La politica e la fragilità umana

Bell’intervento, quello di Fabrizio Chiappetti su Vivere Senigallia del 28 giugno, a proposito della tragica scomparsa di Maria Nilde Cerri. Ho trovato però del tutto fuori luogo l’accenno alla politica, seppur con lo stile usato.

Dire che «se la politica ha un senso, esso è dato dal farsi carico della fragilità umana, […] questo bisogno di accoglienza e di tenerezza, invece di prendere sul serio solo se stessa» significa tutto e niente. Soprattutto oggi. Le vicende civili e politiche di queste ultime settimane dovrebbero far riflettere proprio sulla capacità della politica di accogliere e dar risposte ai problemi della vita, dell’amore, della malattia e della sofferenza. Se la politica (cioè l’amministrazione della polis) deve dare risposte ai problemi della vita, non riesco a concepire altro modo per farlo che quello di far entrare questi problemi nell’agorà, nella discussione pubblica, e in ultima analisi affidarli alla responsabilità e alla decisione di ciascuno. E, se la responsabilità si manifesta col voto, sulla vita e sulla fragilità umana è massimamente importante votare: su cosa varrebbe la pena farlo, se non sulla vita? Nelle ultime settimane, che a Chiappetti piaccia o no, questo Paese ha dimostrato di non saper cogliere l’immensa opportunità che gli è stata offerta.

Diritto di astensione o coda di paglia?

«Sulla vita non si vota» sostengono i comitati per l’astensione ai prossimi referendum, tra cui Scienza & Vita.
Ma la regola – pare di capire – vale da poco tempo e soprattutto ad intermittenza: ai tempi del referendum sull’aborto (promosso da loro), sulla vita si poté votare eccome!

Evidentemente, all’epoca non esistevano i gravi pericoli di oggi:
– la materia è difficile (chi decide il livello di difficoltà di un quesito dello Stato italiano? Loro? Il cardinale Ruini?);
– la gente non capisce (spesso si vuole che la gente non capisca);
– il tema coinvolge una ristretta minoranza (è poi così vero?);
– su certe questioni non si può decidere con un sì e con un no (e perché no?);
– i referendum sono troppi, in Italia si abusa dell’istituto referendario (in Svizzera e negli Stati Uniti si votano decine di referendum ogni anno, apparentemente senza rischi per la democrazia);
– si spacca il Paese (dove sta scritto che il Paese non possa discutere e magari dividersi su temi importanti?).

Il pericolo, per loro, è un altro. La campagna astensionista si basa su un solo pilastro: la consapevolezza che i SI sono largamente maggioritari nel Paese. L’unico modo per non toccare la legge, dunque, è impedire la conta dei voti. Il resto sono bizantinismi ed esercizi da azzeccagarbugli. Come ha detto il costituzionalista cattolico Stefano Ceccanti, «chi ha approvato la legge sia in Parlamento che fuori, dovrebbe difenderla votando NO: se è stato fatto un buon lavoro, il consenso sociale è assicurato. Se si astiene, significa che sa di essere in minoranza. È un’ammissione di colpa».
Non so se si tratti di colpa, ma di sicuro è in mala fede chi cerca di ammantare la scelta astensionista di nobili significati, giustificazioni filosofiche e teologiche.
Personalità di spicco, da Pera e Casini per finire a Rutelli, hanno dichiarato che non andranno a votare e difeso la scelta dell’astensione definendola “legittima”. E chi ha mai sostenuto il contrario? Anche se nessuno nega la legittimità dell’astensione, vale la pena fare alcune osservazioni sulla credibilità di chi la predica.

1. Astensione ad intermittenza. Come mai non ci sono appelli per l’astensione alle elezioni politiche? Perché, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una scelta di campo e andare compatti alle urne? E si sarebbe ugualmente caldeggiata l’astensione se i referendum si fossero tenuti insieme alle elezioni regionali?

2. Tutti abili e arruolati. Qual è la quota di astensione “fisiologica” in Italia negli ultimi anni? Una stima può venire dai referendum dell’11 giugno 1995 (privatizzazione della RAI, trattenute sindacali, pubblicità televisiva, ecc.): quella infatti fu l’ultima volta che non scattò il meccanismo del non-voto = voto, i NO alle modifiche delle leggi si esplicitarono nelle urne e non finirono mascherati dietro le astensioni. Ebbene, gli astenuti furono circa il 43%, poco meno della metà degli elettori.
C’è da aspettarsi anche ora una percentuale di votanti attorno al 50%, per cui chi invita a disertare le urne parte con un vantaggio “involontario” di almeno 2/5 degli elettori. Visto che la legge prevede il quorum, il vantaggio è sacrosanto, ma possiamo ritenerlo rappresentativo dell’opinione pubblica? Con che diritto si arruola tra i sostenitori della legge quel 40% di indifferenti, a qualunque titolo disinteressati ai quesiti? Se il quorum dovesse saltare, credo che sarebbe indecente e furbesco appropriarsi della “vittoria” a nome della “maggioranza” degli italiani.

3. Qual è il quorum? Secondo il ministro dell’Interno Pisanu gli elettori italiani residenti all’estero sono circa 3 milioni e 800 mila (iscritti all’A.I.R.E.) ma le anagrafi consolari ne contano un 40% in meno. C’è quindi più di un milione di elettori morti o dispersi che saranno conteggiati nel quorum. Nei giorni scorsi s’è venuto anche a sapere che i militari italiani in missione all’estero non potranno votare per presunti motivi logistici. Non risulta che il ministro Tremaglia, che a suo tempo si commosse quando fu approvata la legge per il voto agli italiani all’estero, abbia le lacrime agli occhi per ciò che sta succedendo oggi.

4. Astensione in nomine patris. Plateale, di stampo quasi militare, è lo schieramento delle gerarchie ecclesiastiche. Lungi da me negare ai vescovi la libera manifestazione del pensiero, o la facoltà di svolgere la missione pastorale, educativa e di evangelizzazione: sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Dico solo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Illuminanti le parole di Guido Ceronetti su “La Stampa” del 29 maggio: «Predicare l’astensione […] tende a modificare subdolamente il gene della democrazia, alla quale se togli il voto e la libertà di andare al seggio hai tolto quasi tutto, ne hai rinnegato l’essenza. […] Ci avviciniamo alla repubblica islamica iraniana: il potere civile stabilisce una regola, però se l’ayatollah vuole contrastarla la regola va in fumo.»

Non bastava il sacrosanto diritto: sono arrivati a teorizzare il dovere all’astensione per evitare una barbarie di stampo nazista, e definiscono l’andare a votare una «colpa gravissima». Su radio Maria c’è chi suggerisce ai fedeli, nel giorno del referendum, di recarsi «in chiese e santuari a pregare perché la Madonna interceda presso suo Figlio affinché il referendum fallisca».
Il 31 maggio monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della CEI, ha avvertito che «i credenti che si recheranno a votare il 12 e 13 giugno disattendono le parole del Papa». Come ha fatto però notare su “Il Riformista” del 1 giugno Oscar Giannino (uno non sospettabile di sparare “cretinerie radicaleggianti”), mons. Betori ha dovuto riconoscere che nei confronti dei “disobbedienti” non verrà adottata alcuna sanzione canonica. E ci mancherebbe altro, visto che «l’immedesimazione tra embrione e persona che la CEI difende nella legge 40 non è materia di fede codificata da encicliche o dalla dottrina della Chiesa. Risale solo ad un “principio di precauzione”, per via del quale la Chiesa italiana identifica la nozione di persona in base a criteri fondati proprio su quel biologismo sino a ieri respinto come relativista in materia morale».
Monsignor Betori ha dovuto poi toccare un altro nervo scoperto: la linea astensionista non è mai stata sottoposta ad un libero dibattito nell’assemblea generale dei vescovi italiani. È stata teorizzata dal presidente Ruini nel Consiglio Episcopale del 17 gennaio scorso e poi suggellata da un semplice applauso l’altro giorno a Bari, alla presenza del Papa.
Resta da capire se, pur in assenza di sanzioni canoniche, i cattolici saranno davvero liberi di votare. Ad esempio, quale sarà la segretezza del voto di quegli ecclesiastici che vorranno recarsi alle urne, magari per votare no? E che libertà avranno gli insegnanti di religione e i cappellani militari (tutti revocabili dalla CEI, proprio per ragioni etiche), che potrebbero pagare la loro “disobbedienza” col posto di lavoro?

