Un papa di destra?

Certamente è difficile catalogare un Papa con le categorie della politica, ma indubbiamente l’elezione al soglio pontificio di Jozef Ratzinger rappresenta una chiara volontà della chiesa espressa proprio dall’ex cardinale nella sua ultima omelia pre-conclave.

La chiesa cattolica ha scelto purtroppo la via dell’arroccamento sulle sue posizioni ideologiche più estremistiche, allontanandosi sempre più dalla via modernistica delineata dal Concilio Vaticano II.

Già Karol Wojtyla, durante il suo pontificato, aveva tenuto una linea abbastanza ambigua:

Aperto verso le altre religioni, verso i giovani, verso le manifestazioni della fede (da qui le numerose satificazioni) e convinto pacifista.

Intransigente e conservatore riguardo alla ortodossia della dottrina ed alla morale su tutti i maggiori temi emersi durante il suo pontificato: dall’aborto al divorzio, all’eutanasia, alla scuola privata, all’etica sessuale (ad esempio sull’uso dei profilattici), al ruolo della ricerca scientifica, alla procreazione assistita, al sacerdozio femminile e più in generale al rapporto tra uomo e donna (evidentemente era più amante della figura di Maria che di quella della donna).

Il nuovo Papa, Benedetto XVI, è stato il cosigliere dottrinale di Giovanni Paolo II per quasi tutto il pontificato e dunque non si dovrebbero avere grandi sconvolgimenti in questo campo.

Quello che è veramente preoccupante è la visione ultraconservatrice del nuovo papa anche negli altri ambiti: basti ricordare che solo pochi anni addietro (nel 2000), il cardinale Ratzinger si era espresso con chiarezza contro il concilio vaticano II, arrivando addirittura ad auspicare un ritorno della lingua latina nella celebrazione delle messe e il ritorno a celebrare i riti rivolti verso l’abside e non verso i fedeli!

La Chiesa Cattolica sceglie dunque di fare una battaglia di difesa e di arroccamento sui suoi dogmi invece di aprirsi, come molti auspicavano, alla modernità non certo abdicando dai propri valori, ma adeguandoli alle sfide del terzo millennio.

In definitiva non mi sembra questo il modo di continuare quella grande opera di riavvicinamento della chiesa alla società iniziata sotto il pontificato di Giovanni XXIII e portata avanti, anche se in maniera ambigua, da GP II.

Secondo il mio modesto parere questa è una scelta assolutamente sbagliata, ma solo il tempo e le azioni del nuovo Papa potranno confermare o smentire queste prime impressioni.

A proposito di libertà dei cattolici…

L’8 marzo ho letto su Vivere Senigallia un intervento del prof. Gianfederico Tinti (responsabile cultura del coordinamento comunale Forza Italia) sulla libertà dei cattolici. Tinti sposa le posizioni della Curia senigalliese e del vescovo Mons. Orlandoni: bisogna rifiutare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche, perché la missione della Chiesa riguarda la dimensione sociale, la concretezza delle situazioni di disagio, la vicinanza agli “ultimi”, l’aspetto caritativo dell’esistenza».

La Chiesa, continua Tinti, deve prendere «distanza dagli schieramenti in campo, perché al giorno d’oggi nulla sarebbe più disdicevole e controproducente di certo clero sindacalizzato e politicizzato, […] che tessa la trama del do ut des nel buio di qualche canonica; no, la scelta politica e amministrativa spetta al laicato, che, alla luce dei valori fondamentali cristiani […] opera le sue scelte in libertà di coscienza».

Vorrei fare alcune osservazioni semplici semplici.
Innanzitutto una curiosità: quelle frasi valgono solo per Senigallia oppure sono vere in generale? Perché delle due l’una: se ciò che vale per Senigallia non vale per l’Italia, si spieghi il perché; altrimenti ne deduco che il prof. Tinti non la pensa come le gerarchie vaticane e c’è da aspettarsi qualche sua dura critica verso di loro. Mi sembra, infatti, che nel nostro Paese l’andazzo non sia esattamente quello che il prof. Tinti dipinge nel suo articolo.

