Il cognome di Eva

Secondo le leggi di Volterra, se due o più popolazioni sono in concorrenza tra loro, inevitabilmente soltanto una di esse finirà per sopravvivere.
Facciamo un esperimento: prendiamo tutti gli abitanti di una città e raggruppiamoli per cognome, immaginando che ogni cognome contraddistingua una diversa "popolazione"; la città risulterà così divisa in tanti gruppi quanti sono i cognomi presenti.
Ciascuna di queste "popolazioni" si trova a competere con tutte le altre per la sopravvivenza. Non sappiamo chi vincerà ma la matematica di Volterra prevede che, in assenza di immigrazione, prima o poi tutti gli abitanti della città finiranno per avere lo stesso cognome.

Questo fenomeno accade realmente: in Occidente è poco visibile, visto che i cognomi hanno pochi secoli di vita, ma in Cina, dove alcuni di essi esistono da più di 4000 anni, ci sono interi paesi dove tutti hanno lo stesso cognome.

Lo stesso effetto, in generale noto ai biologi come "deriva genetica", può essere osservato guardando il passato e utilizzando caratteristiche ben piu’ antiche dei cognomi. A tal proposito ci chiediamo: puo’ l’intera popolazione mondiale di oggi essere la sola sopravvissuta alla competizione con diverse altre popolazioni in una lotta durata migliaia di anni di storia evolutiva umana? Se si, cosa contraddistingue questa popolazione vincente dalle altre ormai scomparse?

La maggior parte dei paleoantropologi sostiene che l’uomo moderno (homo sapiens sapiens) abbia avuto origine in Africa, e da li’ sia uscito circa 100 mila anni fa per colonizzare il resto del Mondo. E’ dunque corretto supporre che tutti noi discendiamo da un gruppo di progenitori vissuti in Africa in un istante qualsiasi della nostra storia anteriore a 100 mila anni fa.
Ogni donna di questo gruppo diede origine ad una propria distinta discendenza; possiamo dunque pensare che ciascuno di noi, oggi, appartenga ad una di queste progenie, insieme a quanti condividono con lui la stessa antica progenitrice.
E se andassimo indietro oltre i 100 mila anni, troveremmo la progenitrice comune a tutti gli attuali abitanti della Terra? In altre parole, noi tutti discendiamo da una sola donna?
L’esistenza di questa "Eva" primordiale, storica e non biblica, e’ verosimile e giustificata dalla logica e dalla matematica. Ma e’ la genetica a darci il sostegno definitivo.

I mitocondri sono piccoli organi interni alle nostre cellule; un tempo erano batteri liberi, e per questo conservano un proprio filamento di DNA. Il DNA mitocondriale (mtDNA) si eredita solamente dalla propria madre, per cui le persone imparentate per via materna hanno lo stesso mtDNA. Naturalmente due persone prese a caso hanno due mtDNA diversi, questo perche’ il mitocondrio e’ soggetto a mutazioni genetiche: ogni tanto una bambina presenta mitocondri leggermente diversi da quello della propria madre. E’ corretto ritenere che piu’ simili saranno gli mtDNA di due individui, piu’ recentemente sara’ vissuta l’ultima progenitrice comune ad entrambi. Dunque l’mtDNA è un orologio biologico e indica il grado di diversità dei nostri alberi genealogici.

Veniamo all’ipotesi su Eva: in effetti e’ corretto pensare ad una progenitrice comune in quanto, proprio grazie alle leggi di Volterra, possiamo ritenere che sia sopravvissuto solamente il DNA mitocondriale di una delle tante progenitrici esistite; questo mtDNA, sottoposto nel tempo a continue mutazioni genetiche, ha prodotto la diversita’ di mtDNA che vediamo oggi.
Come i cognomi, il DNA dei mitocondri si eredita da un genitore soltanto; e proprio come i cognomi cinesi, dopo millenni di lotta e competizione solamente un mtDNA e’ sopravvissuto, sebbene minato dalle inevitabili mutazioni genetiche.

Ammesso che questa "Eva" sia esistita, quando sarebbe vissuta? I calcoli sono sempre basati sull’mtDNA, che appunto funziona da orologio dell’evoluzione, e ci portano a circa 190 mila anni fa. Un dato che collima abbastanza fedelmente con le prove paleontologiche gia’ citate.

Per approfondire:
Chi siamo. La storia della diversità umana
di Luigi e Francesco Cavalli-Sforza
Mondadori (1993)

Prede, predatori… e raggi laser

Verso la metà degli anni Venti, all’Università di Padova, il biologo Umberto D’Ancona studiava le variazioni delle popolazioni di varie specie di pesce che interagiscono l’una con l’altra. Nel corso di queste ricerche, si imbatté nei dati sulle percentuali di pesca di varie specie in diversi porti dell’Adriatico nel corso della prima guerra mondiale.

I dati del porto di Fiume, negli anni 1914-1923, testimoniavano una crescita anomala dei selaci (pesci poco interessanti come cibo: piccoli squali, razze, ecc.), fino al 36% in più degli anni precedenti. Ciò era tanto più curioso in quanto, negli stessi anni, la proliferazione di altre specie di pesce (soprattutto commestibili) era stata molto meno vigorosa.

La prima spiegazione che D’Ancona tentò si appoggiava su un paio d’osservazioni. Innanzitutto, ciò che distingue i selaci dai pesci commestibili è che i selaci sono predatori mentre gli altri pesci sono le loro prede. In secondo luogo, la diminuzione dell’attività di pesca durante la guerra poteva aver fatto crescere le specie commestibili e quindi aumentare il cibo per i predatori. Il ragionamento, però, reggeva solo in parte: non dava conto, ad esempio, del perché la riduzione della pesca avesse giovato molto di più ai predatori che alle prede.
Dopo aver esaurito le possibili spiegazioni, D’Ancona – è il caso di dirlo – non sapeva più che pesci pigliare. Si rivolse allora al suocero, il matematico anconetano Vito Volterra, nella speranza che questi sarebbe riuscito ad inquadrare il problema entro un modello matematico.

A quell’epoca Volterra, quasi settantenne, preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e membro dell’Accademia dei Lincei, era una delle personalità di spicco – forse la più autorevole – del panorama scientifico italiano.
Iniziò a lavorare al problema del genero, suddividendo i pesci in due categorie: le prede e i predatori. Ipotizzò che le prede, a differenza dei predatori, non competono intensamente fra loro nella ricerca di cibo, poiché questo è abbondante rispetto alla loro popolazione. Allora, in che modo varia nel tempo il loro numero? Il tasso di crescita delle prede è proporzionale al loro numero, secondo una costante di proporzionalità che tiene conto anche della mortalità. Il tasso di decrescita dipende invece da tre fattori: la mortalità naturale, ad un tasso proporzionale al numero di prede; la presenza dei predatori, che provocano una diminuzione del numero delle prede ad un tasso proporzionale al numero di contatti per unità di tempo tra i primi e i secondi; la pesca, che diminuisce le prede ad un tasso ancora proporzionale al loro numero.
Un discorso speculare si può fare per i predatori, che però competono fra loro nella ricerca delle prede: essi hanno un tasso naturale di decrescita (mortalità) proporzionale al loro numero ed un tasso di crescita proporzionale al numero di incontri con le prede nell’unità di tempo.
Con queste assunzioni, Volterra mostrò che le popolazioni delle prede e dei predatori si sviluppano in maniera interdipendente, e la loro evoluzione presenta situazioni di equilibrio. Il risultato sorprendente era che un aumento moderato della pesca ha effetti benefici sulla popolazione delle prede mentre provoca una diminuzione dei predatori. Viceversa, la riduzione della pesca (com’era avvenuto durante la prima guerra mondiale) provoca una proliferazione dei predatori e una diminuzione del pesce commestibile. Questo risultato, non del tutto intuitivo, si accordava con i dati sperimentali e rispondeva ai quesiti di D’Ancona. (vedi paragrafo sottostante).

