avrebbe anche potuto fare un’altra strada. Era stato verificato che passava lì da alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre».

Così, davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma, Valerio Morucci, uno degli esecutori materiali del sequestro Moro, inizierà il racconto di quel 16 marzo 1978.
In effetti, come confermato dagli agenti di scorta in turno di riposo quel giorno, il percorso che passava per via Mario Fani era uno dei più frequenti, ma non l’unico: poteva anche essere cambiato sul momento per motivi di sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova del presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi Moro e la scorta «si angosciavano enormemente su queste cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i percorsi tutti i giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare in qualche modo cambiamenti degli orari se era possibile».
L’elementare, cruciale domanda che ne deriva è dunque: «come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato?»
Eppure, l’agguato era stato pianificato con ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in via Fani:

  • Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di “solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo poteva contare sui voti determinanti del Partito Comunista.
    Tale concomitanza difficilmente può essere considerata un caso.
  • Nella notte tra il 15 e il 16, in tutt’altra zona di Roma, erano state tagliate le gomme del furgone con cui il fioraio Antonio Spiriticchio ogni mattina di recava a vendere fiori all’angolo tra via Fani e via Stresa, cioè proprio nel punto dell’attentato. I “vandali” volevano evidentemente evitare intralci all’azione prevista la mattina seguente.
  • Al processo d’appello la brigatista Adriana Faranda dirà di avere saputo della data fatidica due-tre giorni prima, e che i “regolari” del Nord, partecipanti all’azione di via Fani, giunsero a Roma il giorno precedente. Valerio Morucci, a sua volta, dichiarerà che furono rimproverati coloro che erano stati incaricati del furto delle auto, perché tre giorni prima del 16 marzo non era stata ancora procurata la Fiat 132 che doveva servire per il trasporto del sequestrato da via Fani. Il brigatista Antonio Savasta confermerà che il “commando” andò per la prima volta “operativo” in via Fani proprio il 16 marzo, il che dimostra che i preparativi furono affrettati per poter compiere l’azione criminosa quel giorno.

I fatti

Appena dopo le ore 9 del 16 marzo, all’incrocio tra via Fani e via Stresa nella zona di Monte Mario a Roma, una Fiat 128 bianca con targa diplomatica frena bruscamente all’altezza dello stop. Le due auto provenienti da dietro, una Fiat 130 blu con a bordo il presidente della DC Aldo Moro e un’Alfetta bianca di scorta, non riescono ad evitare il tamponamento a catena, anche perché le luci di stop della 128 non funzionano. L’autista della 130, appuntato Domenico Ricci intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare marcia-avanti e marcia-indietro per guadagnare un varco su via Stresa, ma è troppo tardi. Il capo brigatista Mario Moretti scende dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130; contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal fuoco di fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da piloti che sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. L’agente Raffaele Iozzino, seduto sul sedile posteriore dell’Alfetta, riesce a scendere e a sparare un paio di colpi contro gli assalitori, ma viene subito freddato.
L’azione dura tre minuti: restano uccisi quattro uomini della scorta (Domenico Ricci e il maresciallo Oreste Leonardi, sulla 130; gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera sull’Alfetta); Francesco Zizzi, anche lui sull’Alfetta, morirà poco dopo in ospedale. Poi, con una calma quasi surreale visto quello che è appena successo, Aldo Moro viene prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132 che si allontana preceduta e seguita da due 128.

I punti aperti

La dinamica dell’agguato, insieme a ciò che avvenne nei minuti precedenti e successivi, è stata ricostruita in cinque processi sulla base delle prove, dei riscontri balistici e delle dichiarazioni rese dai brigatisti e dai testimoni.
Nonostante ciò, numerosi sono ancora i punti non chiariti. Vediamo i più significativi.