5. Indurre all’astensione è reato? Come mai nessun “dottore della legge” parla dell’esistenza di un paio di leggi che regolamentano l’esercizio dei diritti politici del cittadino?

  • Art. 98 del Testo Unico delle leggi elettorali, Titolo VII:
    «Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera
    – a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o
    – a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o
    ad indurli all’astensione,
    è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000».
  • Art. 51 della legge 352/1970 (norme sui referendum):
    «Le disposizioni penali, contenute nel titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge. Le sanzioni previste dagli articoli 96, 97 e 98 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti negli articoli stessi contemplati riguardino le firme per richiesta di referendum o per proposte di leggi, o voti o astensioni di voto relativamente ai referendum disciplinati nei titoli I, II e III della presente legge.»

Non è che se ne parla poco perché, all’italica maniera, con gli avversari le leggi si applicano e con gli amici si interpretano?
Forse aveva ragione Flaiano. L’Italia è la patria del diritto. E del rovescio.
Il 12 e 13 giugno abbiamo un’ottima occasione per smentirlo.

I 4 referendum e i nostri “liberali”

«La libertà non è la mia libertà, ma è la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capirà mai questo punto né in Italia, né in nessun altro paese del mondo. Il clericale non arriverà mai a capire la distinzione fra peccato (quello che lui crede peccato) e delitto (quello che la legge secolare ha il compito di condannare come delitto). Punisce il peccato come se fosse delitto, e perdona il delitto come se fosse peccato. Non è mai uscito dall’atmosfera dei dieci comandamenti, nei quali il rubare e l’uccidere (delitto) sono messi sullo stesso livello del desiderare la donna altrui (peccato)…».

Era il 1947, quando Gaetano Salvemini scriveva queste righe a Mario Vinciguerra. Sembrano ovvietà, ma evidentemente non lo sono, se 60 anni dopo c’è ancora bisogno di parlarne.

Anche le lucide, laiche, tolleranti argomentazioni di Mariangela Paradisi su Vivere Senigallia del 19 maggio paiono ovvie. Eppure vanno ancora ribadite, se possibile con maggiore forza, proprio in questi giorni. Gli ultimi prima dei 4 referendum sulla procreazione assistita.
Prima le bordate terroristiche di chi invita all’astensione per scongiurare il pericolo della clonazione umana (che nulla ha a che vedere con i quesiti in discussione); adesso scendono in campo gli intellettuali del Comitato Liberali per l’Astensione: quelli bravi, seri, preparati, che parlano di filosofia, citano Locke, Kant e il diritto romano. Sono laureati e soprattutto liberali. D’altra parte, chi non è liberale al giorno d’oggi?

I nostri “liberali” ci avvertono, restando seri, che «un pensiero autenticamente liberale deve salvaguardare sempre e comunque [le scelte individuali] fino al limite estremo della lesione degli altrui diritti». Con questo metro di giudizio, che ci farebbe ritenere liberali personaggi del calibro di Hitler, Mussolini, Stalin o Fidel Castro, i nostri “liberali” ritengono che le scelte individuali vadano salvaguardate a tal punto che è meglio convincere gli elettori a non votare.
Mariangela Paradisi fa giustamente notare che i referendum riguardano aspetti ben circoscritti e contraddittori della legge 40/2004, come la diagnosi pre-impianto e la tutela della salute della donna. Si impedisce la diagnosi dell’ovulo fecondato e poi si consente alla donna di abortire se con l’amniocentesi scopre che l’embrione è portatore di una patologia mortale. Oppure, se tra il momento della stimolazione ormonale e il momento dell’impianto la donna scopre – magari proprio a causa della stimolazione – di avere un tumore all’utero o al seno, non può più rifiutarsi di farsi impiantare gli ovuli fecondati. E in che modo avverrà l’impianto coatto? Con i carabinieri? Ci possiamo già immaginare la scena: “appuntato, lei la prenda per i piedi che io le tengo ferme le braccia…”
È una legge da stato liberale quella che fa entrare la forza pubblica nelle camere da letto, nella vita di milioni di persone? Assolutamente sì, assicurano i nostri “liberali”.

Poi, però, guardandoli in faccia, ci accorgiamo che i nostri “liberali” assomigliano molto ad altri “liberali”: quelli che trent’anni fa, ai tempi della legge Fortuna sul nuovo diritto di famiglia, sostenevano che concedere per legge la possibilità di divorziare avrebbe portato allo sfascio delle famiglie, che i mariti sarebbero scappati di casa con la governante, che si sarebbe istituzionalizzato il libertinaggio. Ma ci ricordano anche quegli altri “liberali” che si schierarono contro la legge 194, ovvero contro la legge che 25 anni fa – pur tra dubbi e contraddizioni – cercò di contenere il fenomeno enorme e vergognoso dell’aborto di massa, clandestino, irresponsabile.
A distanza di anni, nessuna delle tragedie prospettate si è avverata, anzi è successo il contrario: le famiglie non si sono sfasciate e forse è stato un bene non finire più in galera per adulterio; le interruzioni volontarie di gravidanza si sono più che dimezzate, e forse nei giovani s’è creata più consapevolezza intorno ai problemi del sesso, della contraccezione e della gravidanza.
Eppure, i “liberali” sono tornati alla carica. Una volta almeno c’erano Fanfani e Almirante, i quali peraltro non hanno mai avuto la faccia tosta di proclamarsi liberali. Adesso bisogna accontentarsi.
Alla credibilità, alla filosofia, al latinorum di questi “liberali” mi piace opporre le semplici parole che seguono.

La campana de la chiesa, di C. A. Salustri (“Trilussa”)

Che sôno a fa’? – diceva una Campana. –
Da un po’ de tempo in qua, c’è tanta gente
che invece d’entrà drento s’allontana.
Anticamente, appena davo un tocco
la Chiesa era già piena;
ma adesso ho voja a fa’ la canoffiena
pe’ chiamà li cristiani còr patocco!
Se l’omo che me sente nun me crede
che diavolo dirà Dommineddio?
Dirà ch’er sôno mio
nun è più bono a risvejà la fede.
– No, la raggione te la spiego io:
– je disse un angeletto
che stava in pizzo ar tetto –    
nun dipenne da te che nun sei bona,
ma dipenne dall’anima cristiana
che nun se fida più de la Campana
perché conosce quello che la sona…

Giorgiana Masi: la verità di Cossiga

Non è la prima volta che l’ex presidente della Repubblica torna sugli avvenimenti del 12 maggio ’77, che visse da ministro degli Interni. Lo aveva già fatto un paio d’anni fa, nell’aprile 2003, in un’intervista alla trasmissione Report di RAI3, dicendo:

«Non l’ho mai detto all’autorità giudiziaria e non lo dirò mai, è un dubbio che un magistrato e funzionari di polizia mi insinuarono. Se avessi preso per buono ciò che mi avevano detto sarebbe stata una cosa tragica. Ecco, io credo che questo non lo dirò mai se mi dovessero chiamare davanti all’autorità giudiziaria, perché sarebbe una cosa molto dolorosa».