Le leggi di Volterra si sono dimostrate efficaci nel descrivere molte altre situazioni di competizione naturale tra prede e predatori. Si applicano, ad esempio, al trattamento con gli insetticidi, che distruggono sia gli insetti predatori che i predati: l’uso degli insetticidi determina una crescita di quegli insetti la cui popolazione è tenuta sotto controllo da insetti predatori. Una conferma viene da un insetto (Icerya purchasi) che, quando fu introdotto per caso in America dall’Australia nel 1868, minacciò di distruggere le coltivazioni di agrumi. Come rimedio, fu importato il suo naturale predatore australiano, una coccinella (Novius cardinalis) che causò una riduzione del numero di Iceryae. Quando si scoprì che il DDT poteva distruggere le Iceryae, gli agricoltori lo usarono subito, convinti di poterle sterminare definitivamente. Invece, in accordo con il principio di Volterra, l’effetto fu un aumento dei parassiti.
Continuando gli studi sulle dinamiche delle popolazioni biologiche e i rapporti tra prede e predatori, Volterra estese l’analisi alla competizione tra più specie di predatori quando essi condividono la stessa risorsa o preda. Il modello matematico che sviluppò lo portò ad enunciare il cosiddetto principio di esclusione competitiva: quando due specie competono nello stesso ambiente per la medesima risorsa, una delle due è destinata all’estinzione. In altre parole, non esistono stati di equilibrio stabile in cui entrambe le popolazioni di predatori convivano nutrendosi della stessa preda (vedi paragrafo sottostante).
Nati in un ambito assai circoscritto e in risposta ad un problema puntuale, i modelli matematici di Volterra hanno validità del tutto generale, ben al di là dei confini della biologia. La loro potenza e versatilità rappresentano un esempio di ciò che Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963, ha definito la irragionevole efficacia della matematica nelle applicazioni scientifiche. Solo una minima parte dei fenomeni naturali, infatti, si lascia descrivere matematicamente, e solo in condizioni molto speciali; è dunque incredibile che, quando una descrizione è comunque possibile, lo sia non in maniera soltanto approssimata, bensì con un grado d’accuratezza ed una profondità spropositati.
Ma forse neppure Volterra avrebbe immaginato quale spettacolare applicazione le sue leggi avrebbero avuto pochi decenni più tardi, in un contesto lontanissimo e inaspettato.

Guarda chi si rivede…!

Alla fine degli anni Quaranta il fisico statunitense Charles Townes cercava di utilizzare le onde elettromagnetiche per studiare la struttura delle molecole. Viste le dimensioni microscopiche degli oggetti da indagare, la radiazione doveva avere una piccolissima lunghezza d’onda (ossia una frequenza altissima) ed essere molto “pulita”. Aiutato dal suo allievo Gordon Gould, Townes si ricordò di vecchi lavori di Albert Einstein del 1917 sull’emissione stimolata di radiazione, per cui è possibile indurre un atomo ad emettere radiazione investendolo con una radiazione identica. Se si fosse riusciti a costruire un dispositivo in grado di imbrigliare e contenere la radiazione così prodotta – pensava Townes – il gioco era fatto: la radiazione si sarebbe autorigenerata e amplificata, con un effetto a catena. Nasceva così l’idea del LASER (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, se la radiazione è luminosa) ovvero MASER (Microwave ASER, nella versione a microonde). Nel frattempo, oltrecortina, i fisici sovietici Nicolaij Basov e Aleksandr Prokhorov stavano ottenendo risultati simili. Townes, Basov e Prokhorov vinsero nel ’67 il premio Nobel per l’elaborazione teorica del laser, quando già se ne cominciavano a vedere i vastissimi campi d’applicazione. Oggi il laser è utilizzato un po’ ovunque: dall’ottica alla medicina, dall’astronomia alle telecomunicazioni, dalla biologia all’archeologia; con la diffusione di lettori CD e DVD, è entrato persino negli elettrodomestici di uso quotidiano.
Come suggerisce il nome, il dispositivo (in sostanza un “wafer” di materiali semiconduttori, con due specchietti semiriflettenti alle estremità) è capace di creare, amplificare ed emettere un fascio luminoso quando gli viene iniettata una corrente elettrica che può essere vista come l’alimentazione.
La luce del laser, però, non è luce qualsiasi. Le comuni sorgenti, come il Sole o una lampadina, generano luce estremamente incoerente e “disordinata”, con una banda di frequenza larghissima, una fase e una polarizzazione casuali. Il laser invece è in grado di produrre un segnale luminoso coerente e “ordinato”: cioè con una banda di frequenza strettissima, una stessa polarizzazione e una stessa fase. Come ci riesce? Vediamo.
In estrema sintesi, la luce è composta da pacchetti o quanti di energia, chiamati fotoni. La sua intensità dipende dal numero di fotoni trasmessi in un certo tempo; la sua fase e polarizzazione variano con la fase e la polarizzazione di ciascun fotone trasmesso. Per quanto detto, il laser è capace di sfruttare una corrente elettrica (leggasi: popolazione di elettroni) per generare una luce (leggasi: popolazione di fotoni) avente speciali caratteristiche (la medesima frequenza, polarizzazione e fase). Una torcia elettrica, invece, sfrutta la stessa corrente elettrica ma genera luce incoerente e caotica, ossia popolazioni di fotoni completamente diverse l’una dall’altra per frequenza, polarizzazione e fase.
Sembra che nel laser una certa popolazione di predatori (fotoni), riuscendo a sfruttare il cibo disponibile (gli elettroni) meglio di qualunque altra, alla fine risulti vincente e abbia il sopravvento.
In che modo, dunque, il laser riesce a produrre e selezionare fotoni di un certo tipo? Semplice: obbedendo alle leggi di Volterra. Ciò che descriveva le dinamiche delle popolazioni di pesci continua incredibilmente ad essere valido in un contesto completamente diverso. Formalmente nulla cambia, salvo che ora sono gli elettroni a svolgere il ruolo di prede, e i fotoni quello di predatori. Il tempo di vita dei fotoni è inferiore (circa 1/1000) al tempo di vita degli elettroni: le leggi di Volterra prevedono allora che la popolazione dei fotoni (predatori) deve aumentare a scapito di quella degli elettroni (prede).
Il principio di esclusione competitiva ci dice dell’altro. Tra tutte le possibili popolazioni di predatori (fotoni) che competono per la stessa risorsa (elettroni), una sola ha successo: quella che meglio si adatta all’ambiente (la struttura del dispositivo laser) e riesce a sfruttarne le risorse per proliferare. Basta un piccolo vantaggio iniziale, e poi la selezione naturale farà il resto. Alla fine, la popolazione vincente sarà composta da individui (fotoni) della stessa “specie”, cioè aventi la stessa frequenza, polarizzazione e fase. Dunque, il fascio luminoso prodotto sarà preciso, “coerente” e pulito.

Un semplice modello di interazione preda-predatore

Detto x il numero di prede e y quello dei predatori, i tassi di variazione temporale delle rispettive popolazioni si possono esprimere come:
dx/dt = Ax – Bxy
dy/dt = –Cy + Dxy
dove
A è il fattore netto di crescita delle prede, che tiene conto della proliferazione naturale e della decrescita dovuta a fattori esterni come la pesca; nel caso del laser, A esprime l’aumento della popolazione di elettroni (x) dovuta alla corrente iniettata nel dispositivo, e tiene conto del tempo medio di vita degli elettroni;
B è il fattore di decrescita delle prede per la presenza dei predatori; nel caso del laser, esprime l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni (y).  
C è il fattore netto di decrescita (naturale e dovuta alla pesca) dei predatori; nel caso del laser esprime la vita media dei fotoni (y).
D è il fattore di crescita dei predatori dovuta all’interazione con le prede, ed esprime l’efficienza di caccia dei predatori; nel caso del laser rappresenta l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni y (sostanzialmente D = B).
Si può dimostrare che il sistema di equazioni presenta due situazioni di equilibrio. Oltre a quella banale (x = y = 0), c’è la:
x = C/D
y = A/B
Un aumento moderato della pesca (A cresce e C decresce) ha dunque benefici effetti sulla popolazione delle prede. Nel caso del laser, siccome la vita media dei fotoni è molto minore della vita media degli elettroni (C << A), i predatori y (fotoni) hanno il sopravvento sulle prede x (elettroni disponibili all’emissione stimolata): l’intensità luminosa ne risulta amplificata. 