  • Il preannuncio. Diversi testimoni riferiranno d’aver ascoltato verso le 8:30 del 16 marzo, cioè prima del rapimento, su Radio Città Futura (emittente vicina all’Autonomia romana), la notizia di un imminente attentato a Moro. Renzo Rossellini, il direttore della radio ai microfoni quella mattina, smentirà e resterà sul vago, ammettendo di aver solo accennato ad un’ipotesi che «circolava negli ambienti dell’estrema sinistra»: che in occasione del nuovo governo le Brigate Rosse stessero «per tentare, molto prossimamente, forse lo stesso giorno, un’azione spettacolare», per esempio «un attentato contro Aldo Moro». Incredibilmente, mezz’ora dopo Moro venne rapito.
    Cosa davvero trasmise la radio rimarrà un mistero. La Commissione Moro accerterà che «né gli organi di polizia, né i servizi informativi provvedevano all’epoca alla registrazione sistematica delle radio libere, ma operavano semplicemente su campioni, percorrendo cioè le varie lunghezze d’onda e fermando l’attenzione sulle notizie interessanti sotto il profilo dell’ordine pubblico. Né la stessa radio effettuava registrazioni delle proprie trasmissioni». Guarda caso, però, il Centro di ascolto dell’UCIGOS (che ascoltava e registrava le radio private) interruppe la registrazione dalle 8:20 alle 9:33, cioè proprio a cavallo del rapimento.
  • Il commando. Quanti furono e chi furono i componenti del commando che attuò la strage di via Fani? Non sarà mai stabilito con certezza. La sentenza del processo di primo grado in Corte d’assise, sulla base di tutte le testimonianze, stabilirà la presenza di 14 terroristi tra via Fani e via Stresa; i brigatisti invece, tra ripensamenti, aggiunte e sottrazioni, hanno sempre dichiarato un numero non superiore a 10.
    Dei 91 bossoli recuperati sul posto, ben 49 appartengono ad una stessa arma, 22 ad un’altra ed il resto alle altre quattro armi usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi?
    Gli sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro, indossavano divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser ricorsi al travestimento per non dare nell’occhio, in quanto nella zona di via Fani abitavano parecchi piloti dell’Alitalia. L’accorgimento però sembra quantomeno singolare: nel momento della fuga le divise sarebbero diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si conoscevano tra loro?
  • La moto Honda. Chi erano i due motociclisti a bordo della moto Honda blu di grossa cilindrata che fu vista transitare subito dopo l’agguato, e da cui partirono alcuni colpi di mitra verso un testimone? La presenza della moto, sempre ufficialmente negata dai brigatisti, è avvalorata da numerose testimonianze: che si trattasse di un intervento inatteso o indesiderato sulla scena dell’agguato, da parte di brigatisti non regolari o comunque di entità estranee?
  • La fuga. Eliminata la scorta e rapito Moro, il commando si dileguò nel traffico di Roma con tre automobili: una Fiat 132 con il sequestrato e due Fiat 128. Incoerente, a tratti del tutto inverosimile appare il racconto dei brigatisti sulla fuga da via Fani, il primo trasbordo del sequestrato in un furgone, il secondo trasbordo in un’altra auto e infine l’arrivo al covo-prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a trenta chilometri dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato tenuto per tutti i 55 giorni del sequestro.
    Ancor più incredibile è la beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per la fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi per Roma con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse poteva contare su una base logistica mai individuata nei dintorni?
  • Lo strano invitato. Quella mattina in via Stresa, a pochi passi dal teatro della strage, era presente il colonnello del SISMI Camillo Guglielmi, appartenente alla VII divisione (quella che controllava Gladio), alle dirette dipendenze del generale Musumeci. La presenza di Guglielmi, rivelata solo nel 1991 dall’ex agente del SISMI Pierluigi Ravasio, fu giustificata col fatto che egli si doveva recare a pranzo da un collega, il colonnello Armando D’Ambrosio. Interrogato, D’Ambrosio si disse sicuro di aver ricevuto Guglielmi verso le 9 di mattina, ma non ricordò di averlo invitato per pranzo. In tal caso, Guglielmi sarebbe arrivato con un anticipo davvero eccessivo…!
  • Il black out. Nella zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out interruppe le comunicazioni telefoniche impedendo le prime fondamentali telefonate di allarme e coprendo di fatto la fuga dei terroristi. Per la SIP il black out fu dovuto al sovraccarico delle chiamate; per i brigatisti ad alcuni “compagni” che lavoravano nella compagnia telefonica. Nessuno ha però finora spiegato come mai il giorno prima (15 marzo, alle 16:45) la struttura della SIP collegata al SISMI fosse stata messa in stato di allarme come doveva accadere in situazioni d’emergenza quali crisi nazionali e internazionali, eventi bellici e atti di terrorismo.
  • Le foto. Quella mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece un salto a casa, in via Fani 109, a prendere la macchina fotografica: doveva mandare alle compagnie assicurative le foto di alcune automobili da riparare. Subito dopo la strage e prima ancora dell’arrivo di polizia e ambulanze, dal suo balcone Nucci riuscì a scattare alcune foto della scena della strage. L’indomani la moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA, consegnò il rullino al magistrato inquirente Luciano Infelisi. Le foto sparirono: non se ne seppe più nulla, tranne forse per un improvviso interessamento da parte della ‘ndrangheta calabrese. Il 1º maggio, infatti, fu intercettata una telefonata tra Benito Cazora, parlamentare DC in contatto durante il sequestro con settori della ‘ndrangheta per aver notizie sulla prigione, e Sereno Freato, stretto collaboratore di Moro:

    Cazora: Un’altra questione, non so se posso dirtelo…
    Freato: Sì, sì, capiamo.
    Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 marzo.
    Freato: Quelle del posto, lì?
    Cazora: Sì, perché loro… [nastro parzialmente cancellato]… perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù.                         
    Freato: È che non ci sono… ah, le foto di quelli, dei nove. 
    Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio… noto a loro.
    Freato: Capito. È un po’ un problema adesso.
    Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?
    Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire. 
    Cazora: Dire al ministro.
    Freato: Saran tante!

    Cazora, dunque, era preoccupato perché dalla Calabria gli avevano fatto sapere che in una fotografia scattata subito dopo la strage compariva un personaggio noto a loro.
    A quali foto si riferiva Cazora? Non lo sappiamo con certezza, ma in ogni caso l’episodio ci dice due cose: che un uomo della ‘ndrangheta era presente in via Fani dopo la strage, e la sua presenza non era casuale, visto che i calabresi si preoccupavano che il reperto venisse preso in considerazione. Se poi, com’è probabile, Cazora si riferiva alle foto di Nucci, si può dedurre che costoro avevano avuto accesso alle foto e addirittura trovato il modo di farle sparire.
    Chi era il personaggio ritratto nella foto?

Bibliografia

  1. Processo Moro I grado, sentenza della Corte d’assise di Roma (presidente S. Santiapichi), 24/01/1983.
  2. Processo Moro II grado, sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma (presidente G. De Nictolis), 14/03/1985.
  3. Commissione Moro, Deposizione di Eleonora Moro, 11/08/1980.
  4. Commissione Moro, Relazione di maggioranza.
  5. Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro”, Adelphi 1978.
  6. Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini Recchia, “Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale”, Franco Angeli 1984.
  7. Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Kaos 1993.
  8. Sergio Flamigni, “Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro”, Kaos 1998.
  9. Alfredo C. Moro, “Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro”, Ed. Riuniti 1998.
  10. Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico”, Ed. Riuniti 1998.
  11. Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000.

L’indemoniato

Il 28 luglio, in Piazza Roma a Senigallia, serata sul satanismo. Sul palco un sacerdote, don Aldo Buonaiuto, coordinatore del numero verde anti sette occulte, ausiliare di polizia giudiziaria e consulente tecnico della magistratura. Presentando il libro “Le mani occulte, viaggio nel mondo del satanismo”, Don Buonaiuto ha tratteggiato il fenomeno, la sua storia e le molteplici sfaccettature. Un punto di vista socio-religioso, tutto sommato interessante ed equilibrato.

Poi, a metà serata, quando s’è trattato di analizzare le cause del fenomeno, Don Buonaiuto ha fatto intervenire sul palco un indemoniato. Aveva le sue stesse sembianze, portava gli stessi vestiti e addirittura lo stesso nome. Un indemoniato in carne ed ossa: la prova che Belzebù non solo esiste, ma può tranquillamente passeggiare per le nostre strade in un’afosa serata estiva.