Stavolta è stato meno criptico, ma lo stile è inconfondibile. Dopo 28 anni, pare che il dubbio di cui parla Cossiga sia questo: a uccidere Giorgiana Masi sarebbe stato un «colpo vagante sparato da dimostranti, forse suoi compagni ed amici con i quali si trovava, contro le forze dell’ordine». Fuoco “amico”, dunque.
Dopo tanto tempo, un’affermazione del genere vale quanto il suo contrario, anche perché la fonte citata da Cossiga è a prova di smentita: il prefetto Fernando Masone, all’epoca capo della squadra mobile di Roma, è morto qualche anno fa.
Numerosi, concordanti e gravissimi sono invece gli elementi che fanno propendere per una ricostruzione un po’ diversa.

In ogni caso, ciò che dice Cossiga, se anche fosse vero, sposterebbe di pochissimo i termini della questione.
Giorgiana Masi fu colpita a morte alle 8 di sera, dopo un intero pomeriggio in cui nel centro di Roma le forze dell’ordine cercarono pervicacemente, rabbiosamente, scientificamente una strage. Chi le autorizzò? E qual era lo scopo? La verità sull’episodio isolato (oserei dire marginale) di ponte Garibaldi non può prescindere dalla verità su tutto ciò che accadde quel 12 maggio.
La dichiarazione di Cossiga – questa come tante altre – resta sospesa a mezz’aria: dà un contributo nullo alla ricerca della verità, non coinvolge responsabilità, non inguaia nessuno. Fa solo intendere che lui sa più di quanto dice.
Ma stiano pure tutti tranquilli: lui non lo dirà mai, perché sarebbe una cosa molto dolorosa. Appunto.

Prede, predatori… e raggi laser

Verso la metà degli anni Venti, all’Università di Padova, il biologo Umberto D’Ancona studiava le variazioni delle popolazioni di varie specie di pesce che interagiscono l’una con l’altra. Nel corso di queste ricerche, si imbatté nei dati sulle percentuali di pesca di varie specie in diversi porti dell’Adriatico nel corso della prima guerra mondiale.

I dati del porto di Fiume, negli anni 1914-1923, testimoniavano una crescita anomala dei selaci (pesci poco interessanti come cibo: piccoli squali, razze, ecc.), fino al 36% in più degli anni precedenti. Ciò era tanto più curioso in quanto, negli stessi anni, la proliferazione di altre specie di pesce (soprattutto commestibili) era stata molto meno vigorosa.

La prima spiegazione che D’Ancona tentò si appoggiava su un paio d’osservazioni. Innanzitutto, ciò che distingue i selaci dai pesci commestibili è che i selaci sono predatori mentre gli altri pesci sono le loro prede. In secondo luogo, la diminuzione dell’attività di pesca durante la guerra poteva aver fatto crescere le specie commestibili e quindi aumentare il cibo per i predatori. Il ragionamento, però, reggeva solo in parte: non dava conto, ad esempio, del perché la riduzione della pesca avesse giovato molto di più ai predatori che alle prede.
Dopo aver esaurito le possibili spiegazioni, D’Ancona – è il caso di dirlo – non sapeva più che pesci pigliare. Si rivolse allora al suocero, il matematico anconetano Vito Volterra, nella speranza che questi sarebbe riuscito ad inquadrare il problema entro un modello matematico.

A quell’epoca Volterra, quasi settantenne, preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e membro dell’Accademia dei Lincei, era una delle personalità di spicco – forse la più autorevole – del panorama scientifico italiano.
Iniziò a lavorare al problema del genero, suddividendo i pesci in due categorie: le prede e i predatori. Ipotizzò che le prede, a differenza dei predatori, non competono intensamente fra loro nella ricerca di cibo, poiché questo è abbondante rispetto alla loro popolazione. Allora, in che modo varia nel tempo il loro numero? Il tasso di crescita delle prede è proporzionale al loro numero, secondo una costante di proporzionalità che tiene conto anche della mortalità. Il tasso di decrescita dipende invece da tre fattori: la mortalità naturale, ad un tasso proporzionale al numero di prede; la presenza dei predatori, che provocano una diminuzione del numero delle prede ad un tasso proporzionale al numero di contatti per unità di tempo tra i primi e i secondi; la pesca, che diminuisce le prede ad un tasso ancora proporzionale al loro numero.
Un discorso speculare si può fare per i predatori, che però competono fra loro nella ricerca delle prede: essi hanno un tasso naturale di decrescita (mortalità) proporzionale al loro numero ed un tasso di crescita proporzionale al numero di incontri con le prede nell’unità di tempo.
Con queste assunzioni, Volterra mostrò che le popolazioni delle prede e dei predatori si sviluppano in maniera interdipendente, e la loro evoluzione presenta situazioni di equilibrio. Il risultato sorprendente era che un aumento moderato della pesca ha effetti benefici sulla popolazione delle prede mentre provoca una diminuzione dei predatori. Viceversa, la riduzione della pesca (com’era avvenuto durante la prima guerra mondiale) provoca una proliferazione dei predatori e una diminuzione del pesce commestibile. Questo risultato, non del tutto intuitivo, si accordava con i dati sperimentali e rispondeva ai quesiti di D’Ancona. (vedi paragrafo sottostante).

Le leggi di Volterra si sono dimostrate efficaci nel descrivere molte altre situazioni di competizione naturale tra prede e predatori. Si applicano, ad esempio, al trattamento con gli insetticidi, che distruggono sia gli insetti predatori che i predati: l’uso degli insetticidi determina una crescita di quegli insetti la cui popolazione è tenuta sotto controllo da insetti predatori. Una conferma viene da un insetto (Icerya purchasi) che, quando fu introdotto per caso in America dall’Australia nel 1868, minacciò di distruggere le coltivazioni di agrumi. Come rimedio, fu importato il suo naturale predatore australiano, una coccinella (Novius cardinalis) che causò una riduzione del numero di Iceryae. Quando si scoprì che il DDT poteva distruggere le Iceryae, gli agricoltori lo usarono subito, convinti di poterle sterminare definitivamente. Invece, in accordo con il principio di Volterra, l’effetto fu un aumento dei parassiti.
Continuando gli studi sulle dinamiche delle popolazioni biologiche e i rapporti tra prede e predatori, Volterra estese l’analisi alla competizione tra più specie di predatori quando essi condividono la stessa risorsa o preda. Il modello matematico che sviluppò lo portò ad enunciare il cosiddetto principio di esclusione competitiva: quando due specie competono nello stesso ambiente per la medesima risorsa, una delle due è destinata all’estinzione. In altre parole, non esistono stati di equilibrio stabile in cui entrambe le popolazioni di predatori convivano nutrendosi della stessa preda (vedi paragrafo sottostante).
Nati in un ambito assai circoscritto e in risposta ad un problema puntuale, i modelli matematici di Volterra hanno validità del tutto generale, ben al di là dei confini della biologia. La loro potenza e versatilità rappresentano un esempio di ciò che Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963, ha definito la irragionevole efficacia della matematica nelle applicazioni scientifiche. Solo una minima parte dei fenomeni naturali, infatti, si lascia descrivere matematicamente, e solo in condizioni molto speciali; è dunque incredibile che, quando una descrizione è comunque possibile, lo sia non in maniera soltanto approssimata, bensì con un grado d’accuratezza ed una profondità spropositati.
Ma forse neppure Volterra avrebbe immaginato quale spettacolare applicazione le sue leggi avrebbero avuto pochi decenni più tardi, in un contesto lontanissimo e inaspettato.

Guarda chi si rivede…!