Il modello di esclusione competitiva

In questo caso si prendono in considerazione due popolazioni di predatori y1 e y2 che competono per la stessa risorsa o preda x.
La popolazione delle prede (risorse) condivise x dipende ovviamente dal numero di predatori y1 e y2. Il tasso di variazione si può scrivere come:
dx/dt = Ax – B1xy1 – B2xy2   
Le popolazioni dei predatori variano invece come:
dy1/dt = –C1y1 + D1xy1
dy2/dt = –C2y2 + D2xy2
Sia x(0) la concentrazione iniziale della risorsa; y1(0) e y2(0) le concentrazioni iniziali dei predatori.  
I parametri A, B e C hanno significato analogo a quelli definiti per la relazione preda-predatore.
Oltre a quella banale (y1 = y2 = 0), esistono 2 situazioni di equilibrio:
y1 = K1, y2 = 0       con K1 = K1(C1, D1, x(0))
y1 = 0, y2 = K2       con K2 = K2(C2, D2, x(0))
In entrambi i casi, una sola popolazione di predatori sopravvive, l’altra soccombe.

Vito Volterra

Nato ad Ancona il 3 maggio 1860, passò i primi anni a Torino e Firenze, mostrando già una spiccata propensione agli studi scientifici. Nel 1878, grazie all’aiuto del suo professore di fisica Antonio Roiti e di uno zio, l’ingegnere Edoardo Almagià, si iscrisse alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Pisa. L’anno dopo entrò come allievo alla Scuola Normale, dove studiò fisica e matematica. Era laureato solo da pochi mesi quando partecipò ad un concorso per la cattedra di Meccanica Razionale dell’Università di Pisa. Lo vinse e diventò docente: aveva 23 anni. Nell’87 fu promosso ordinario, cinque anni dopo gli venne assegnato l’insegnamento di Fisica Matematica e diventò preside della facoltà di Scienze. Nel ’93 decise di lasciare Pisa per Torino, a coprire la cattedra di Meccanica Superiore. Risalgono a quegli anni alcuni dei suoi lavori più famosi sull’analisi funzionale applicata allo studio di equazioni integrali e differenziali alle derivate parziali. Nel ’99, dopo una serie di prestigiosi riconoscimenti accademici, ottenne la nomina più ambita, quella a socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel 1900 fu chiamato presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e nel 1907 ne divenne preside.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Volterra appoggiò l’intervento italiano e arrivò ad arruolarsi col grado di tenente, mettendo a disposizione dell’esercito le sue capacità tecniche e organizzative.
Contrastò invece apertamente il Fascismo, sin dagli albori. Nel ‘25 fu tra i firmatari del “Manifesto Croce” degli intellettuali antifascisti, e aderì all’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, schierandosi col gruppo dei senatori di opposizione. Il regime non glielo perdonò. Dal ‘26 cominciarono ad arrivargli pressioni e avvertimenti affinché si dimettesse da presidente dell’Accademia dei Lincei, ma i soci lo convinsero a restare. Nel ‘31, però, il governo estese ai professori universitari l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime: Volterra e una decina d’altri (cittadini ebrei ma non solo) si rifiutarono di giurare, perdendo così la loro posizione accademica e anche il posto nei Lincei. Egli provò a ribellarsi, ma invano: schedato come oppositore, divenne un sorvegliato dalla polizia politica e la sua libertà d’espressione e di movimento sottoposta a restrizioni.
Attorno a Volterra si creò una situazione paradossale, quasi grottesca. Da una parte, l’ordine ufficiale di ignorare l’uomo, la sua figura e la sua attività; dall’altra, la solidarietà di amici, colleghi ed estimatori che ancora lo consideravano un riferimento – non più formale ma di fatto – per il mondo scientifico e accademico.
Emarginato ma non dimenticato, Vito Volterra morì a Roma l’11 ottobre 1940. Nessuna delle istituzioni scientifiche italiane a cui tanto aveva dato poté commemorarlo: l’unica celebrazione ufficiale cui la famiglia poté assistere fu quella di Carlo Somiglianza nell’accademia pontificia. E mentre la figura del grande matematico veniva ricordata nel resto del mondo, l’Italia avrebbe dovuto attendere la fine della guerra. La commossa rievocazione di Guido Castelnuovo apriva l’adunanza generale del 17 ottobre 1946, ed inaugurava l’attività della ricostituita Accademia dei Lincei.
Ancona, la sua città natale, ha intitolato a Vito Volterra il Dipartimento di Matematica della facoltà di Ingegneria e l’Istituto Tecnico Industriale di Torrette.

Le dichiarazioni di Ratzinger

-Sulle altre forme di Cristianità:

"Non sono Chiese nel senso proprio; comunque, coloro che sono stati battezzati in queste comunità sono, attraverso il battesimo, uniti in Cristo e così sono in una certa comunione, benchè imperfetta, con la Chiesa". [Dominus Jesus Declaration 2000]

Insomma, i cristiani sono cristiani. Il dialogo con ortodossi e protestanti dovrebbe continuare sul tracciato delineato da GPII.

-Sulle altre religioni:

"Parlando obiettivamente, (essi) sono in una situazione di grave deficienza rispetto a coloro che, nella Chiesa, hanno la pienezza dei mezzi di salvazione dell’anima." [DJD 2000]

Dialogo interreligioso si, ma solo i Cristiani detengono la verità…

-Sulla contraccezione:

"Non possiamo risolvere grandi problemi morali semplicemente con la tecnica e con la chimica, ma dobbiamo risolverli moralmente, con lo stile di vita." [Sale della terra 1997]

Insomma gli africani devono imparare a cambiare stile di vita prima di venire tutti infettati dall’AIDS.

-Sull’omosessualità:

"Sebbene la particolare inclinazione di una persona omosessuale non sia un peccato, essa è più o meno una forte tendenza verso un intrinseco male morale; e così, la stessa inclinazione, deve essere vista come una oggettiva malattia… Come in ogni conversione dal male, l’abbandono della attività omosessuale richiederà una profonda collaborazione tra l’individuo e la grazia liberatrice di Dio" [Lettera ai vescovi della Chiesa Cattolica 1986]

Quindi gli omosessuali sono persone sulla via del male che hanno bisogno di convertirsi. In fondo, su questo tema, pare meno intransigente che in altri campi.

-Sul sacerdozio delle donne:

"Questa ordinazione sacerdotale costituisce una grave offesa alla costituzione della Chiesa ed è un affronto alla dignità delle donne, il cui ruolo specifico nella Chiesa e nella società è distintivo e non rimpiazzabile" [Dichiarazione alla sacra congregazione per la dottrina della fede 2002]

Fino a quando la Chiesa Cattolica continuerà a discriminare le donne?

-Sulla politica:

"Un cattolico dovrebbe essere colpevole di formale collaborazione con il male, e così indegno di presentarsi alla Sacra Comunione, se avesse deliberatamente votato per un candidato favorevole all’aborto o alla eutanasia."

Dobbiamo dunque aspettarci grosse interfenze di questo Papa suille decisioni politiche? Io ho paura di si anche se in questo caso la Chiesa rischia di perdere ancora l’appoggio popolare come è successo in passato proprio sul tema dell’aborto. In Italia infatti più del 90% della popolazione è cattolica, ma al referendum più del 50% ha votato a favore della legge sull’aborto. Speriamo che la Chiesa si accorga di tutto ciò e non cerchi di pesare troppo sulla vita politica del nostro paese (utopia?).

I primi commenti a caldo

Pochi minuti sono trascorsi dall’«Habemus Papam» televisivo.
Il Cardinale Castillo Lara: “è la persona ideale, spero di non sbagliarmi”.
Vespa azzarda: “le riforme di sinistra le fanno quelli di destra”.
A San Pietro una ragazza, tra le prime intervistate, conclude secca: “è una scelta che non mi piace”; il giornalista mette una pezza: “è normale, bisogna aspettare” e poi sospende le domande in diretta, si ripiegherà su quelle confezionate per il telegiornale delle 20.

Dalla piazza poi qualcun risponde: “sono deluso”; un altro semplicemente che “non è male”; un uomo, pochi minuti dopo, confessa: “speravo in un Papa latino-americano”.
Complessivamente ho percepito delusione dalla piazza, rassicurazione dai giornalisti, speranza da parte di tutti.