L’indemoniato ci ha rivelato che, oltre a quelli del mostro di Firenze, anche l’omicidio di Cogne e la recente morte dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi (una studiosa del tema) potrebbero nascondere casi di satanismo. Chissà, magari anche Erica e Omar sarebbero disposti a dichiararsi in preda a Satana ed ottenere uno sconto di pena. Dopo la Pedofili S.p.A. ci mancava la Satanisti S.r.l.
Di seguito se l’è presa col relativismo etico e la scristianizzazione della società, che hanno rimosso il sacro, ridotto al silenzio e alla subalternità l’etica cristiana (soprattutto cattolica) e proposto modelli vuoti e ingannevoli, su cui le sette prolificano. Tra i modelli ingannevoli, oltre ai soliti (denaro, droga, successo, affari, edonismo, ecc.), ci sarebbe anche Harry Potter (noto anticristiano, già oggetto delle attenzioni del Papa). Anche il Codice da Vinci sarebbe pericoloso: troppo critico verso la Chiesa, le crociate e l’Opus Dei, avrebbe il torto di spacciare finzione per verità. Per non parlare della New Age…

Mentre l’indemoniato parlava, a nessuno – neppure a Don Buonaiuto – è passato per la testa che il fiorire di sette occulte, soprattutto in società occidentali evolute di matrice cristiana, potrebbe essere la degenerazione del tentativo di ricerca di una dimensione spirituale e trascendente che le chiese “tradizionali” – nella fattispecie quella cattolica – negli ultimi anni faticano ad offrire.
Se queste chiese alla fede sostituiscono un’etica, in cui la gerarchia si arroga il compito di stabilire cos’è Bene e cos’è Male, e i fedeli sono semplici osservanti tenuti ad uniformarsi a quei precetti, pena non solo essere peccatori ma anche non potersi dire cristiani, ci si può meravigliare se sempre più gente volge lo sguardo altrove?
Per andare sul concreto: una Chiesa che nega il funerale ad una poveretta ritenuta pubblica peccatrice perché viveva more uxorio con un divorziato forse non viene meno alla caritas e alla pietas che molti invece cercano nella dimensione spirituale? Ed ha qualcosa a che vedere con la fede il fatto che una normalissima coppia, anche sposata, non si possa dire cristiana perché fa uso di anticoncezionali?
L’immagine di una cultura cattolica marginalizzata, ridotta al silenzio e all’insignificanza dal relativismo etico e dal “laicismo” semplicemente non esiste. I recenti referendum sono stati l’ennesima dimostrazione del contrario: l’etica cattolica imposta (per legge) a tutti, anche a quelli che non la condividono magari perché appartenenti ad altre confessioni.
Stiamo assistendo in Italia al dilagare del relativismo etico o piuttosto al tentativo di imporre a tutti una sola etica, quella cattolica, magari sottoforma di etica condivisa? È in atto una rimozione del sacro oppure una progressiva dilatazione dello spazio del sacro a tutti gli ambiti dell’esistenza umana? Ma, in tal caso, se tutto è sacro, cosa rimane di sacro?
Non ci aspettavamo che l’indemoniato rispondesse a queste domande, ma almeno che ce (e se) le ponesse Don Buonaiuto.
Macché. Alla fine i due hanno salutato cordialmente, e dopo l’applauso se ne sono andati. Insieme.

InCiampi

È qualche giorno che mi mordo le mani.
Perché polemizzare per l’articolo di Alberto Teloni su La Voce Misena del 30 giugno? Perché discutere sulla blasfemia e rispondere alle falsità sulle bestemmie e i finanziamenti di Radio Radicale, invece di farsi quattro risate leggendo La Voce Misena della settimana precedente?
Credevamo ci fosse un limite alla quantità di balle da sparare in un mese. Ci sbagliavamo.

Il 23 giugno il corsivista de La Voce Misena ci ha fatto sapere che Carlo Azeglio Ciampi non gli piace. Non va bene, il Presidente della Repubblica, per tre motivi:

1) Costa troppo.