Alla fine degli anni Quaranta il fisico statunitense Charles Townes cercava di utilizzare le onde elettromagnetiche per studiare la struttura delle molecole. Viste le dimensioni microscopiche degli oggetti da indagare, la radiazione doveva avere una piccolissima lunghezza d’onda (ossia una frequenza altissima) ed essere molto “pulita”. Aiutato dal suo allievo Gordon Gould, Townes si ricordò di vecchi lavori di Albert Einstein del 1917 sull’emissione stimolata di radiazione, per cui è possibile indurre un atomo ad emettere radiazione investendolo con una radiazione identica. Se si fosse riusciti a costruire un dispositivo in grado di imbrigliare e contenere la radiazione così prodotta – pensava Townes – il gioco era fatto: la radiazione si sarebbe autorigenerata e amplificata, con un effetto a catena. Nasceva così l’idea del LASER (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, se la radiazione è luminosa) ovvero MASER (Microwave ASER, nella versione a microonde). Nel frattempo, oltrecortina, i fisici sovietici Nicolaij Basov e Aleksandr Prokhorov stavano ottenendo risultati simili. Townes, Basov e Prokhorov vinsero nel ’67 il premio Nobel per l’elaborazione teorica del laser, quando già se ne cominciavano a vedere i vastissimi campi d’applicazione. Oggi il laser è utilizzato un po’ ovunque: dall’ottica alla medicina, dall’astronomia alle telecomunicazioni, dalla biologia all’archeologia; con la diffusione di lettori CD e DVD, è entrato persino negli elettrodomestici di uso quotidiano.
Come suggerisce il nome, il dispositivo (in sostanza un “wafer” di materiali semiconduttori, con due specchietti semiriflettenti alle estremità) è capace di creare, amplificare ed emettere un fascio luminoso quando gli viene iniettata una corrente elettrica che può essere vista come l’alimentazione.
La luce del laser, però, non è luce qualsiasi. Le comuni sorgenti, come il Sole o una lampadina, generano luce estremamente incoerente e “disordinata”, con una banda di frequenza larghissima, una fase e una polarizzazione casuali. Il laser invece è in grado di produrre un segnale luminoso coerente e “ordinato”: cioè con una banda di frequenza strettissima, una stessa polarizzazione e una stessa fase. Come ci riesce? Vediamo.
In estrema sintesi, la luce è composta da pacchetti o quanti di energia, chiamati fotoni. La sua intensità dipende dal numero di fotoni trasmessi in un certo tempo; la sua fase e polarizzazione variano con la fase e la polarizzazione di ciascun fotone trasmesso. Per quanto detto, il laser è capace di sfruttare una corrente elettrica (leggasi: popolazione di elettroni) per generare una luce (leggasi: popolazione di fotoni) avente speciali caratteristiche (la medesima frequenza, polarizzazione e fase). Una torcia elettrica, invece, sfrutta la stessa corrente elettrica ma genera luce incoerente e caotica, ossia popolazioni di fotoni completamente diverse l’una dall’altra per frequenza, polarizzazione e fase.
Sembra che nel laser una certa popolazione di predatori (fotoni), riuscendo a sfruttare il cibo disponibile (gli elettroni) meglio di qualunque altra, alla fine risulti vincente e abbia il sopravvento.
In che modo, dunque, il laser riesce a produrre e selezionare fotoni di un certo tipo? Semplice: obbedendo alle leggi di Volterra. Ciò che descriveva le dinamiche delle popolazioni di pesci continua incredibilmente ad essere valido in un contesto completamente diverso. Formalmente nulla cambia, salvo che ora sono gli elettroni a svolgere il ruolo di prede, e i fotoni quello di predatori. Il tempo di vita dei fotoni è inferiore (circa 1/1000) al tempo di vita degli elettroni: le leggi di Volterra prevedono allora che la popolazione dei fotoni (predatori) deve aumentare a scapito di quella degli elettroni (prede).
Il principio di esclusione competitiva ci dice dell’altro. Tra tutte le possibili popolazioni di predatori (fotoni) che competono per la stessa risorsa (elettroni), una sola ha successo: quella che meglio si adatta all’ambiente (la struttura del dispositivo laser) e riesce a sfruttarne le risorse per proliferare. Basta un piccolo vantaggio iniziale, e poi la selezione naturale farà il resto. Alla fine, la popolazione vincente sarà composta da individui (fotoni) della stessa “specie”, cioè aventi la stessa frequenza, polarizzazione e fase. Dunque, il fascio luminoso prodotto sarà preciso, “coerente” e pulito.

Un semplice modello di interazione preda-predatore

Detto x il numero di prede e y quello dei predatori, i tassi di variazione temporale delle rispettive popolazioni si possono esprimere come:
dx/dt = Ax – Bxy
dy/dt = –Cy + Dxy
dove
A è il fattore netto di crescita delle prede, che tiene conto della proliferazione naturale e della decrescita dovuta a fattori esterni come la pesca; nel caso del laser, A esprime l’aumento della popolazione di elettroni (x) dovuta alla corrente iniettata nel dispositivo, e tiene conto del tempo medio di vita degli elettroni;
B è il fattore di decrescita delle prede per la presenza dei predatori; nel caso del laser, esprime l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni (y).  
C è il fattore netto di decrescita (naturale e dovuta alla pesca) dei predatori; nel caso del laser esprime la vita media dei fotoni (y).
D è il fattore di crescita dei predatori dovuta all’interazione con le prede, ed esprime l’efficienza di caccia dei predatori; nel caso del laser rappresenta l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni y (sostanzialmente D = B).
Si può dimostrare che il sistema di equazioni presenta due situazioni di equilibrio. Oltre a quella banale (x = y = 0), c’è la:
x = C/D
y = A/B
Un aumento moderato della pesca (A cresce e C decresce) ha dunque benefici effetti sulla popolazione delle prede. Nel caso del laser, siccome la vita media dei fotoni è molto minore della vita media degli elettroni (C << A), i predatori y (fotoni) hanno il sopravvento sulle prede x (elettroni disponibili all’emissione stimolata): l’intensità luminosa ne risulta amplificata. 

Il modello di esclusione competitiva

In questo caso si prendono in considerazione due popolazioni di predatori y1 e y2 che competono per la stessa risorsa o preda x.
La popolazione delle prede (risorse) condivise x dipende ovviamente dal numero di predatori y1 e y2. Il tasso di variazione si può scrivere come:
dx/dt = Ax – B1xy1 – B2xy2   
Le popolazioni dei predatori variano invece come:
dy1/dt = –C1y1 + D1xy1
dy2/dt = –C2y2 + D2xy2
Sia x(0) la concentrazione iniziale della risorsa; y1(0) e y2(0) le concentrazioni iniziali dei predatori.  
I parametri A, B e C hanno significato analogo a quelli definiti per la relazione preda-predatore.
Oltre a quella banale (y1 = y2 = 0), esistono 2 situazioni di equilibrio:
y1 = K1, y2 = 0       con K1 = K1(C1, D1, x(0))
y1 = 0, y2 = K2       con K2 = K2(C2, D2, x(0))
In entrambi i casi, una sola popolazione di predatori sopravvive, l’altra soccombe.