Dicono sia persona cordialissima e disposta al dialogo, teologo eccellente, professore di lunga esperienza, colto, gran lavoratore. Forse questo basterà.
Di certo, abituati al Grande Karol, ci colpisce la Sua gestualità, ridotta e composta, il Suo linguaggio, formale e accademico, ed anche i Suoi messaggi, tanto ortodossi quanto freddi.
C’è da sperare che almeno i Papa-boys (su di noi non c’e’ speranza), tra un canto Gregoriano e una messa in latino, non esagerino con gli sbadigli.

Un papa di destra?

Certamente è difficile catalogare un Papa con le categorie della politica, ma indubbiamente l’elezione al soglio pontificio di Jozef Ratzinger rappresenta una chiara volontà della chiesa espressa proprio dall’ex cardinale nella sua ultima omelia pre-conclave.

La chiesa cattolica ha scelto purtroppo la via dell’arroccamento sulle sue posizioni ideologiche più estremistiche, allontanandosi sempre più dalla via modernistica delineata dal Concilio Vaticano II.

Già Karol Wojtyla, durante il suo pontificato, aveva tenuto una linea abbastanza ambigua:

Aperto verso le altre religioni, verso i giovani, verso le manifestazioni della fede (da qui le numerose satificazioni) e convinto pacifista.

Intransigente e conservatore riguardo alla ortodossia della dottrina ed alla morale su tutti i maggiori temi emersi durante il suo pontificato: dall’aborto al divorzio, all’eutanasia, alla scuola privata, all’etica sessuale (ad esempio sull’uso dei profilattici), al ruolo della ricerca scientifica, alla procreazione assistita, al sacerdozio femminile e più in generale al rapporto tra uomo e donna (evidentemente era più amante della figura di Maria che di quella della donna).

Il nuovo Papa, Benedetto XVI, è stato il cosigliere dottrinale di Giovanni Paolo II per quasi tutto il pontificato e dunque non si dovrebbero avere grandi sconvolgimenti in questo campo.

Quello che è veramente preoccupante è la visione ultraconservatrice del nuovo papa anche negli altri ambiti: basti ricordare che solo pochi anni addietro (nel 2000), il cardinale Ratzinger si era espresso con chiarezza contro il concilio vaticano II, arrivando addirittura ad auspicare un ritorno della lingua latina nella celebrazione delle messe e il ritorno a celebrare i riti rivolti verso l’abside e non verso i fedeli!

La Chiesa Cattolica sceglie dunque di fare una battaglia di difesa e di arroccamento sui suoi dogmi invece di aprirsi, come molti auspicavano, alla modernità non certo abdicando dai propri valori, ma adeguandoli alle sfide del terzo millennio.

In definitiva non mi sembra questo il modo di continuare quella grande opera di riavvicinamento della chiesa alla società iniziata sotto il pontificato di Giovanni XXIII e portata avanti, anche se in maniera ambigua, da GP II.

Secondo il mio modesto parere questa è una scelta assolutamente sbagliata, ma solo il tempo e le azioni del nuovo Papa potranno confermare o smentire queste prime impressioni.

A proposito di OGM

Cari amici,
quando ho letto il pezzo sugli OGM mi sono balenate in mente diverse considerazioni, prima di tutti quella che avrei voluto dare un’occhiata alla bibliografia di riferimento. Accontentato quasi subito ho avuto una certa impressione accorgendomi che era dominante, se non esclusivo, un certo Autore, un solo nome… Tamino.

Io Tamino lo conosco bene, anzi lo conoscevo molto bene dai tempi lontani delle frequentazioni politiche e pertanto mi è passato in mente che su questa materia sarebbe stato meglio non andare a memoria, su nozioni che sono invecchiate ancor più della mia età ed ho scritto ad un giovane amico che si occupa di genetica, che ha avuto interessanti esperienze all’estero e che lavora in Italia, in ambiente universitario. Così lui mi ha girato via mail questo parere, quasi come uno sfogo (e lo comprendo bene!), aggiungendo alla fine:” Mi rendo conto che il mio e’ stato quasi uno sfogo notturno. Fanne cio’ che vuoi..”

Ecco quindi che alla richiesta di Marco ed Andrea, che avevano letto queste righe, non ho potuto dire di no. Anzi con piacere partecipo a questo dibattito perché le mie convinzioni sono anche più drastiche di quelle del giovane studioso.

Ragazzi oltre le scienze (che sono il mio terreno) studiate anche la storia, certo fate tesoro degli errori, ma per paura non restate ancorati nel porto senza mai prendere il largo. L’assoluta certezza dell’inesistenza dei rischi non cè mai per nessuno, in nessuna materia. Ogni passo della vita richiede decisioni e sofferenze. Lasciatevelo dire da chi – a ragione dell’età – ha sbagliato, ma anche avuto qualche soddisfazione.

Un saluto
Gianluigi Mazzufferi

Tamino e’ tristemente noto tra i genetisti agrari, in quanto portatore di un punto di vista “ideologico” sulle biotecnologie.
I pericoli che ci minacciano, apocalittici, secondo l’articolo, non sono secondo me concreti.

La questione della brevettabilità della materia vivente non piace neanche a me, ma gli investimenti (notevoli) per portare in campo una varieta’ coltivata con caratteristiche veramente buone devono pur essere compensati, altrimenti si ferma tutto, con buona pace di Tamino. Che cosa fa lui per la avitaminosi A nei paesi poveri? I soldi per il Golden rice li ha messi prevalentemente la fondazione Rockefeller, che ha scopi umanitari. Secondo me sono stati soldi spesi piuttosto bene.

Il Golden rice non risolve certo tutti i problemi, ma e’ un aiuto da affiancare al miglioramento della dieta che certamente deve essere realizzato. Le multinazionali che detengono i brevetti hanno accettato di non riscuotere royalties nei paesi poveri, ma solo in quelli ricchi. Potrykus, il leader del gruppo di ricerca, oggi in pensione, ha sviluppato riso arricchito di beta carotene (e anche di ferro) anche con altri metodi per aggirare vincoli di brevettazione.

Quello che mi sorprende e’ l’accanimento con cui Greenpeace e altri si oppongono all’introduzione di questo riso: cosa c’e’ da perderci? non si tratta mica di una sola varieta! saranno molte e molte varieta’ adattate ai diversi ambienti, ma tutte con questa nuova caratteristica, e chi non le vorra’ trovera’ anche le varietà non GM !!
Perche’ non mangiano riso integrale? Credo per le stesse ragioni per cui non ce lo mangiamo noi. Non credo che le multinazionali abbiano imposto la raffinazione del riso in tutto il mondo, questo fa veramente ridere. Così come la bassa qualità nutrizionale del riso della rivoluzione verde: questa e’ veramente grossa: Tamino forse vorrebbe tornare alle varietà locali antiche, che producevano una frazione di quello che producono le varietà moderne !! I grandi difensori della biodiversità hanno tutti la pancia piena. Perche’ milioni di agricoltori, anche a livelli di sussistenza, coltivano con soddisfazione piante GM resistenti ad insetti o a diserbanti ? Forse perche’ trattano meno (drastica diminuzione di intossicazioni da insetticidi tra gli agricoltori cinesi, drastica riduzione dei consumi di carburanti e forte del consumo di diserbanti in USA e altrove), producono e guadagnano di piu’ (anche considerando il maggior costo dei semi delle varietà GM, che comunque non sono le sole sul mercato!).

La realta’ e’ che senza le varietà moderne di cereali oggi ci sarebbe molta piu’ gente che soffre la fame, e le varietà GM vengono coltivate ogni anno di piu’ non certo soltanto perche’ le promuove Monsanto e i suoi amici, ma soprattutto perche’ gli agricoltori le vogliono coltivare perche’ gli conviene (vedi www.isaaa.org).

Ormai tutti sono d’accordo che l’aumento della produzione di cibo non potra’ essere sostenibile se realizzato mettendo a coltura nuove terre. Si deve produrre di piu’ sulla terra oggi coltivata, magari recuperando quella impoverita dalla cattiva pratica agricola. Per questo le biotecnologie possono dare un grande aiuto: esistono gia’ piante rese resistenti al sale o all’acidità del terreno.