«Qualunque cittadino di questa nostra Italia vivrebbe da signore con meno della metà di quello che prendono di stipendio ministri e sottosegretari, parlamentari di ambo le camere e, naturalmente, presidenza della repubblica».
E poi, quello sprecone di Ciampi, ha il maledetto vizio delle parate militari. Passi per quella del 2 giugno, «purtroppo [sic] tradizionale e non del tutto imputabile a lui», ma quella della marina militare «è tutta una sua invenzione»: tra dragamine, portaerei e motoscafo presidenziale, nel golfo di Napoli si bruciano vari milioni di euro in nafta, allestimenti e impegni. Dovrebbe, il presidente dalle mani bucate, prendere esempio dal Papa: niente trasferte, niente aerei (al più un piroscafo in terza classe), pochi allestimenti e impegni. D’altra parte, sembra chiedersi il commentatore, qual è l’utilità dell’istituto presidenziale? Eh già, qual è l’utilità delle cariche rappresentative? L’aporìa è evidente a tutti, tranne che a Padre Teloni.
Ma non importa, veniamoci incontro. Per limitare le spese, si potrebbero accorpare le cariche: allontaniamo Ciampi e nominiamo Benedetto XVI presidente della Repubblica italiana.

2) Non se la smette di fare proclami risorgimentali.

Ha proprio ragione, Teloni: non piace neppure a noi, quello scalmanato di Ciampi, a cavallo con la camicia rossa e il fazzoletto al collo. Come si permette, il capo dello Stato nato dal Risorgimento, invece di girare col santino di Pio IX e il Sillabo, di ricordare quellospregiudicato massone anticlericale di Cavour, che un giorno, dopo aver alzato il gomito, si mise in testa di fare l’Italia unita? Che ci troverà, poi, in quell’avventuriero giramondo di Garibaldi e in quell’altro nullafacente – come cavolo si chiamava… ah sì Mazzini – un gagà di quelli alla armiamoci e partite?

3) È andato a votare per i referendum sulla procreazione assistita.

«Già i referendum sono stati da soli una spesa enorme, ma se avessero ottenuto validità per un solo voto, e non importa la vittoria dei sì o dei no, la colpa del milione di euro rimborsata ad ogni comitato promotore, sarebbe stata proprio di Ciampi».

Non della legge elettorale o della gente che è andata a votare: no, di Ciampi. Come si permette il presidente della Repubblica, garante supremo della Costituzione, di tacere per tutta la campagna referendaria, di non profferire parola né per il voto né per l’astensione, né per il Sì né per il No, di non entrare nel dibattito politico? Avrebbe dovuto fare come Pera e Casini: dichiarare che non sarebbe andato a votare, difendendo e valorizzando la scelta astensionista. E chissà, magari anche iscriversi a “Scienza & Vita” e partecipare ad una puntata di “Porta a Porta”, seduto al fianco di Giuliano Ferrara.
E mica «importa la vittoria dei Sì o dei No». Quell’ingenuo di Ruini non aveva capito niente, si era sbagliato a dire che l’astensione era il modo più efficace di opporsi alla modifica della legge. Non avevano capito niente nemmeno quelli che predicavano l’astensione mirata, responsabile e ragionata. No no: non bisognava andare a votare a prescindere. Il 12 giugno fa troppo caldo, meglio andare al mare.
Diciamo la verità, la democrazia costa. «Sappiamo a chi costa. Ma chi intasca?» si chiede l’anima candida. In caso di raggiungimento del quorum, un milione di euro se lo sarebbero intascato di sicuro, come rimborso, quelle sanguisughe dei comitati promotori.
Un milione, mica un miliardo di euro che s’è beccata nel 2004 la Chiesa cattolica dallo Stato con l’otto per mille…

A Scola di coerenza

«In questo caso, a fronte di una questione epocale e in presenza di quesiti piuttosto astrusi, mi sembra un esercizio formalistico di democrazia pretendere che milioni di persone si esprimano su problemi così complessi con una semplice crocetta sulla scheda. Noi dobbiamo lavorare per una democrazia sostanziale, anche valorizzando i corpi intermedi. L´indicazione del non voto favorisce la maturazione della questione in una società democratica e plurale come la nostra».
(Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, intervistato da La Repubblica il 23 maggio 2005 a proposito dei referendum sulla procreazione assistita)

