Il giorno 16

«L’organizzazione di quest’azione era pronta per il 16 mattina come uno dei giorni probabili in cui sarebbe potuto o sarebbe anche potuto non passare l’onorevole Moro, perché non c’era certezza, perché avrebbe anche potuto fare un’altra strada. Era stato verificato che passava lì da alcuni giorni, ma non era stato verificato che passasse lì sempre».

Così, davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma, Valerio Morucci, uno degli esecutori materiali del sequestro Moro, inizierà il racconto di quel 16 marzo 1978.
In effetti, come confermato dagli agenti di scorta in turno di riposo quel giorno, il percorso che passava per via Mario Fani era uno dei più frequenti, ma non l’unico: poteva anche essere cambiato sul momento per motivi di sicurezza ma anche in funzione del traffico o di impegni improvvisi. In Commissione d’inchiesta Eleonora Moro, vedova del presidente democristiano, dirà anzi che negli ultimi tempi Moro e la scorta «si angosciavano enormemente su queste cose e, quindi, cercavano nei limiti del possibile di cambiare i percorsi tutti i giorni o ogni due giorni, di vedere di sistemare in qualche modo cambiamenti degli orari se era possibile».
L’elementare, cruciale domanda che ne deriva è dunque: «come potevano essere le Brigate Rosse così sicure che quel giorno, a quell’ora in quel punto, l’onorevole Moro sarebbe passato?»
Eppure, l’agguato era stato pianificato con ragionevole certezza proprio il 16 marzo e proprio in via Fani:

  • Quella mattina, alla Camera dei Deputati, era previsto il dibattito sulla fiducia al IV governo Andreotti, detto di “solidarietà nazionale”, della cui nascita Aldo Moro era il massimo artefice. Per la prima volta dal 1947, il governo poteva contare sui voti determinanti del Partito Comunista.
    Tale concomitanza difficilmente può essere considerata un caso.
  • Nella notte tra il 15 e il 16, in tutt’altra zona di Roma, erano state tagliate le gomme del furgone con cui il fioraio Antonio Spiriticchio ogni mattina di recava a vendere fiori all’angolo tra via Fani e via Stresa, cioè proprio nel punto dell’attentato. I “vandali” volevano evidentemente evitare intralci all’azione prevista la mattina seguente.
  • Al processo d’appello la brigatista Adriana Faranda dirà di avere saputo della data fatidica due-tre giorni prima, e che i “regolari” del Nord, partecipanti all’azione di via Fani, giunsero a Roma il giorno precedente. Valerio Morucci, a sua volta, dichiarerà che furono rimproverati coloro che erano stati incaricati del furto delle auto, perché tre giorni prima del 16 marzo non era stata ancora procurata la Fiat 132 che doveva servire per il trasporto del sequestrato da via Fani. Il brigatista Antonio Savasta confermerà che il “commando” andò per la prima volta “operativo” in via Fani proprio il 16 marzo, il che dimostra che i preparativi furono affrettati per poter compiere l’azione criminosa quel giorno.

I fatti

Appena dopo le ore 9 del 16 marzo, all’incrocio tra via Fani e via Stresa nella zona di Monte Mario a Roma, una Fiat 128 bianca con targa diplomatica frena bruscamente all’altezza dello stop. Le due auto provenienti da dietro, una Fiat 130 blu con a bordo il presidente della DC Aldo Moro e un’Alfetta bianca di scorta, non riescono ad evitare il tamponamento a catena, anche perché le luci di stop della 128 non funzionano. L’autista della 130, appuntato Domenico Ricci intuisce la trappola e cerca ripetutamente di fare marcia-avanti e marcia-indietro per guadagnare un varco su via Stresa, ma è troppo tardi. Il capo brigatista Mario Moretti scende dalla 128 e comincia a far fuoco sulla 130; contemporaneamente, la 130 e l’Alfetta sono investite dal fuoco di fucili mitragliatori di almeno 4 uomini travestiti da piloti che sbucano dalle siepi del palazzo di fronte. L’agente Raffaele Iozzino, seduto sul sedile posteriore dell’Alfetta, riesce a scendere e a sparare un paio di colpi contro gli assalitori, ma viene subito freddato.
L’azione dura tre minuti: restano uccisi quattro uomini della scorta (Domenico Ricci e il maresciallo Oreste Leonardi, sulla 130; gli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera sull’Alfetta); Francesco Zizzi, anche lui sull’Alfetta, morirà poco dopo in ospedale. Poi, con una calma quasi surreale visto quello che è appena successo, Aldo Moro viene prelevato dalla 130 e fatto salire su una 132 che si allontana preceduta e seguita da due 128.