Un esempio recente.
Lo scorso 17 gennaio, a Bari, la Conferenza Episcopale Italiana, per bocca del suo presidente cardinale Camillo Ruini, ha ribadito la legittima e sacrosanta contrarietà alla modifica della legge 40/2004 sulla procreazione assistita; per i prossimi referendum la CEI ha invitato i cattolici ad «avvalersi di tutte le possibilità previste». A cosa si riferiva il cardinale? A chiarire il concetto, per chi ancora non lo avesse capito, ci ha pensato lo stesso Ruini il 7 marzo, con un’esplicita «indicazione di non partecipare al voto». «Non si tratta in alcun modo», spiega il prelato, «di una scelta di disimpegno, ma di opporsi nella maniera più forte ed efficace ai contenuti dei referendum e alla stessa applicazione dello strumento referendario in materie di tale complessità».

Passi pure la solita tiritera sul fatto che la materia è troppo complicata per i referendum, il Paese si spacca, la gente non capisce. La storia dimostra (ad esempio col divorzio) che quando la gente è stata messa in condizione di decidere non solo ha capito ma ha votato con libertà di coscienza, laicamente. Il Paese non si è spaccato, e soprattutto i cattolici hanno saputo distinguere tra le proprie convinzioni religiose e le leggi dello Stato. Per inciso, la complessità o la semplicità di una materia la decide Ruini?
Non m’interessa neppure discutere se sia giusto o sbagliato non andare a votare. Il discorso ci porterebbe lontano: bisognerebbe capire come mai l’astensione ai referendum è legittima – e lo deve essere, ovviamente – però poi alle elezioni, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una “scelta di campo” e correre tutti alle urne. Ma lasciamo stare.
Rinuncio anche ad entrare nel merito dei 4 referendum sulla procreazione assistita, che voteremo in primavera. Si tratta di questioni di coscienza che afferiscono alla Vita e alle vite concrete di milioni di persone. Sperando che l’informazione sia adeguata, ognuno farà la propria riflessione e sceglierà.

Per il momento, mi interessa “solo” una questione di forma. D’altra parte, cosa sono la legge e la legalità, se non anche e innanzitutto forma?
L’articolo 2 del Concordato Lateranense dice che «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione». Queste e non altre sono le materie di intervento riconosciute alla Chiesa e ai suoi organi.
Con ciò non si sta togliendo alla Chiesa il diritto di diffondere i precetti della morale cattolica; non la si vuole privare della facoltà di sostenere che l’embrione è una persona e in quanto tale portatore di diritti; tanto meno si nega ai cattolici la libera manifestazione del pensiero. Sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Qui si sta dicendo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Prof. Tinti, tutto ciò non le pare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche»? Quella che Lei chiamerebbe «distanza dagli schieramenti in campo» a me sembra piuttosto una militanza esplicita e faziosa.
In un altro paese, un paese con un minimo di coscienza laica, non ci avrebbero nemmeno provato. Si sarebbero perlomeno alzate delle voci, l’opinione pubblica se ne sarebbe accorta e indignata, molti avrebbero fatto notare l’indebita ingerenza. Il Governo avrebbe inviato una nota formale di protesta al segretario di Stato Vaticano.
Invece niente, tranne qualche voce isolata sui quotidiani. Evidentemente oltre Tevere sanno di potersi permettere queste uscite, sanno che gli andrà bene, che nessuno gli chiederà conto di nulla. Ma se lo fanno è anche perché hanno paura: tanta è la loro fiducia nell’unità dell’elettorato cattolico che temono persino di farlo esprimere.

Nota: Quest’articolo è stato anche pubblicato il 10/03/2005 su Vivere Senigallia.

Ancora droga

Mi si permetta un appunto in merito all’eterno dibattito sulle droghe, recentemente ripreso sul vostro sito dopo i "fatti" del Mezza Canaja.

Le politiche attuali sulle droghe sono vecchie di novanta anni ma non hanno ancora risolto il problema per cui sono nate, anzi ne hanno creati molti altri: nutrono i fatturati della grande e piccola criminalità, rallentano (paralizzano?) l’azione giudiziaria e quella delle forze dell’ordine (si può svuotare l’oceano con un cucchiaino?), nel complesso incentivano a partecipare all’"affare droga", che rende più di ogni altro affare legale.