Vito Volterra

Nato ad Ancona il 3 maggio 1860, passò i primi anni a Torino e Firenze, mostrando già una spiccata propensione agli studi scientifici. Nel 1878, grazie all’aiuto del suo professore di fisica Antonio Roiti e di uno zio, l’ingegnere Edoardo Almagià, si iscrisse alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Pisa. L’anno dopo entrò come allievo alla Scuola Normale, dove studiò fisica e matematica. Era laureato solo da pochi mesi quando partecipò ad un concorso per la cattedra di Meccanica Razionale dell’Università di Pisa. Lo vinse e diventò docente: aveva 23 anni. Nell’87 fu promosso ordinario, cinque anni dopo gli venne assegnato l’insegnamento di Fisica Matematica e diventò preside della facoltà di Scienze. Nel ’93 decise di lasciare Pisa per Torino, a coprire la cattedra di Meccanica Superiore. Risalgono a quegli anni alcuni dei suoi lavori più famosi sull’analisi funzionale applicata allo studio di equazioni integrali e differenziali alle derivate parziali. Nel ’99, dopo una serie di prestigiosi riconoscimenti accademici, ottenne la nomina più ambita, quella a socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel 1900 fu chiamato presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e nel 1907 ne divenne preside.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Volterra appoggiò l’intervento italiano e arrivò ad arruolarsi col grado di tenente, mettendo a disposizione dell’esercito le sue capacità tecniche e organizzative.
Contrastò invece apertamente il Fascismo, sin dagli albori. Nel ‘25 fu tra i firmatari del “Manifesto Croce” degli intellettuali antifascisti, e aderì all’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, schierandosi col gruppo dei senatori di opposizione. Il regime non glielo perdonò. Dal ‘26 cominciarono ad arrivargli pressioni e avvertimenti affinché si dimettesse da presidente dell’Accademia dei Lincei, ma i soci lo convinsero a restare. Nel ‘31, però, il governo estese ai professori universitari l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime: Volterra e una decina d’altri (cittadini ebrei ma non solo) si rifiutarono di giurare, perdendo così la loro posizione accademica e anche il posto nei Lincei. Egli provò a ribellarsi, ma invano: schedato come oppositore, divenne un sorvegliato dalla polizia politica e la sua libertà d’espressione e di movimento sottoposta a restrizioni.
Attorno a Volterra si creò una situazione paradossale, quasi grottesca. Da una parte, l’ordine ufficiale di ignorare l’uomo, la sua figura e la sua attività; dall’altra, la solidarietà di amici, colleghi ed estimatori che ancora lo consideravano un riferimento – non più formale ma di fatto – per il mondo scientifico e accademico.
Emarginato ma non dimenticato, Vito Volterra morì a Roma l’11 ottobre 1940. Nessuna delle istituzioni scientifiche italiane a cui tanto aveva dato poté commemorarlo: l’unica celebrazione ufficiale cui la famiglia poté assistere fu quella di Carlo Somiglianza nell’accademia pontificia. E mentre la figura del grande matematico veniva ricordata nel resto del mondo, l’Italia avrebbe dovuto attendere la fine della guerra. La commossa rievocazione di Guido Castelnuovo apriva l’adunanza generale del 17 ottobre 1946, ed inaugurava l’attività della ricostituita Accademia dei Lincei.
Ancona, la sua città natale, ha intitolato a Vito Volterra il Dipartimento di Matematica della facoltà di Ingegneria e l’Istituto Tecnico Industriale di Torrette.

A proposito di libertà dei cattolici…

L’8 marzo ho letto su Vivere Senigallia un intervento del prof. Gianfederico Tinti (responsabile cultura del coordinamento comunale Forza Italia) sulla libertà dei cattolici. Tinti sposa le posizioni della Curia senigalliese e del vescovo Mons. Orlandoni: bisogna rifiutare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche, perché la missione della Chiesa riguarda la dimensione sociale, la concretezza delle situazioni di disagio, la vicinanza agli “ultimi”, l’aspetto caritativo dell’esistenza».

La Chiesa, continua Tinti, deve prendere «distanza dagli schieramenti in campo, perché al giorno d’oggi nulla sarebbe più disdicevole e controproducente di certo clero sindacalizzato e politicizzato, […] che tessa la trama del do ut des nel buio di qualche canonica; no, la scelta politica e amministrativa spetta al laicato, che, alla luce dei valori fondamentali cristiani […] opera le sue scelte in libertà di coscienza».

Vorrei fare alcune osservazioni semplici semplici.
Innanzitutto una curiosità: quelle frasi valgono solo per Senigallia oppure sono vere in generale? Perché delle due l’una: se ciò che vale per Senigallia non vale per l’Italia, si spieghi il perché; altrimenti ne deduco che il prof. Tinti non la pensa come le gerarchie vaticane e c’è da aspettarsi qualche sua dura critica verso di loro. Mi sembra, infatti, che nel nostro Paese l’andazzo non sia esattamente quello che il prof. Tinti dipinge nel suo articolo.

Un esempio recente.
Lo scorso 17 gennaio, a Bari, la Conferenza Episcopale Italiana, per bocca del suo presidente cardinale Camillo Ruini, ha ribadito la legittima e sacrosanta contrarietà alla modifica della legge 40/2004 sulla procreazione assistita; per i prossimi referendum la CEI ha invitato i cattolici ad «avvalersi di tutte le possibilità previste». A cosa si riferiva il cardinale? A chiarire il concetto, per chi ancora non lo avesse capito, ci ha pensato lo stesso Ruini il 7 marzo, con un’esplicita «indicazione di non partecipare al voto». «Non si tratta in alcun modo», spiega il prelato, «di una scelta di disimpegno, ma di opporsi nella maniera più forte ed efficace ai contenuti dei referendum e alla stessa applicazione dello strumento referendario in materie di tale complessità».

Passi pure la solita tiritera sul fatto che la materia è troppo complicata per i referendum, il Paese si spacca, la gente non capisce. La storia dimostra (ad esempio col divorzio) che quando la gente è stata messa in condizione di decidere non solo ha capito ma ha votato con libertà di coscienza, laicamente. Il Paese non si è spaccato, e soprattutto i cattolici hanno saputo distinguere tra le proprie convinzioni religiose e le leggi dello Stato. Per inciso, la complessità o la semplicità di una materia la decide Ruini?
Non m’interessa neppure discutere se sia giusto o sbagliato non andare a votare. Il discorso ci porterebbe lontano: bisognerebbe capire come mai l’astensione ai referendum è legittima – e lo deve essere, ovviamente – però poi alle elezioni, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una “scelta di campo” e correre tutti alle urne. Ma lasciamo stare.
Rinuncio anche ad entrare nel merito dei 4 referendum sulla procreazione assistita, che voteremo in primavera. Si tratta di questioni di coscienza che afferiscono alla Vita e alle vite concrete di milioni di persone. Sperando che l’informazione sia adeguata, ognuno farà la propria riflessione e sceglierà.

Per il momento, mi interessa “solo” una questione di forma. D’altra parte, cosa sono la legge e la legalità, se non anche e innanzitutto forma?
L’articolo 2 del Concordato Lateranense dice che «la Repubblica italiana riconosce alla Chiesa cattolica la piena libertà di svolgere la sua missione pastorale, educativa e caritativa, di evangelizzazione e di santificazione». Queste e non altre sono le materie di intervento riconosciute alla Chiesa e ai suoi organi.
Con ciò non si sta togliendo alla Chiesa il diritto di diffondere i precetti della morale cattolica; non la si vuole privare della facoltà di sostenere che l’embrione è una persona e in quanto tale portatore di diritti; tanto meno si nega ai cattolici la libera manifestazione del pensiero. Sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Qui si sta dicendo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Prof. Tinti, tutto ciò non le pare un «coinvolgimento diretto o indiretto del clero nelle questioni politiche»? Quella che Lei chiamerebbe «distanza dagli schieramenti in campo» a me sembra piuttosto una militanza esplicita e faziosa.
In un altro paese, un paese con un minimo di coscienza laica, non ci avrebbero nemmeno provato. Si sarebbero perlomeno alzate delle voci, l’opinione pubblica se ne sarebbe accorta e indignata, molti avrebbero fatto notare l’indebita ingerenza. Il Governo avrebbe inviato una nota formale di protesta al segretario di Stato Vaticano.
Invece niente, tranne qualche voce isolata sui quotidiani. Evidentemente oltre Tevere sanno di potersi permettere queste uscite, sanno che gli andrà bene, che nessuno gli chiederà conto di nulla. Ma se lo fanno è anche perché hanno paura: tanta è la loro fiducia nell’unità dell’elettorato cattolico che temono persino di farlo esprimere.