I punti aperti

La dinamica dell’agguato, insieme a ciò che avvenne nei minuti precedenti e successivi, è stata ricostruita in cinque processi sulla base delle prove, dei riscontri balistici e delle dichiarazioni rese dai brigatisti e dai testimoni.
Nonostante ciò, numerosi sono ancora i punti non chiariti. Vediamo i più significativi.

  • Il preannuncio. Diversi testimoni riferiranno d’aver ascoltato verso le 8:30 del 16 marzo, cioè prima del rapimento, su Radio Città Futura (emittente vicina all’Autonomia romana), la notizia di un imminente attentato a Moro. Renzo Rossellini, il direttore della radio ai microfoni quella mattina, smentirà e resterà sul vago, ammettendo di aver solo accennato ad un’ipotesi che «circolava negli ambienti dell’estrema sinistra»: che in occasione del nuovo governo le Brigate Rosse stessero «per tentare, molto prossimamente, forse lo stesso giorno, un’azione spettacolare», per esempio «un attentato contro Aldo Moro». Incredibilmente, mezz’ora dopo Moro venne rapito.
    Cosa davvero trasmise la radio rimarrà un mistero. La Commissione Moro accerterà che «né gli organi di polizia, né i servizi informativi provvedevano all’epoca alla registrazione sistematica delle radio libere, ma operavano semplicemente su campioni, percorrendo cioè le varie lunghezze d’onda e fermando l’attenzione sulle notizie interessanti sotto il profilo dell’ordine pubblico. Né la stessa radio effettuava registrazioni delle proprie trasmissioni». Guarda caso, però, il Centro di ascolto dell’UCIGOS (che ascoltava e registrava le radio private) interruppe la registrazione dalle 8:20 alle 9:33, cioè proprio a cavallo del rapimento.
  • Il commando. Quanti furono e chi furono i componenti del commando che attuò la strage di via Fani? Non sarà mai stabilito con certezza. La sentenza del processo di primo grado in Corte d’assise, sulla base di tutte le testimonianze, stabilirà la presenza di 14 terroristi tra via Fani e via Stresa; i brigatisti invece, tra ripensamenti, aggiunte e sottrazioni, hanno sempre dichiarato un numero non superiore a 10.
    Dei 91 bossoli recuperati sul posto, ben 49 appartengono ad una stessa arma, 22 ad un’altra ed il resto alle altre quattro armi usate nell’operazione: chi esplose da solo quei 49 colpi?
    Gli sparatori, che si suppone si conoscessero tra loro, indossavano divise da piloti civili. I brigatisti diranno di esser ricorsi al travestimento per non dare nell’occhio, in quanto nella zona di via Fani abitavano parecchi piloti dell’Alitalia. L’accorgimento però sembra quantomeno singolare: nel momento della fuga le divise sarebbero diventate pericolosi segni di riconoscimento. Allora perché rendersi così riconoscibili? Forse perché non tutti i brigatisti si conoscevano tra loro?
  • La moto Honda. Chi erano i due motociclisti a bordo della moto Honda blu di grossa cilindrata che fu vista transitare subito dopo l’agguato, e da cui partirono alcuni colpi di mitra verso un testimone? La presenza della moto, sempre ufficialmente negata dai brigatisti, è avvalorata da numerose testimonianze: che si trattasse di un intervento inatteso o indesiderato sulla scena dell’agguato, da parte di brigatisti non regolari o comunque di entità estranee?
  • La fuga. Eliminata la scorta e rapito Moro, il commando si dileguò nel traffico di Roma con tre automobili: una Fiat 132 con il sequestrato e due Fiat 128. Incoerente, a tratti del tutto inverosimile appare il racconto dei brigatisti sulla fuga da via Fani, il primo trasbordo del sequestrato in un furgone, il secondo trasbordo in un’altra auto e infine l’arrivo al covo-prigione di via Montalcini 8 alla Magliana, a trenta chilometri dal luogo della strage, dove Moro sarebbe stato tenuto per tutti i 55 giorni del sequestro.
    Ancor più incredibile è la beffarda modalità di ritrovamento delle tre macchine usate per la fuga. Furono trovate “a rate”, il 16, il 17 e il 19 marzo, in via Licinio Calvo, alla Balduina, non lontano da via Fani. Difficile pensare che chi le abbandonò fosse disposto ad avventurarsi per Roma con automobili segnalatissime e ricercatissime: forse poteva contare su una base logistica mai individuata nei dintorni?
  • Lo strano invitato. Quella mattina in via Stresa, a pochi passi dal teatro della strage, era presente il colonnello del SISMI Camillo Guglielmi, appartenente alla VII divisione (quella che controllava Gladio), alle dirette dipendenze del generale Musumeci. La presenza di Guglielmi, rivelata solo nel 1991 dall’ex agente del SISMI Pierluigi Ravasio, fu giustificata col fatto che egli si doveva recare a pranzo da un collega, il colonnello Armando D’Ambrosio. Interrogato, D’Ambrosio si disse sicuro di aver ricevuto Guglielmi verso le 9 di mattina, ma non ricordò di averlo invitato per pranzo. In tal caso, Guglielmi sarebbe arrivato con un anticipo davvero eccessivo…!
  • Il black out. Nella zona di via Fani, subito dopo il rapimento, un black out interruppe le comunicazioni telefoniche impedendo le prime fondamentali telefonate di allarme e coprendo di fatto la fuga dei terroristi. Per la SIP il black out fu dovuto al sovraccarico delle chiamate; per i brigatisti ad alcuni “compagni” che lavoravano nella compagnia telefonica. Nessuno ha però finora spiegato come mai il giorno prima (15 marzo, alle 16:45) la struttura della SIP collegata al SISMI fosse stata messa in stato di allarme come doveva accadere in situazioni d’emergenza quali crisi nazionali e internazionali, eventi bellici e atti di terrorismo.
  • Le foto. Quella mattina, verso le 9, il carrozziere Gherardo Nucci fece un salto a casa, in via Fani 109, a prendere la macchina fotografica: doveva mandare alle compagnie assicurative le foto di alcune automobili da riparare. Subito dopo la strage e prima ancora dell’arrivo di polizia e ambulanze, dal suo balcone Nucci riuscì a scattare alcune foto della scena della strage. L’indomani la moglie, una giornalista dell’agenzia ASCA, consegnò il rullino al magistrato inquirente Luciano Infelisi. Le foto sparirono: non se ne seppe più nulla, tranne forse per un improvviso interessamento da parte della ‘ndrangheta calabrese. Il 1º maggio, infatti, fu intercettata una telefonata tra Benito Cazora, parlamentare DC in contatto durante il sequestro con settori della ‘ndrangheta per aver notizie sulla prigione, e Sereno Freato, stretto collaboratore di Moro:

    Cazora: Un’altra questione, non so se posso dirtelo…
    Freato: Sì, sì, capiamo.
    Cazora: Mi servono le foto del 16, del 16 marzo.
    Freato: Quelle del posto, lì?
    Cazora: Sì, perché loro… [nastro parzialmente cancellato]… perché uno stia proprio lì, mi è stato comunicato da giù.                         
    Freato: È che non ci sono… ah, le foto di quelli, dei nove. 
    Cazora: No, no! Dalla Calabria mi hanno telefonato per avvertire che in una foto presa sul posto quella mattina lì, si individua un personaggio… noto a loro.
    Freato: Capito. È un po’ un problema adesso.
    Cazora: Per questo ieri sera ti avevo telefonato. Come si può fare?
    Freato: Bisogna richiedere un momento, sentire. 
    Cazora: Dire al ministro.
    Freato: Saran tante!

    Cazora, dunque, era preoccupato perché dalla Calabria gli avevano fatto sapere che in una fotografia scattata subito dopo la strage compariva un personaggio noto a loro.
    A quali foto si riferiva Cazora? Non lo sappiamo con certezza, ma in ogni caso l’episodio ci dice due cose: che un uomo della ‘ndrangheta era presente in via Fani dopo la strage, e la sua presenza non era casuale, visto che i calabresi si preoccupavano che il reperto venisse preso in considerazione. Se poi, com’è probabile, Cazora si riferiva alle foto di Nucci, si può dedurre che costoro avevano avuto accesso alle foto e addirittura trovato il modo di farle sparire.
    Chi era il personaggio ritratto nella foto?

Bibliografia

  1. Processo Moro I grado, sentenza della Corte d’assise di Roma (presidente S. Santiapichi), 24/01/1983.
  2. Processo Moro II grado, sentenza della Corte d’assise d’appello di Roma (presidente G. De Nictolis), 14/03/1985.
  3. Commissione Moro, Deposizione di Eleonora Moro, 11/08/1980.
  4. Commissione Moro, Relazione di maggioranza.
  5. Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro”, Adelphi 1978.
  6. Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini Recchia, “Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale”, Franco Angeli 1984.
  7. Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Kaos 1993.
  8. Sergio Flamigni, “Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro”, Kaos 1998.
  9. Alfredo C. Moro, “Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro”, Ed. Riuniti 1998.
  10. Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico”, Ed. Riuniti 1998.
  11. Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000.

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