Chi e’ malato ha bisogno di cure mediche. Chi si droga ha bisogno di medici, psicologi, assistenti sociali, riabilitazione, ma anche di lavorare e di vivere. E’ difficile credere che abbia bisogno di galera, di dormire per strada, di fare una vita da criminale, di rubare, spacciare, ammazzare, con la disperazione nelle vene. Le politiche attuali sulle droghe sono rudimentali e primitive, in quanto pretendono di affrontare problemi socio-sanitari con la polizia.

Lo Stato affronta la questione droghe con schizofrenia: i consumatori di certe droghe (sigarette, alcool, psicofarmaci…) sono dissuasi, curati, se necessario forniti delle loro droghe; e questo avviene in modo legale, garantito, medicalmente assistito; i consumatori di altre Droghe (hashish, marijuana, cocaina, eroina…) sono molto meno fortunati: in quanto "diversi" essi prima vengono ignorati e abbandonati, poi, quando il loro problema medico si aggrava e diviene questione di sicurezza e di ordine pubblico, essi sono trattati inevitabilmente da criminali.

Spesso si dice che vendere sigarette e alcool con una mano e con l’altra combattere tumori ed incidenti stradali sia un atteggiamento contraddittorio e ipocrita dello Stato. Al contrario, penso che lo Stato faccia bene ad agire così, e faccia male a non agire allo stesso modo verso tutte le droghe ora "proibite" (leggere e pesanti). Pensiamo che controllare il mercato, evitando i suoi sregolati eccessi, sia l’unico modo per limitarne i danni. Il confronto non e’ tra droga si e droga no; la scelta da fare e’ tra droga LIBERA, cioè di contrabbando, ovunque, per chiunque, senza controllo, e droga LEGALE, dunque offerta secondo criteri medico-scientifici volti alla riduzione del danno, e concentrando gli sforzi nella cura della domanda.

Nota: Quest’articolo è stato anche pubblicato il 12/01/2005 su Vivere Senigallia con il titolo "L’attuale politica sulla droga è sorpassata".

Droghe, una nuova legge

Il 18 Novembre scorso è approdata in Senato la cosiddetta “legge Fini”, un giro di vite nei confronti del traffico e del consumo di stupefacenti. Il punto di forza, l’elemento innovativo della legge – si dice – è l’equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, sotto l’aspetto della pericolosità e delle sanzioni. L’approccio è: non esistono droghe leggere, la droga è droga. Detenere, cedere o consumare tali sostanze, non importa in che quantità, sono comportamenti puniti dalla legge. In particolare, possedendo più di una quantità massima prestabilita, si diventa spacciatori e si rischiano pene da uno a vent’anni di carcere, secondo la gravità; il consumo è comunque punito con sanzioni amministrative (il ritiro della patente, del porto d’armi, del permesso di soggiorno, ecc.) revocabili se l’interessato si sottopone a programma terapeutico, di cui si è certificato il buon andamento.

Dal punto di vista teorico ed etico l’impostazione “dura” sembra accattivante e miete consensi, a patto però di mettersi d’accordo su alcuni punti.
In primis, su cosa è droga e cosa non lo è. La distinzione non è per nulla facile: se definiamo droga ciò che produce alterazione mentale e percettiva creando dipendenza, allora dovremmo includervi anche il vino, il caffè e le sigarette. Inoltre, bisognerebbe capire in che misura una legge dello Stato può sanzionare un comportamento supposto auto lesivo per l’individuo. Ad esempio, fatta salva l’ovvia (ma non per tutti) distinzione tra peccato e reato, una legge che sanzionasse l’azione sommamente auto lesiva dell’integrità individuale – ovvero il suicidio – sarebbe probabilmente incostituzionale, per violazione dell’articolo 2. Più in generale, sarebbe da stabilire se il “diritto” alla salute (art. 32 della Costituzione) si traduce automaticamente in “dovere” alla salute. Se questo esistesse, e se quindi lo Stato avesse il potere sanzionatorio per farlo rispettare, perché si continuano a vendere i tabacchi in regime di monopolio? Delle due l’una: o il dovere alla salute esiste e il monopolio dei tabacchi è incostituzionale, oppure questo dovere non esiste ed è incostituzionale il divieto all’uso personale di stupefacenti. Tertium non datur.