«Il libero dibattito delle idee va difeso, però alla fine si devono assumere i valori risultanti dal confronto: “Io dico la mia idea, tu la tua; il popolo giudichi qual è la migliore e lo Stato laico la assuma. La democrazia mi pare funzioni così”».
(Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, intervistato dal Corriere della Sera il 17 luglio 2005 sul patto per una nuova laicità)

Mai sputare in alto…

Lo scorso 30 giugno su La Voce Misena, settimanale della Curia senigalliese, è apparso un articolo firmato da Alberto Teloni.
Il pezzo, una vera e propria pinacoteca di castronerie e grossolanità (opinabili), conteneva almeno due falsità (non opinabili): che Radio Radicale, definita «radio libera bestemmia», «usufruisce di generoso finanziamento pubblico perché trasmette in modo integrale le sedute parlamentari».
Senza sentire il bisogno d’informarsi prima di scrivere fandonie, l’autore era andato oltre, producendosi nel seguente capolavoro: «ma a chi interessano le sedute parlamentari? Noia infinita e dibattito scontato».

Se le sedute del Parlamento non interessano a nessuno, ci viene il dubbio che sia così anche per le sedute del nostro Consiglio comunale. Ormai da anni le trasmette in diretta Radio Duomo, che La Voce Misena del 13 luglio definisce una radio «al servizio della conoscenza e quindi della democrazia, […] un modo agile ed efficace di prendere parte alla cosa pubblica».
Per questo servizio, Radio Duomo ha chiesto e ottenuto un finanziamento pubblico – questo sì! – da parte del Comune, il quale ha concesso:
• 1549.37 € per il 2001 (delibera nº 12 del 16/01/2002);
• 2100 € più i.v.a. per il 2002 (determina nº 721 del 24/05/2002);
• 2100 € più i.v.a. per il 2003 (determina nº 914 del 12/06/2003);
• 2400 € più i.v.a. per il 2004 (determina nº 1330 del 12/10/2004).

Personalmente crediamo che il servizio offerto a Senigallia da Radio Duomo non sia meno utile di quello offerto su scala nazionale da Radio Radicale. Ma, qualora l’affermazione fatta su La Voce Misena fosse vera, il Comune starebbe sprecando soldi per qualcosa che nessuno sfrutta, o che – peggio – ha effetti narcotici sulla popolazione. In tal caso, sarebbe opportuno rivedere la scelta.
Qualche domanda semplice semplice.

All’Amministrazione comunale:
1) Sul sito istituzionale del Comune sono documentate le sole erogazioni del 2001, 2002 e 2003, a cui va aggiunta quella del 2004. Esistono finanziamenti per il 2005 e prima del 2001? Se sì, a quanto ammontano?
2) Per quale motivo non è stata fatta una gara pubblica d’appalto per le radiocronache delle sedute consiliari, come avviene per i lavori parlamentari?
3) Radio Duomo non è l’unica emittente a coprire Senigallia: si prevede di passare alla gara d’appalto per gli anni a venire? Se sì, con quali regole?
4) Si prevede di rendere disponibili le sedute consiliari anche via internet in audio oppure in audio-video?

All’Amministrazione comunale e a Radio Duomo:
5) Esiste fra il Comune e Radio Duomo un accordo che disciplina la trasmissione delle sedute, fissando un impegno minimo (numero di sedute, minuti trasmessi, diretta o differita, trasmissione integrale o parziale)?
6) L’emittente è abilitata a seguire anche i lavori delle commissioni?
7) Sono state fatte delle stime sull’audience di Radio Duomo durante la trasmissione dei lavori consiliari?

A La Voce Misena:
8) A quando, sul vostro settimanale, una bella reprimenda contro i palinsesti di Radio Duomo?

Blasfemo chi?