Ma il resto del mondo l’ha capito, e pure la Chiesa Cattolica. I nostri ambientalisti stanno veramente facendo una battaglia di retroguardia. Io poi non ne posso piu’ di sentire parlare di prodotti tipici e locali. La patata e il pomodoro non erano tipici prima del 1500 ! Quella e’ roba molto bella ma da ristoranti costosi e da gente che ha tempo e soldi. Bisogna avere l’onesta’ di ammetterlo, e di dire che l’umanità non puo’ campare di agricoltura biologica, a meno, forse, di non diventare tutti subito vegetariani. Per me non sarebbe un grosso problema, ma non mi sembra che si possa fare facilmente o imporre per decreto.

Le piante GM sono supercontrollate, anche troppo: io se vedessi scritto “contiene OGM” su un’etichetta comprerei piu’ volentieri. l’introduzione di geni di diversa provenienza non mi turba affatto, il codice genetico e’ universale e le proteine prodotte sono note. Tutta l’agricoltura e’ una manipolazione profonda dell’ambiente, un’attività artificiale. Chi deve decidere il limite? I ricercatori devono avere voce in capitolo o no? Per i nostri politici pare di no, visto che si scelgono i consulenti tra quelli contro gli OGM, trascurando il parere di autorevoli società scientifiche specializzate (vedi www.siga.unina.it).

Il Prof. Sala ha scritto un libretto molto documentato, molto pro OGM ma secondo me molto franco e largamente nel giusto: “Gli OGM sono davvero pericolosi?” Universale Laterza, 2005. Te lo consiglio.

Scienza, Società, Biotecnologie

Il periodo storico che stiamo vivendo può essere tranquillamente definito come “l’epoca delle biotecnologie”: biotecnologie che promettono di trasformare il nostro pianeta per far scomparire malattie, fame, povertà, mettendo allo stesso tempo in discussione le radicate basi morali della cosiddetta “società occidentale”.

Tematiche quali la clonazione umana, l’utilizzo delle cellule staminali, gli organismi geneticamente modificati (OGM) evidenziano oggi, come mai prima d’ora, tutte le contraddizioni e i paradossi di cui è vittima una scienza senza limiti e priva di controllo. La biologia che promette un’illimitata palingenesi fornisce nel contempo le basi teoriche e pratiche per la produzione di strumenti veramente “micidiali”: non si tratta di rinverdire i fasti della teoria che vuole le ricerche ed i risultati della scienza sempre positivi e la loro utilizzazione soggetta al “buono” o al “cattivo” uso, ma di capire che disgiungere i risultati della scienza dalla loro utilizzazione pratica significa separare la scienza dal suo contesto sociale. Corollario della natura della scienza, infatti, è il sacrosanto diritto dei cittadini “comuni” di discutere dei fatti della scienza e di decidere di volta in volta se questa rappresenti un “progresso” od un “limite”, senza così soggiacere a impostazioni autoritarie tecnicistiche e specialistiche legate più agli interessi di pochi (leggasi multinazionali del settore “Biotech”) che a quelli della collettività.

Quando si parla di biotecnologie spesso si fa una gran confusione, con il rischio di non riuscire a discernere le complessità e le diversità di ogni singola tecnica oggi in uso. Proviamo a fare “ordine” con una breve sintesi.

E’ certamente una biotecnologia il “miglioramento” di una specie vegetale attraverso incroci e selezioni all’interno della stessa specie, arrivando in tempi relativamente brevi ad una pianta in grado, ad esempio, di produrre lo stesso frutto ma in situazioni ambientali diverse o con una resa superiore. D’altra parte, è sicuramente una biotecnologia la modificazione genetica – sempre per finalità produttive – di una pianta nel cui DNA è stato inserito un gene estraneo, proveniente da un’altra specie vegetale o, addirittura, da una specie animale.

C’è però una grande, importante differenza: nel primo caso si copia, anche se con finalità molto diverse, quello che la natura, con la selezione naturale, mette in opera quotidianamente in risposta alle pressioni ambientali e alle mutazioni genetiche proprie di ogni singola specie; si lavora sulla genetica della pianta, dunque, ma non si inseriscono “pezzi” di DNA estranei alla specie stessa. Nel secondo caso, invece, si infrange una vera e propria “barriera naturale” andando a modificare il patrimonio genetico di un vivente – che ha quella particolare, unica, irripetibile e stabile configurazione genetica ottenuta grazie al risultato dei processi evolutivi durati anni e anni ed ancora in corso – inserendo nel suo DNA uno o più geni provenienti da una specie diversa che, spesso e volentieri, è separata da milioni di anni dal punto di vista filogenetico. Una tecnologia già di per se aberrante e senza controllo che purtroppo ben si sposa con finalità legate alla bieca commercializzazione di questi nuovi “oggetti viventi” così ottenuti e brevettati, i tanto famigerati organismi geneticamente modificati. 

In questa sede non voglio appesantire troppo le mie riflessioni andando a ribattere, con argomentazioni motivate, ai presunti benefici degli OGM tanto sbandierati dai loro sostenitori. Argomento che conto di riprendere in una prossima “puntata” sul tema. Mi piace riportare, però, un solo esempio che considero veramente significativo e illuminante rispetto alla sincerità, all’indipendenza intellettuale e alla buona fede dei brillanti ricercatori pro-OGM e delle lobbies ad essi colluse: l’emblematico caso del “Golden Rice”, ovvero quando si specula sulle gravi e reali situazioni di denutrizione in vaste aree del Terzo Mondo per ottenere consenso popolare ed enormi vantaggi economici.

Il Golden Rice è una “meravigliosa” varietà di riso raffinato ad alto contenuto del precursore della vitamina A (il beta-carotene) che gli scienziati pro-OGM hanno creato in laboratorio per salvare dalla fame, una volta per tutte, i poveri delle regioni africane, asiatiche e dell’America latina, nelle cui popolazioni è stata da tempo riscontrata un’alta deficienza proprio di vitamina A (specialmente nei bambini), correlata ad altre carenze di micronutrienti (come ferro, iodio e zinco).

Il riso è uno dei principali, se non l’unico, alimento-base di queste popolazioni: l’avitaminosi è dovuta sia alla graduale sostituzione delle migliaia di varietà di riso integrale coltivate (più di 10.000 nel 1949) con le attuali due sole varietà raffinate il cui valore nutrizionale si è notevolmente ridotto, sia alle condizioni di assoluta povertà. Questi sono alcuni degli effetti della cosiddetta “rivoluzione verde” (che ha come principio base la monocoltura) e della reiterata proposizione di modelli agrari insostenibili (leggasi “neocolonialismo economico”) che hanno costretto a modificare le tradizionali pratiche agricole locali e, di conseguenza, i modelli agro-nutrizionali delle popolazioni rurali, per la sovrapproduzione che vola verso il “Nord” del mondo. Nel caso del riso, per ragioni commerciali legate alla domanda del mercato occidentale, questo viene privato dello strato esterno di aleuroni naturalmente ricco in provitamina A: l’involucro esterno, infatti, tende ad irrancidirsi durante lo stoccaggio, specialmente nelle aree tropicali.

Ebbene il riso OGM “arricchito” con beta-carotene, che viene in apparente soccorso al modello commerciale che colpisce duramente lo stato nutrizionale delle popolazioni locali, è il prodotto di 10 anni di costosissime ricerche (circa 100 milioni di dollari) grazie alle quali si è “costruita” una pianta nel cui DNA sono stati inseriti geni e materiali genetici provenienti principalmente dal virus del mosaico del cavolfiore CaMV e dal batterio del suolo Agrobacterium tumefaciens (responsabile di molti tumori vegetali). In questa varietà di riso, dunque, si ritrova in piccole quantità il beta-carotene che si è perso con le moderne tecnologie di raffinazione, ma anche tutta una serie di prodotti non identificati e non caratterizzati (proteine, geni, ecc.) dei quali, ovviamente, non si sa nulla né sul loro valore nutrizionale, né tantomeno sulla loro tossicità e stabilità.   