Dal punto di vista pratico, invece, bisogna fare i conti con l’applicazione delle questioni di principio alla società fatta di persone in carne ed ossa. Il proposito del legislatore è quello di combattere un fenomeno sociale – mediante la repressione, la prevenzione, eccetera – senza “se” e senza “ma”, trattando le droghe leggere come le droghe pesanti ed assumendo che il consumo di droghe leggere sia l’anticamera per quelle pesanti. Si sente dire, infatti, che l’80% dei consumatori di droghe pesanti (eroina e cocaina in primis) ha iniziato facendo uso di droghe leggere come la marijuana o l’hashish. E questo cosa prova? Per dimostrare che da una certa premessa segue una certa conclusione, è un non-senso logico osservare la conclusione e cercare di inferire la premessa. Se chiedessimo agli eroinomani se da bambini bevevano latte, probabilmente il 100% ci risponderebbe di sì. Dovremmo forse dedurne che l’uso di latte, specialmente in tenera età, apre la strada al consumo di eroina? Tutti gli alcolizzati hanno cominciato con un bicchiere di vino, ma qualcuno se la sentirebbe di proibire il vino perché c’è chi eccede fino al bottiglione? Se un nesso tra il consumo di marijuana ed eroina esiste, esso trova semmai ragione nella contiguità o nella coincidenza dei rispettivi mercati: ad uno spacciatore del mercato nero conviene ovviamente vendere droghe pesanti (più remunerative e generatrici di dipendenza fisica) piuttosto che droghe leggere (che non creano dipendenza fisica). Se non altro per una questione di marketing: bisogna fidelizzare la clientela.

Dal punto di vista legale, poi, uniformando le pene per lo spaccio di marijuana ed eroina, siamo davvero sicuri di ridurre lo spaccio e la conseguente diffusione? Se deve rischiare lo stesso numero d’anni di carcere, uno spacciatore opta per lo spaccio di droghe pesanti che, come dicevamo poco fa, sono più remunerative. L’approccio del proibizionista, fondato sull’equazione “io non lo farei = nessuno lo deve fare”, è assoluto, etico: c’è il Male da estirpare e bisogna farlo con tutti i mezzi, ad ogni costo. Non si rende conto che, molto spesso, crea problemi maggiori di quelli che pretende di combattere. Le leggi proibizioniste sulle droghe, in particolare quelle leggere, hanno il merito d’aver trasformato negli ultimi 40 anni un problema socio-sanitario in una questione d’ordine pubblico. Esattamente come avvenne negli Stati Uniti degli anni ’20 con il diciottesimo emendamento, che proibiva la vendita e il consumo di alcolici: anni dopo l’approvazione della legge, bevevano praticamente tutti, anche quelli che prima erano astemi; la pericolosità del prodotto era aumentata perché l’alcol era di pessima qualità non essendoci alcun controllo nel mercato nero; la malavita faceva affari d’oro sui traffici e i crimini aumentavano. È vero: la polizia girava per cantine sequestrando tonnellate di whisky e arrestando migliaia di persone, così come oggi si sequestrano quintali di fumo sui tir provenienti dall’Albania, ma questo significava (e significa) ridurre il problema oppure cercare di svuotare il mare con un cucchiaino? E ancora: un tizio sorpreso allora a farsi una birra era veramente un delinquente? E uno che oggi si fa uno spinello può essere considerato un delinquente?

Mezza Canaja: sede nuova, mobili vecchi

Leggo su diversi quotidiani cittadini di episodi intimidatori da parte della polizia ai danni dei no-global del C.S.A. “Mezza Canaja”, nella loro nuova sede sul lungomare Da Vinci.
A voi, ragazzi del “Mezza Canaja”, a voi intimiditi, repressi e manganellati, ha già risposto 36 anni fa Pier Paolo Pasolini il quale, all’indomani degli scontri di Valle Giulia a Roma, tra l’euforia della maggioranza degli intellettuali, andò controcorrente: «siete pavidi, incerti, disperati (benissimo!), ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori, sicuri e sfacciati: prerogative piccolo-borghesi, cari». Leggi tutto “Mezza Canaja: sede nuova, mobili vecchi”