Quando, prima dei referendum sulla fecondazione assistita, vedemmo su un altare (laterale o meno, poco importa) della Chiesa delle Grazie di Senigallia un manifesto di propaganda per l’astensione, il parroco ci disse indispettito che era tutto regolare. Di che s’impicciano, ‘sti mangiapreti?
L’altra settimana abbiamo letto su La Voce Misena, settimanale della Curia senigalliese, una reprimenda dello stesso Padre Alberto contro i blasfemi. Lungi dall’imbarcarsi in concetti etici e in massimi ragionamenti, il Nostro non fa che indulgere in minimi slogan per tutto l’articolo, prendendosela addirittura con i bestemmiatori annidati a Radio Radicale.

Il ragionamento (si fa per dire) è questo:

1) Anche se in Italia (purtroppo) la bestemmia non è più reato, andrebbe ugualmente punita;
2) A Radio Radicale (gli hanno riferito) si bestemmia;
3) Togliamo i soldi a Radio Radicale e facciamo tacere una volta per tutte Pannella, Bonino e Capezzone!     

1) «È vero che una serie di sentenze della Cassazione e pronunciamenti della Corte costituzionale hanno svuotato di certe difese il nostro codice penale».
Siamo in attesa che la Chiesa si faccia, in quanto tale, promotrice di proposte di legge verso lo Stato italiano: non manca molto, basta dare un’occhiata al documento della Conferenza Episcopale delle Marche sul lavoro domenicale. Nel frattempo, una curiosità: qual è il codice penale di cui Padre Alberto ha nostalgia? Forse il codice Rocco?
«Bestemmiare non è lecito sia che si offenda il nome di Dio in chiave biblica o cristiana sia che si offendano altre espressioni della divinità, sia pure di modesta invenzione umana».
Condanno anch’io la bestemmia, ma lo Stato italiano l’ha depenalizzata. È un bene o un male? Siamo sempre lì, alla distinzione tra peccato e reato. In attesa che la CEI faccia reintrodurre il reato penale, un’altra curiosità: quali sarebbero le altre espressioni della divinità, sia pure di modesta invenzione umana? Forse i simboli delle altre religioni? Padre Alberto, glielo va a spiegare Lei agli ebrei e ai musulmani che il loro Dio è una modesta invenzione umana? E come la mettiamo con quegli inventori giocherelloni buddisti o induisti?   

2) Che a me risulti, a Radio Radicale non si bestemmia né più né meno di quanto si bestemmi al “Grande Fratello”. Ci sono momenti di apertura agli interventi telefonici del pubblico, senza filtri, e dunque è qui che si possono sentire volgarità.

3) Radio Radicale «usufruisce di generoso finanziamento pubblico perché trasmette in modo integrale le sedute parlamentari. OK; ma a chi interessano le sedute parlamentari? Noia infinita e dibattito scontato».
Padre Alberto, tra uno sbadiglio e l’altro, perché la CEI non propone di abolire, se non ancora le sedute parlamentari, almeno la trasmissione dei dibattiti? Le sembrerà impossibile, eppure quelle sedute noiose, quei dibattiti scontati sono l’esercizio della rappresentanza popolare, incarnano l’essenza stessa dello Stato democratico. Pensi che orrore: c’è addirittura una maggioranza e un’opposizione…!!!
Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Chi un mese fa invitava all’astensione ai referendum facendo appello alla maturità del popolo italiano, adesso con aria di sufficienza snobba l’interesse di quanti vorrebbero seguire le loro istituzioni. Di grazia, Padre Alberto, quali sarebbero i canali “leciti” e non noiosi dell’informazione politica e parlamentare?