Nota: Quest’articolo è stato anche pubblicato il 10/03/2005 su Vivere Senigallia.

La nuova scuola tra riformatori e autogestori

Leggo sulla stampa senigalliese che gli studenti del Liceo Classico “Perticari” di Senigallia da qualche tempo sono impegnati in un progetto di autogestione scolastica. Il progetto comprende scioperi e assemblee ma anche svariati corsi, tra i quali c’è una rassegna cinematografica su Kubrick, una mostra d’arte, un corso di hip-hop, dibatti sulla società moderna, un’informazione scientifica sull’AIDS, un’informazione critica sulla Riforma Moratti, un corso di fotografia, un corso di Yoga, il racconto dell’esperienza “Il Giardino degli Angeli” in Brasile, corsi di musica e di graffiti e molto altro ancora. Argomenti, hanno sottolineato organizzatori e partecipanti, «di solito sorvolati nelle ore curricolari». Leggi tutto “La nuova scuola tra riformatori e autogestori”

Giorgiana Masi, una strage di verità

«A Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa il 12 maggio 1977 dalla violenza del regime» è dedicata la lapide che ancor oggi si può vedere a Roma svoltando su ponte Garibaldi, da Trastevere verso il Ghetto. Sta lì a testimoniare avvenimenti lontani e quasi dimenticati, che pure fanno parte della nostra storia e anzi ne rappresentano uno dei momenti più torbidi.

Il contesto

Nella seconda metà degli anni Settanta, l’Italia vive il “compromesso storico”. Alle elezioni politiche del giugno ’76 il Partito Comunista è al massimo storico e sfiora il sorpasso sulla Democrazia Cristiana: i due partiti raccolgono da soli quasi i tre quarti dei voti. La prospettiva di un accordo politico, che ha Aldo Moro come artefice e a cui anche Berlinguer ammicca sin dal ’73, diventa concreta: il terzo governo Andreotti (detto della “non sfiducia”) è un monocolore DC che gode per la prima volta da trent’anni dell’astensione del PCI.
Alla crisi economica e sociale si risponde con l’unità tra i partiti del cosiddetto arco costituzionale; al terrorismo e alla diffusa violenza di matrice politica si oppongono una legislazione repressiva e provvedimenti d’emergenza. Dal ’75 è in vigore la “legge Reale”, che estende i termini della carcerazione preventiva, dà facoltà alle forze dell’ordine di arrestare cittadini in base al sospetto che stiano per compiere un reato, autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura, prevede la possibilità di 48 ore di fermo di polizia senza la convalida del magistrato. Il ’76 ha fatto registrare il picco degli episodi di violenza politica (1198, con 14 morti e 10 feriti); il ’77 sembra avviato sulla stessa strada, e alla fine batterà il record (2128 episodi, con 17 morti e 45 feriti).
In un clima già pesante e avvelenato da recenti fatti di sangue a Milano e Bologna, il 21 aprile ’77 l’occupazione delle università romane contro la riforma Malfatti degenera in violenti scontri tra polizia e autonomi, con feriti da ambo le parti e l’agente Settimio Passamonti ucciso da una P38.
Il vaso trabocca. «Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana», dichiara il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, e con un decreto-legge dà mandato al prefetto di Roma di vietare ogni manifestazione pubblica nel Lazio per tutto il mese di maggio.
Il decreto è palesemente illegale, anche perché si richiama ad un articolo di una legge fascista del ’31 già dichiarato incostituzionale nel ’61. Il Governo può limitare a scopo preventivo il diritto di pubblica e pacifica riunione, ma solo “per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” (art. 17 della Costituzione), da valutare caso per caso e non indiscriminatamente.
Il 18 maggio ’77 l’ex presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Branca scriverà:

«Non voglio credere che […] Cossiga abbia detto […] che il divieto è legittimo perché qualunque manifestazione di piazza, anche la più pacifica, può degenerare […]. È una motivazione che uccide la democrazia: infatti quella possibilità di degenerazione, per interventi esterni, c’è oggi come ci sarà domani». [Questa logica] «condurrebbe a prolungare in perpetuo il divieto o a rinnovarlo a ogni scadenza: in parole povere ad annullare il diritto costituzionale di riunione in luogo pubblico. È come se il governo vietasse le strette di mano perché potrebbero, non si sa mai, diffondere le malattie. Con questa filosofia possono essere annullati i principali diritti del cittadino».

Il decreto Cossiga, da lui stesso definito un «bando militare extra legem», fa ormai scuola nel vero senso della parola: testi universitari di diritto lo citano ad esempio di provvedimento incostituzionale.

Gli avvenimenti del 12 maggio ’77

Nel periodo di divieto cade il terzo anniversario del referendum sul divorzio, il 12 maggio. La manifestazione celebrativa, convocata in Piazza Navona dal Partito Radicale e dai vincitori del ’74, non viene annullata: è un atto di disobbedienza civile al decreto Cossiga. Giusta o sbagliata che sia la mossa dei radicali, la manifestazione neppure comincerà.
Già alle ore 13 gli ingressi a Piazza Navona sono sbarrati da cordoni di militari in assetto antisommossa, e davanti al Senato iniziano le prime cariche: vengono spintonati e picchiati manifestanti, giornalisti, fotografi, parlamentari, ma anche gente comune e passanti diretti in piazza. Il clima inizia a surriscaldarsi e i disordini si espandono al centro storico di Roma. In piazza della Cancelleria si notano per la prima volta uomini in borghese, vestiti da autonomi e armati di pistole e spranghe, apparentemente in buoni rapporti con poliziotti e carabinieri.
In assenza di provocazione, la forza pubblica spara candelotti lacrimogeni, a decine, anche ad altezza d’uomo. In mezzo al fumo, parecchi testimoni sentono colpi d’arma da fuoco. Tra gli agenti si diffonde la voce (falsa) che ci siano già due morti.
Le cariche spingono i manifestanti oltre il fiume, verso Trastevere; nel tardo pomeriggio carabinieri e polizia arrivano nella zona del Ghetto, mentre parecchia gente finisce in piazza Belli, oltre ponte Garibaldi. Ancora qualche minuto, e col buio ognuno sarebbe tornato a casa. Invece verso le otto di sera i blindati della polizia avanzano, e all’improvviso cominciano a sparare lacrimogeni. Rapidamente oltrepassano metà del ponte, in direzione Trastevere. Tra di essi, agenti in divisa e in borghese. In mezzo ai candelotti si sentono colpi di pistola. Giorgiana Masi, una studentessa diciannovenne appartenente ad un collettivo femminista, è in mezzo alla folla sul lato opposto, in piazza Belli. Si volta per scappare, come gli altri, ma fa solo pochi passi: la vedono cadere di schianto, a braccia in avanti, la testa verso Trastevere e i piedi verso il ponte. Pensano che sia inciampata, ma non si rialza. La soccorrono, ma è agonizzante e in ospedale arriva già morta. Poco più in là cade ferita un’altra ragazza, la trentaduenne Elena Ascione. Alla fine della giornata si conteranno decine di feriti tra manifestanti e passanti, e un ferito tra i carabinieri.