Multinazionali del Biotech finalmente benefiche e fame del mondo almeno parzialmente sconfitta ? Non proprio.
Quello che non viene sapientemente detto né divulgato da chi sta facendo fruttare i circa 70 brevetti sul Golden Rice (…pensavate fosse gratuito ?) è che, vista la quantità di beta-carotene del riso OGM, una dieta normale (di circa 300 grammi di riso al giorno) fornirebbe solo l’8% della quantità giornaliera di questa preziosa provitamina A raccomandata dai nutrizionisti. E cioè: una donna in fase di allattamento dovrebbe nutrirsi con circa 18 kg di riso cotto al giorno per ottenere la quantità di beta-carotene che le è necessaria !

Se qualcuno pensasse “…meglio poco che niente…” è bene che rifletta anche sul processo fisiologico di trasformazione del beta-carotene in vitamina A. Infatti una volta ingerito, il precursore vitaminico deve essere trasformato dall’organismo e questo non avviene se la dieta è troppo povera di grassi, proteine, zinco e vitamina E; dunque …. i poveri del Terzo Mondo rischiano di non utilizzare nemmeno quel poco di beta-carotene contenuto nel Golden Rice a causa delle note carenze alimentari. E questo evidenzia ancor di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, che ai problemi provocati da una tecnologia si risponde proponendo una nuova biotecnologia, ignorando completamente che esiste una realtà soggiacente al mondo artificiale. Una realtà che chiede soluzioni che l’approccio ipertecnologico non potrà mai fornire.

In conclusione a queste mie considerazioni, non posso non far notare come oggi quello che manca è un serio approfondimento a vari livelli del rapporto “uomo-natura” e dell’effetto sulla nostra identità di un mondo naturale svilito a risorsa da rapinare e a recipiente di prodotti a presunto “alto valore aggiunto”, ottenuti dalla cruenta trasformazione/modificazione del patrimonio genetico degli esseri viventi. In questo contesto la commercializzazione della scienza ed i rapporti sempre più stretti tra università ed industria aventi finalità stile … do ut des …, stanno minando la fiducia del “grande pubblico” verso la scienza e gli studiosi, verso una ricerca scientifica che obbedisce agli interessi economici, alle nuove regole sulla brevettazione, alla moderna pirateria che preda le risorse genetiche del Terzo Mondo.

Le splendide certezze di un avvenire migliore, di un “progresso” legato al consumismo che fa rima con benessere e che scienza ed economia pubblicizzano incessantemente con il più o meno tacito placet dei politici di turno, sono continuamente smentite dalla dura, e spesso drammatica, realtà vissuta dalla maggior parte del genere umano; certezze che svaniscono giorno dopo giorno nel fallimento di un progetto “cosmetico” inteso a modificare ed abbellire i clamorosi insuccessi di una grossa parte del sapere ipertecnologico (vedi il caso degli OGM) sempre più lontano dai bisogni quotidiani della gente.
Il nostro ruolo di “cittadini-consumatori informati, critici e consapevoli” è quello di continuare ad essere informati e fare controinformazione per spingere i nostri politici, i nostri amministratori, i nostri concittadini più “ignavi” verso valori quali la tutela della natura e della biodiversità, la giustizia sociale, la solidarietà ed il rispetto della vita in ogni sua forma. Senza per questo essere tacciati di oscurantismo o di essere definiti nemici del “progresso”, proprio come gli oppositori al riso OGM “Golden Rice” sono stati definiti.

David Fiacchini
Biologo
[dr.fiacchini@libero.it]

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Ladri di geni. Dalle manipolazioni genetiche ai brevetti sul vivente.
Gianni Tamino, Fabrizia Pratesi.
Editori Riuniti

Etica, biodiversità, biotecnologie, emergenze ambientali.
Gino Ditaldi, Margherita Hack, Gianni Tamino.
Edizioni Isonomia.

Le biotecnologie. Atti del seminario di Roma, 24 settembre 1999.
Ministero dell’Ambiente,
Supplemento al mensile “l’ambiente informa” n. 11 – 1999.

Riso transgenico dilemma cinese (Gianni Tamino).
Altreconomia, n. 59, marzo 2005, pp.14-16

Coltivazioni transgeniche e lobbies OGM: Alemanno, il pesto, il decreto indigesto (Gianni Tamino).
Gaia, n. 22/2004, inverno 2005, pp. 16-19

Soia OGM in Argentina: un fallimento annunciato (Sue Bradford).
Gaia, n. 22/2004, inverno 2005, pp. 18-19
(giornalista del NEW SCIENTIST; www.newscientist.com)

RISORSE IN RETE:

www.lescienze.it/index.php3?id=10454
Le Scienze: "Politico blocca studi sugli OGM"

www.greenpeace.it
Greenpeace, uno dei più grandi movimenti ambientalisti del mondo

www.ciboogmnograzie.it

www.equivita.it
Equivita, Comitato Scientifico Antivivisezionista

www.genet-info.org
GENET, rete internazionale informatica che riporta notizie su geni e OGM.

A proposito di libertà dei cattolici…

L’8 marzo ho letto su Vivere Senigallia un intervento del prof. Gianfederico Tinti (responsabile cultura del coordinamento comunale Forza Italia) sulla libertà dei cattolici. Tinti sposa le posizioni della Curia senigalliese e del vescovo Mons. Orlandoni: bisogna rifiutare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche, perché la missione della Chiesa riguarda la dimensione sociale, la concretezza delle situazioni di disagio, la vicinanza agli “ultimi”, l’aspetto caritativo dell’esistenza».

La Chiesa, continua Tinti, deve prendere «distanza dagli schieramenti in campo, perché al giorno d’oggi nulla sarebbe più disdicevole e controproducente di certo clero sindacalizzato e politicizzato, […] che tessa la trama del do ut des nel buio di qualche canonica; no, la scelta politica e amministrativa spetta al laicato, che, alla luce dei valori fondamentali cristiani […] opera le sue scelte in libertà di coscienza».

Vorrei fare alcune osservazioni semplici semplici.
Innanzitutto una curiosità: quelle frasi valgono solo per Senigallia oppure sono vere in generale? Perché delle due l’una: se ciò che vale per Senigallia non vale per l’Italia, si spieghi il perché; altrimenti ne deduco che il prof. Tinti non la pensa come le gerarchie vaticane e c’è da aspettarsi qualche sua dura critica verso di loro. Mi sembra, infatti, che nel nostro Paese l’andazzo non sia esattamente quello che il prof. Tinti dipinge nel suo articolo.

Un esempio recente.
Lo scorso 17 gennaio, a Bari, la Conferenza Episcopale Italiana, per bocca del suo presidente cardinale Camillo Ruini, ha ribadito la legittima e sacrosanta contrarietà alla modifica della legge 40/2004 sulla procreazione assistita; per i prossimi referendum la CEI ha invitato i cattolici ad «avvalersi di tutte le possibilità previste». A cosa si riferiva il cardinale? A chiarire il concetto, per chi ancora non lo avesse capito, ci ha pensato lo stesso Ruini il 7 marzo, con un’esplicita «indicazione di non partecipare al voto». «Non si tratta in alcun modo», spiega il prelato, «di una scelta di disimpegno, ma di opporsi nella maniera più forte ed efficace ai contenuti dei referendum e alla stessa applicazione dello strumento referendario in materie di tale complessità».

Passi pure la solita tiritera sul fatto che la materia è troppo complicata per i referendum, il Paese si spacca, la gente non capisce. La storia dimostra (ad esempio col divorzio) che quando la gente è stata messa in condizione di decidere non solo ha capito ma ha votato con libertà di coscienza, laicamente. Il Paese non si è spaccato, e soprattutto i cattolici hanno saputo distinguere tra le proprie convinzioni religiose e le leggi dello Stato. Per inciso, la complessità o la semplicità di una materia la decide Ruini?
Non m’interessa neppure discutere se sia giusto o sbagliato non andare a votare. Il discorso ci porterebbe lontano: bisognerebbe capire come mai l’astensione ai referendum è legittima – e lo deve essere, ovviamente – però poi alle elezioni, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una “scelta di campo” e correre tutti alle urne. Ma lasciamo stare.
Rinuncio anche ad entrare nel merito dei 4 referendum sulla procreazione assistita, che voteremo in primavera. Si tratta di questioni di coscienza che afferiscono alla Vita e alle vite concrete di milioni di persone. Sperando che l’informazione sia adeguata, ognuno farà la propria riflessione e sceglierà.