Per inciso, il generoso finanziamento pubblico a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari sta solo nell’immaginazione di Padre Alberto. Radio Radicale è vincitrice di un concorso pubblico (aperto a chiunque) per la fornitura delle radiocronache dei lavori parlamentari: per tale servizio le viene corrisposto il prezzo stabilito in fase di appalto.
È piuttosto la Chiesa ad usufruire di un generosissimo finanziamento pubblico da parte dello Stato, tramite l’8 per mille. E Padre Alberto non ci venga a raccontare che quello è denaro donato volontariamente da ogni contribuente con la dichiarazione dei redditi, non ci parli come il card. Ruini di democrazia fiscale. Perché lui dovrebbe sapere che la Chiesa si becca non solo quasi tutti i soldi di coloro (i due terzi dei contribuenti) che non esprimono alcuna preferenza, ma anche la metà dei soldi che vanno espressamente allo Stato. E non ci dica nemmeno che quei soldi vanno per le “opere di carità”, perché l’80% prende altre strade.
Come punizione per i blasfemi, tra il serio e il faceto Padre Alberto propone di «togliere a Radio Radicale mille euro per ogni bestemmia trasmessa. Vediamo se riescono a farsela finita», o in alternativa «di abrogare con referendum i signori Pannella, Bonino e Capezzone» (sempre che arrivi al quorum, aggiungo io…).

Sono d’accordo: togliamo a quegli sporcaccioni dei radicali il diritto di trasmettere le sedute parlamentari. Chi le vuole ascoltare vada a Roma. Le scelte – Padre Alberto concorderà – devono essere consapevoli e volontarie. Allora aboliamo anche l’8 per mille, giacché a me dà fastidio che chi non esprime preferenza sia d’ufficio buttato nel calderone di coloro che finanziano la Chiesa cattolica. E mi disturba soprattutto un sospetto, che ancora non riesco a confermare ma neppure a diradare: che il mio 8 per mille sia stato usato direttamente o indirettamente per la campagna astensionista agli scorsi referendum. 
È proprio il caso di dirlo: mai flatus vocis fu migliore investimento. Forse Padre Alberto si riferiva a se stesso.

Lacrime e sangue

«Lo spettacolo dunque continua», scrive Vittorio Feltri su “Libero” dell’8 luglio, il giorno dopo gli attentati a Londra. «E continuerà chissà fin quando. Forse finché da vili quali siamo, o illusi o semplicemente incoscienti, rifiuteremo di affrontare il nemico come va affrontato ogni nemico: con forza. Il che significa adottare misure eccezionali e riconoscere che siamo in emergenza; anzi, in guerra. Il regime di guerra richiede sacrifici speciali, anche la rinuncia a certe libertà. La sicurezza ha un prezzo. Più sicurezza equivale a meno libertà».

Abbiamo già sentito queste parole. Si espresse così anche Ugo La Malfa alla Camera il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro. Giorgio Almirante fu anche più esplicito: chiese leggi speciali, il ripristino della pena di morte e la sostituzione del ministro dell’Interno con un militare. 
Oggi come ieri, ci viene detto che, quando Annibale è alle porte, la legge che valeva fino a ieri non deve valere più. Lo Stato di diritto non basta: ci vogliono leggi speciali, misure eccezionali. È un’emergenza, la gente deve capire.
Scusate, se di fronte al pericolo si eliminano diritti che valevano fino a ieri, si sospende la legalità costituzionale, si intaccano le conquiste che la nostra civiltà ha raggiunto in secoli di evoluzione, la lotta non è forse persa in partenza? Il nemico forse non ha raggiunto il suo scopo, mettendoci in condizione di dover rinunciare alle nostre libertà?
Di fronte ai barbari si dovrebbe invece alzare più in alto la bandiera dello Stato di diritto, il vessillo della democrazia e della legalità, applicando le leggi che esistono invece di invocarne di nuove. E se democrazia vuol dire anche scontro, battaglia di opinioni e culture, sarebbe bene diffidare di chi, gridando all’emergenza, invoca unità nazionali e unanimismi. La democrazia deve funzionare con le sue regole, il suo pragmatismo, finanche le sue contraddizioni. È questo il suo limite, ma anche la sua forza.
In tutto ciò, proprio dall’Inghilterra abbiamo molto da imparare.
«Non ho nulla da offrire», disse Winston Churchill il 13 maggio 1940 davanti alla Camera dei Comuni, «se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza». C’era la guerra e Annibale era veramente alle porte. Eppure di lì a pochi mesi, in una Londra sotto le bombe naziste e con centinaia di vittime civili al giorno, lo stesso Parlamento avrebbe riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza.
We shall never surrender significava (e deve significare) anche questo.