   

Roma, 12 maggio ’77: poliziotti travestiti da autonomi in mezzo alle truppe

Le menzogne

Chi ha sparato? La verità dei fatti, come vedremo, resterà nascosta; in compenso, quasi per contrasto, subito fioccano le menzogne. E si tratta di menzogne così palesi da delineare, se non proprio la verità, almeno un’“ombra” di verità.
Il giorno dopo, 13 maggio, Cossiga riferisce alla Camera e parla di «gravi atti di aggressione allo Stato», addossando tutta la responsabilità ai manifestanti. Riceve in questo il pieno appoggio della maggioranza e soprattutto del PCI, con Antonello Trombadori e Ugo Pecchioli in prima fila. Sullo specifico episodio di ponte Garibaldi, il ministro accredita che Giorgiana Masi sia stata colpita all’addome, cioè da Trastevere dov’erano i manifestanti. L’autopsia stabilirà invece che il colpo mortale è arrivato alla schiena, ossia da ponte Garibaldi dove in quel momento erano solo polizia e carabinieri.
Il 14 maggio il Governo dichiara alla stampa che durante gli incidenti non c’erano agenti in borghese, contrariamente a quanto notato da molti testimoni; il 15 che gli agenti in borghese c’erano ma non erano armati; il 16 che erano armati ma non avevano sparato; il 17, infine, che nessuno aveva sparato. Ancora il 24 ottobre ‘77 il sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri, negando l’evidenza, mente clamorosamente davanti al Parlamento, sostenendo che «gli agenti di polizia erano dotati non già di armi non regolamentari, bensì delle pistole di ordinanza» e che «non fecero uso di armi da fuoco, salvo che dei mezzi per il lancio di candelotti lacrimogeni».
Decine di testimonianze, centinaia di foto e due filmati amatoriali dimostrano il contrario: nel pomeriggio del 12 maggio – anche prima dell’episodio fatale ed anche altrove – le forze dell’ordine hanno sparato ripetutamente e ad altezza d’uomo, anche con armi non d’ordinanza, avendo cura di raccogliere i bossoli per eliminare le prove. È documentata la presenza nel centro di Roma, tra Piazza S. Pantaleo, Campo de’ Fiori e Piazza della Cancelleria, di agenti in borghese, travestiti da autonomi e armati di pistole, spranghe, sampietrini e tondini di ferro. Uno dei travestiti, l’agente di P.S. Giovanni Santone – capelli lunghi, jeans e maglietta – comparirà anche sui giornali e diverrà uno dei simboli mediatici di quella giornata.
Dalle trascrizioni delle comunicazioni radio tra la questura e i funzionari che operavano quel giorno vicino a ponte Garibaldi emergono altri elementi. Un funzionario, rimasto ignoto perché nessuno l’ha voluto identificare, ordina di usare le armi: «Stronzo, figlio di puttana, fai sparare».

 

Roma, 12 maggio ’77: poliziotti in borghese con armi non regolamentari

Una verità inconfessabile

Una miriade di prove diverse, precise e concordanti dimostra che per tutto il pomeriggio del 12 maggio la forza pubblica nel centro di Roma ha ricevuto l’ordine di sparare e cercare il morto, l’incidente clamoroso. In tale scenario, l’omicidio di Giorgiana Masi cessa di essere un fatto isolato e diventa il tragico epilogo di una giornata che sarebbe potuta finire anche peggio.
Dal questore di Roma Domenico Migliorini, passando per il sottosegretario Lettieri, per finire al ministro Cossiga, tutto l’apparato del Viminale ha mentito all’opinione pubblica e al Parlamento per coprire i responsabili dell’omicidio e – più in generale – i mandanti di quella che si configura come una tentata strage.
Alcuni interrogativi si impongono.
Cosa sarebbe accaduto se un agente travestito, con pistole e armi fuori ordinanza, fosse stato ammazzato dai colleghi perché “autonomo” d’aspetto? O se egli stesso avesse ucciso dei colleghi per errore? Contravvenendo deliberatamente a leggi, norme e regolamenti di pubblica sicurezza, dove si voleva arrivare?
Qualche morto era bastato a Cossiga per sospendere a Roma, per 45 giorni, il diritto costituzionale di manifestare: come si sarebbe reagito il 12 maggio, se i morti fossero stati tanti (una strage “ben riuscita”, insomma)? Col pretesto dell’emergenza si sarebbero sospesi alcuni diritti civili in tutt’Italia, magari col benestare del PCI? E per quale inconfessabile strategia politica? Fare dell’asse DC-PCI, anche a costo di un’involuzione autoritaria, l’unica risposta alle BR e alle P38?
Domande che ovviamente rimarranno senza una risposta, politica ancor prima che storica.
Il questore Migliorini si dimette il 23 dicembre ’77 dichiarando di aver sempre preventivamente e successivamente informato i suoi superiori (il prefetto Giuseppe Parlato e il ministro Cossiga) e ottenuto da questi il pieno consenso per le misure da lui assunte a tutela dell’ordine pubblico, in particolare riguardo ai fatti del 12 maggio. Chiamando in causa prefetto e ministro, riporta dunque la questione sul piano delle responsabilità politiche, che hanno nomi e cognomi.
Nessuna azione sarà intrapresa a livello parlamentare. Le richieste di una commissione d’inchiesta cadranno nel vuoto: meglio non indagare.
Mancherà anche una verità processuale sull’omicidio. Il 15 gennaio ’79 il pubblico ministero Giorgio Santacroce (lo stesso che indagherà a caldo su Ustica) chiede l’archiviazione essendo rimasti ignoti gli autori dei fatti.
Effettivamente i colpevoli di un reato, se non si cercano, non si trovano. Poiché dai verbali di ispezione delle armi, redatti da carabinieri e polizia la sera stessa del 12 maggio, non risultano richieste di «colpi a reintegro di quelli eventualmente mancanti», il magistrato disinvoltamente deduce che le forze dell’ordine non hanno sparato. Nessun funzionario o capo reparto presente su ponte Garibaldi viene interrogato, nessun altro accertamento è ritenuto necessario e ci si accontenta delle dichiarazioni della questura. Il 9 maggio ’81 il giudice istruttore Claudio D’Angelo stabilisce che non si debba procedere. Il caso è chiuso.
Dopo quasi trent’anni la verità, che dovrebbe essere un patrimonio comune e il momento della giustizia per le vittime, è ancora velata. Si continua ad intravederne l’ombra. Sempre che qualcuno, prima o poi, non abbia l’onestà e il coraggio di accendere la luce.

* * *

Se la rivoluzione d’ottobre
fosse stata di maggio,
se tu vivessi ancora,
se io non fossi impotente
di fronte al tuo assassinio,
se la mia penna fosse un’arma vincente,
se la mia paura esplodesse nelle piazze ,
coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola,
se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza,
se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita
nella nostra morte diventassero ghirlande
della lotta di noi tutte, donne,
se…
non sarebbero le parole a cercare d’affermare la vita
ma la vita stessa, senza aggiungere altro.

(Lapide in ricordo di Giorgiana Masi, su Ponte Garibaldi a Roma)

 

Per approfondire

  • Giorgiana Masi: scheda su Wikipedia.
  • Cronaca di una strage”, libro bianco a cura del Centro di iniziativa giuridica “Piero Calamandrei”, I edizione aprile 1979.
  • Atti parlamentari della Camera dei Deputati (VII legislatura), resoconti stenografici delle sedute del 24/10/1977 e 28/11/1977 (risposte ad interpellanze).
  • Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 06/11/1997, 28/01/1998 e 18/02/1998.
  • Sergio Flamigni, “Convergenze parallele”, Kaos 1998
  • Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000.