Per il momento, mi interessa “solo” una questione di forma. D’altra parte, cosa sono la legge e la legalità, se non anche e innanzitutto forma?
L’articolo 2 del Concordato Lateranense dice che «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione». Queste e non altre sono le materie di intervento riconosciute alla Chiesa e ai suoi organi.
Con ciò non si sta togliendo alla Chiesa il diritto di diffondere i precetti della morale cattolica; non la si vuole privare della facoltà di sostenere che l’embrione è una persona e in quanto tale portatore di diritti; tanto meno si nega ai cattolici la libera manifestazione del pensiero. Sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Qui si sta dicendo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Prof. Tinti, tutto ciò non le pare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche»? Quella che Lei chiamerebbe «distanza dagli schieramenti in campo» a me sembra piuttosto una militanza esplicita e faziosa.
In un altro paese, un paese con un minimo di coscienza laica, non ci avrebbero nemmeno provato. Si sarebbero perlomeno alzate delle voci, l’opinione pubblica se ne sarebbe accorta e indignata, molti avrebbero fatto notare l’indebita ingerenza. Il Governo avrebbe inviato una nota formale di protesta al segretario di Stato Vaticano.
Invece niente, tranne qualche voce isolata sui quotidiani. Evidentemente oltre Tevere sanno di potersi permettere queste uscite, sanno che gli andrà bene, che nessuno gli chiederà conto di nulla. Ma se lo fanno è anche perché hanno paura: tanta è la loro fiducia nell’unità dell’elettorato cattolico che temono persino di farlo esprimere.

Nota: Quest’articolo è stato anche pubblicato il 10/03/2005 su Vivere Senigallia.

La nuova scuola tra riformatori e autogestori

Leggo sulla stampa senigalliese che gli studenti del Liceo Classico “Perticari” di Senigallia da qualche tempo sono impegnati in un progetto di autogestione scolastica. Il progetto comprende scioperi e assemblee ma anche svariati corsi, tra i quali c’è una rassegna cinematografica su Kubrick, una mostra d’arte, un corso di hip-hop, dibatti sulla società moderna, un’informazione scientifica sull’AIDS, un’informazione critica sulla Riforma Moratti, un corso di fotografia, un corso di Yoga, il racconto dell’esperienza “Il Giardino degli Angeli” in Brasile, corsi di musica e di graffiti e molto altro ancora. Argomenti, hanno sottolineato organizzatori e partecipanti, «di solito sorvolati nelle ore curricolari». Leggi tutto “La nuova scuola tra riformatori e autogestori”

Giorgiana Masi, una strage di verità

«A Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa il 12 maggio 1977 dalla violenza del regime» è dedicata la lapide che ancor oggi si può vedere a Roma svoltando su ponte Garibaldi, da Trastevere verso il Ghetto. Sta lì a testimoniare avvenimenti lontani e quasi dimenticati, che pure fanno parte della nostra storia e anzi ne rappresentano uno dei momenti più torbidi.

Il contesto

Nella seconda metà degli anni Settanta, l’Italia vive il “compromesso storico”. Alle elezioni politiche del giugno ’76 il Partito Comunista è al massimo storico e sfiora il sorpasso sulla Democrazia Cristiana: i due partiti raccolgono da soli quasi i tre quarti dei voti. La prospettiva di un accordo politico, che ha Aldo Moro come artefice e a cui anche Berlinguer ammicca sin dal ’73, diventa concreta: il terzo governo Andreotti (detto della “non sfiducia”) è un monocolore DC che gode per la prima volta da trent’anni dell’astensione del PCI.
Alla crisi economica e sociale si risponde con l’unità tra i partiti del cosiddetto arco costituzionale; al terrorismo e alla diffusa violenza di matrice politica si oppongono una legislazione repressiva e provvedimenti d’emergenza. Dal ’75 è in vigore la “legge Reale”, che estende i termini della carcerazione preventiva, dà facoltà alle forze dell’ordine di arrestare cittadini in base al sospetto che stiano per compiere un reato, autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura, prevede la possibilità di 48 ore di fermo di polizia senza la convalida del magistrato. Il ’76 ha fatto registrare il picco degli episodi di violenza politica (1198, con 14 morti e 10 feriti); il ’77 sembra avviato sulla stessa strada, e alla fine batterà il record (2128 episodi, con 17 morti e 45 feriti).
In un clima già pesante e avvelenato da recenti fatti di sangue a Milano e Bologna, il 21 aprile ’77 l’occupazione delle università romane contro la riforma Malfatti degenera in violenti scontri tra polizia e autonomi, con feriti da ambo le parti e l’agente Settimio Passamonti ucciso da una P38.
Il vaso trabocca. «Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana», dichiara il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, e con un decreto-legge dà mandato al prefetto di Roma di vietare ogni manifestazione pubblica nel Lazio per tutto il mese di maggio.
Il decreto è palesemente illegale, anche perché si richiama ad un articolo di una legge fascista del ’31 già dichiarato incostituzionale nel ’61. Il Governo può limitare a scopo preventivo il diritto di pubblica e pacifica riunione, ma solo “per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” (art. 17 della Costituzione), da valutare caso per caso e non indiscriminatamente.
Il 18 maggio ’77 l’ex presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Branca scriverà:

«Non voglio credere che […] Cossiga abbia detto […] che il divieto è legittimo perché qualunque manifestazione di piazza, anche la più pacifica, può degenerare […]. È una motivazione che uccide la democrazia: infatti quella possibilità di degenerazione, per interventi esterni, c’è oggi come ci sarà domani». [Questa logica] «condurrebbe a prolungare in perpetuo il divieto o a rinnovarlo a ogni scadenza: in parole povere ad annullare il diritto costituzionale di riunione in luogo pubblico. È come se il governo vietasse le strette di mano perché potrebbero, non si sa mai, diffondere le malattie. Con questa filosofia possono essere annullati i principali diritti del cittadino».

Il decreto Cossiga, da lui stesso definito un «bando militare extra legem», fa ormai scuola nel vero senso della parola: testi universitari di diritto lo citano ad esempio di provvedimento incostituzionale.

Gli avvenimenti del 12 maggio ’77

Nel periodo di divieto cade il terzo anniversario del referendum sul divorzio, il 12 maggio. La manifestazione celebrativa, convocata in Piazza Navona dal Partito Radicale e dai vincitori del ’74, non viene annullata: è un atto di disobbedienza civile al decreto Cossiga. Giusta o sbagliata che sia la mossa dei radicali, la manifestazione neppure comincerà.
Già alle ore 13 gli ingressi a Piazza Navona sono sbarrati da cordoni di militari in assetto antisommossa, e davanti al Senato iniziano le prime cariche: vengono spintonati e picchiati manifestanti, giornalisti, fotografi, parlamentari, ma anche gente comune e passanti diretti in piazza. Il clima inizia a surriscaldarsi e i disordini si espandono al centro storico di Roma. In piazza della Cancelleria si notano per la prima volta uomini in borghese, vestiti da autonomi e armati di pistole e spranghe, apparentemente in buoni rapporti con poliziotti e carabinieri.
In assenza di provocazione, la forza pubblica spara candelotti lacrimogeni, a decine, anche ad altezza d’uomo. In mezzo al fumo, parecchi testimoni sentono colpi d’arma da fuoco. Tra gli agenti si diffonde la voce (falsa) che ci siano già due morti.
Le cariche spingono i manifestanti oltre il fiume, verso Trastevere; nel tardo pomeriggio carabinieri e polizia arrivano nella zona del Ghetto, mentre parecchia gente finisce in piazza Belli, oltre ponte Garibaldi. Ancora qualche minuto, e col buio ognuno sarebbe tornato a casa. Invece verso le otto di sera i blindati della polizia avanzano, e all’improvviso cominciano a sparare lacrimogeni. Rapidamente oltrepassano metà del ponte, in direzione Trastevere. Tra di essi, agenti in divisa e in borghese. In mezzo ai candelotti si sentono colpi di pistola. Giorgiana Masi, una studentessa diciannovenne appartenente ad un collettivo femminista, è in mezzo alla folla sul lato opposto, in piazza Belli. Si volta per scappare, come gli altri, ma fa solo pochi passi: la vedono cadere di schianto, a braccia in avanti, la testa verso Trastevere e i piedi verso il ponte. Pensano che sia inciampata, ma non si rialza. La soccorrono, ma è agonizzante e in ospedale arriva già morta. Poco più in là cade ferita un’altra ragazza, la trentaduenne Elena Ascione. Alla fine della giornata si conteranno decine di feriti tra manifestanti e passanti, e un ferito tra i carabinieri.

   

Roma, 12 maggio ’77: poliziotti travestiti da autonomi in mezzo alle truppe

Le menzogne

Chi ha sparato? La verità dei fatti, come vedremo, resterà nascosta; in compenso, quasi per contrasto, subito fioccano le menzogne. E si tratta di menzogne così palesi da delineare, se non proprio la verità, almeno un’“ombra” di verità.
Il giorno dopo, 13 maggio, Cossiga riferisce alla Camera e parla di «gravi atti di aggressione allo Stato», addossando tutta la responsabilità ai manifestanti. Riceve in questo il pieno appoggio della maggioranza e soprattutto del PCI, con Antonello Trombadori e Ugo Pecchioli in prima fila. Sullo specifico episodio di ponte Garibaldi, il ministro accredita che Giorgiana Masi sia stata colpita all’addome, cioè da Trastevere dov’erano i manifestanti. L’autopsia stabilirà invece che il colpo mortale è arrivato alla schiena, ossia da ponte Garibaldi dove in quel momento erano solo polizia e carabinieri.
Il 14 maggio il Governo dichiara alla stampa che durante gli incidenti non c’erano agenti in borghese, contrariamente a quanto notato da molti testimoni; il 15 che gli agenti in borghese c’erano ma non erano armati; il 16 che erano armati ma non avevano sparato; il 17, infine, che nessuno aveva sparato. Ancora il 24 ottobre ‘77 il sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri, negando l’evidenza, mente clamorosamente davanti al Parlamento, sostenendo che «gli agenti di polizia erano dotati non già di armi non regolamentari, bensì delle pistole di ordinanza» e che «non fecero uso di armi da fuoco, salvo che dei mezzi per il lancio di candelotti lacrimogeni».
Decine di testimonianze, centinaia di foto e due filmati amatoriali dimostrano il contrario: nel pomeriggio del 12 maggio – anche prima dell’episodio fatale ed anche altrove – le forze dell’ordine hanno sparato ripetutamente e ad altezza d’uomo, anche con armi non d’ordinanza, avendo cura di raccogliere i bossoli per eliminare le prove. È documentata la presenza nel centro di Roma, tra Piazza S. Pantaleo, Campo de’ Fiori e Piazza della Cancelleria, di agenti in borghese, travestiti da autonomi e armati di pistole, spranghe, sampietrini e tondini di ferro. Uno dei travestiti, l’agente di P.S. Giovanni Santone – capelli lunghi, jeans e maglietta – comparirà anche sui giornali e diverrà uno dei simboli mediatici di quella giornata.
Dalle trascrizioni delle comunicazioni radio tra la questura e i funzionari che operavano quel giorno vicino a ponte Garibaldi emergono altri elementi. Un funzionario, rimasto ignoto perché nessuno l’ha voluto identificare, ordina di usare le armi: «Stronzo, figlio di puttana, fai sparare».

 

Roma, 12 maggio ’77: poliziotti in borghese con armi non regolamentari

Una verità inconfessabile

Una miriade di prove diverse, precise e concordanti dimostra che per tutto il pomeriggio del 12 maggio la forza pubblica nel centro di Roma ha ricevuto l’ordine di sparare e cercare il morto, l’incidente clamoroso. In tale scenario, l’omicidio di Giorgiana Masi cessa di essere un fatto isolato e diventa il tragico epilogo di una giornata che sarebbe potuta finire anche peggio.
Dal questore di Roma Domenico Migliorini, passando per il sottosegretario Lettieri, per finire al ministro Cossiga, tutto l’apparato del Viminale ha mentito all’opinione pubblica e al Parlamento per coprire i responsabili dell’omicidio e – più in generale – i mandanti di quella che si configura come una tentata strage.
Alcuni interrogativi si impongono.
Cosa sarebbe accaduto se un agente travestito, con pistole e armi fuori ordinanza, fosse stato ammazzato dai colleghi perché “autonomo” d’aspetto? O se egli stesso avesse ucciso dei colleghi per errore? Contravvenendo deliberatamente a leggi, norme e regolamenti di pubblica sicurezza, dove si voleva arrivare?
Qualche morto era bastato a Cossiga per sospendere a Roma, per 45 giorni, il diritto costituzionale di manifestare: come si sarebbe reagito il 12 maggio, se i morti fossero stati tanti (una strage “ben riuscita”, insomma)? Col pretesto dell’emergenza si sarebbero sospesi alcuni diritti civili in tutt’Italia, magari col benestare del PCI? E per quale inconfessabile strategia politica? Fare dell’asse DC-PCI, anche a costo di un’involuzione autoritaria, l’unica risposta alle BR e alle P38?
Domande che ovviamente rimarranno senza una risposta, politica ancor prima che storica.
Il questore Migliorini si dimette il 23 dicembre ’77 dichiarando di aver sempre preventivamente e successivamente informato i suoi superiori (il prefetto Giuseppe Parlato e il ministro Cossiga) e ottenuto da questi il pieno consenso per le misure da lui assunte a tutela dell’ordine pubblico, in particolare riguardo ai fatti del 12 maggio. Chiamando in causa prefetto e ministro, riporta dunque la questione sul piano delle responsabilità politiche, che hanno nomi e cognomi.
Nessuna azione sarà intrapresa a livello parlamentare. Le richieste di una commissione d’inchiesta cadranno nel vuoto: meglio non indagare.
Mancherà anche una verità processuale sull’omicidio. Il 15 gennaio ’79 il pubblico ministero Giorgio Santacroce (lo stesso che indagherà a caldo su Ustica) chiede l’archiviazione essendo rimasti ignoti gli autori dei fatti.
Effettivamente i colpevoli di un reato, se non si cercano, non si trovano. Poiché dai verbali di ispezione delle armi, redatti da carabinieri e polizia la sera stessa del 12 maggio, non risultano richieste di «colpi a reintegro di quelli eventualmente mancanti», il magistrato disinvoltamente deduce che le forze dell’ordine non hanno sparato. Nessun funzionario o capo reparto presente su ponte Garibaldi viene interrogato, nessun altro accertamento è ritenuto necessario e ci si accontenta delle dichiarazioni della questura. Il 9 maggio ’81 il giudice istruttore Claudio D’Angelo stabilisce che non si debba procedere. Il caso è chiuso.
Dopo quasi trent’anni la verità, che dovrebbe essere un patrimonio comune e il momento della giustizia per le vittime, è ancora velata. Si continua ad intravederne l’ombra. Sempre che qualcuno, prima o poi, non abbia l’onestà e il coraggio di accendere la luce.

* * *

Se la rivoluzione d’ottobre
fosse stata di maggio,
se tu vivessi ancora,
se io non fossi impotente
di fronte al tuo assassinio,
se la mia penna fosse un’arma vincente,
se la mia paura esplodesse nelle piazze ,
coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola,
se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza,
se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita
nella nostra morte diventassero ghirlande
della lotta di noi tutte, donne,
se…
non sarebbero le parole a cercare d’affermare la vita
ma la vita stessa, senza aggiungere altro.

(Lapide in ricordo di Giorgiana Masi, su Ponte Garibaldi a Roma)

 

Per approfondire

  • Giorgiana Masi: scheda su Wikipedia.
  • Cronaca di una strage”, libro bianco a cura del Centro di iniziativa giuridica “Piero Calamandrei”, I edizione aprile 1979.
  • Atti parlamentari della Camera dei Deputati (VII legislatura), resoconti stenografici delle sedute del 24/10/1977 e 28/11/1977 (risposte ad interpellanze).
  • Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 06/11/1997, 28/01/1998 e 18/02/1998.
  • Sergio Flamigni, “Convergenze parallele”, Kaos 1998
  • Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000.