Caso Moro: quella mano sbadata…

La signora Nunzia Damiano abita al numero 96 di via Gradoli, a Roma, in un anonimo condominio sulla Cassia. La mattina del 18 aprile 1978, viene svegliata da frettolosi passi nell’appartamento soprastante, e poco dopo si accorge che sul soffitto della cucina si sta allargando una macchia di infiltrazione d’acqua. Corre ad avvisare l’ingegner Borghi, l’inquilino del piano di sopra, prima che si allaghi mezzo mondo. Suona all’interno 11 una, due, tre volte: non c’è nessuno. Non le resta che chiamare i pompieri.

La caduta del covo

La colpa è del telefono della doccia lasciato aperto e appoggiato contro il muro, ma l’appartamento riserva ben altre sorprese: è un covo delle Brigate Rosse, ancora “caldo” cioè in uso.
Magari tenendo la scoperta riservata si potrebbero organizzare appostamenti e fermare eventuali frequentatori, come già fece il generale Dalla Chiesa a Robbiano di Mediglia nel ‘74; invece la notizia è subito data in pasto a giornali e TV, e l’appartamento diventa la grande vetrina delle BR: armi in bella mostra sul tavolo, volantini, divise della Polizia e dell’Alitalia, targhe false. Questo toglie ogni dubbio: si tratta della centrale operativa dei terroristi che il 16 marzo hanno sequestrato Aldo Moro e ucciso i cinque agenti della scorta. Il capo brigatista Mario Moretti, che abita il covo sotto la falsa identità di Mario Borghi, addirittura apprende la notizia dalla TV e si guarda bene dal far ritorno a casa.

La perquisizione del 18 marzo

Si tratti di scoperta accidentale o pilotata, subito affiorano strane coincidenze.
La Polizia è già stata in quel condominio. Il 18 marzo, appena due giorni dopo la strage di via Fani – non si saprà mai se durante una perquisizione a tappeto o dopo una soffiata – le forze dell’ordine arrivano a via Gradoli 96 e ispezionano uno per uno gli appartamenti. Il magistrato che conduce le indagini, dottor Infelisi, è stato chiaro: degli appartamenti chiusi o si sfondino le porte o si attenda l’arrivo degli inquilini con il piantone. L’ordine, eseguito in innumerevoli casi con gran disagio di cittadini innocenti, proprio quella volta che poteva avere effetti di incalcolabile portata, viene disatteso. Arrivati all’interno 11 e non ricevendo risposta, gli agenti se ne vanno senza accertamenti: a detta dei vicini, gli inquilini sarebbero persone tranquille. La Commissione Moro censurerà questa clamorosa omissione, definendola “grave inosservanza”, e la magistratura scoprirà un particolare che ha dell’incredibile: la relazione di servizio di quella perquisizione, datata 18 marzo 1978 e saltata fuori solo quattro anni dopo, risulta scritta su carta intestata “Dipartimento di Polizia”, un organismo costituito solo nel 1981 dopo la legge di riforma. Si tratta di un falso.

La seduta spiritica

Il nome “Gradoli” riemerge una seconda volta in pieno sequestro, il 2 aprile. Quella domenica, nella casa di Alberto Clò sulle colline bolognesi, si riunisce un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Tra gli altri, ci sono anche Romano Prodi e Mario Baldassarri. L’atmosfera è quella di una scampagnata, peccato che piova. Per allentare la noia, a qualcuno viene l’idea di tenere una seduta spiritica ed evocare gli spiriti di Sturzo e La Pira per chiedere loro dove sia la prigione di Moro. Tra i farfugliamenti del piattino, un paio di nomi viene fuori chiaramente: G-r-a-d-o-l-i, B-o-l-s-e-n-a. La rivelazione arriva alla segreteria DC e da qui al ministro dell’Interno Cossiga, che fa perquisire il paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo. Eleonora Moro, moglie del rapito, suggerisce di verificare se esista a Roma una strada con quel nome, ma le viene risposto che a Roma una via Gradoli non c’è. Scriverà Leonardo Sciascia, nella sua relazione di minoranza alla Commissione Moro: «Non meravigli che negli atti di una commissione parlamentare d’inchiesta si parli, come in una commedia dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici persone, come si suol dire, degne di fede, e per di più appartenenti al ceto dotto della dotta Bologna, sono state sentite una per una dalla Commissione e tutte hanno testimoniato della seduta spiritica da loro tenuta e da cui è venuto fuori il nome Gradoli».
Dietro l’occultismo, con ogni probabilità si nasconde un espediente per far filtrare una notizia riservata senza doverne rivelare la fonte (forse l’Autonomia bolognese, come ipotizzato dalla Commissione Stragi e anche da Giulio Andreotti). Che poi questa notizia sia stata manomessa e depurata del particolare decisivo (la via anziché il paese), è una questione ancora più profonda e inquietante.

Insomma: il covo BR di via Gradoli, base operativa del sequestro Moro e abitazione di Mario Moretti, sfiorato il 18 marzo e dimenticato il 2 aprile, cade finalmente il 18 aprile grazie a una “manina” che lascia la doccia aperta. Chi è stato? Anche concedendo che l’allagamento del covo sia stato provocato – volontariamente o meno – da qualche brigatista e che gli “spiriti” si riferiscano al paesino, sembra strano che Moretti abbia potuto dormire sonni tranquilli per due settimane in quel posto divenuto così pericolosamente “omonimo”. Forse, gli “spiriti” avevano visto giusto e volevano veramente aiutare le indagini? Oppure solo lanciare un avvertimento a chi lo sapesse cogliere?
Ambigua, torbida, a tratti grottesca, ma gravida di implicazioni e sottintesi, la vicenda del covo BR di via Gradoli rappresenta lo snodo cruciale del caso Moro. Vi si intrecciano inefficienze, ritardi, menzogne e una serie impressionante di errori (non sappiamo se colposi o dolosi). Di via Gradoli certamente gli investigatori e i servizi di sicurezza sapevano; e se ci fossero arrivati prima e avessero gestito le informazioni un po’ meglio o solo un po’ meno peggio, sarebbe stata diversa la storia del sequestro e forse anche quella dell’Italia.

Il falso comunicato n° 7

Ma torniamo al 18 aprile. Quello non è un giorno qualsiasi: è il trentennale della vittoria DC alle elezioni del ’48. E proprio quel giorno, quasi contemporaneamente all’allagamento, avviene un altro fatto enigmatico: è diffuso il comunicato n. 7, che annuncia la morte del prigioniero e l’occultamento del corpo nel Lago della Duchessa, sui monti tra Lazio e Abruzzo. Si scoprirà che il comunicato è un falso, non opera delle BR ma di tale Antonio Chichiarelli, un falsario romano legato alla banda della Magliana e ai servizi segreti; sulle prime però gli inquirenti lo giudicano autentico, scatenando affannose quanto inutili ricerche. Allora, a cosa e a chi serve la messinscena? Di sicuro, dando per autentico un comunicato falso, s’invade il campo della comunicazione brigatista, si aggiunge un rumore che rende indistinguibili le voci, si intacca la “credibilità” delle BR verso le masse. Ma non si potrebbe anche voler saggiare la reazione dell’opinione pubblica di fronte ad un epilogo tragico? Lo stesso Moro, dal carcere del popolo, scriverà di una “macabra prova generale” della sua esecuzione. E perché il riferimento a quel lago? Ci sono nel messaggio allusioni oscure, comprensibili solo dai veri destinatari?
A distanza di tempo, un’impressione resta: gli accadimenti del 18 aprile 1978 sembrano messaggi in codice rivolti alle stesse Brigate Rosse, affinché il sequestro si avviasse ad una rapida conclusione. Ma da chi? Possiamo ipotizzare l’esistenza di un “partito non brigatista dell’omicidio”, che spinse per la fine cruenta chiudendo tutti i canali di una possibile trattativa, per vie sia istituzionali che – diciamo così – extra-legali. È probabile, infatti, che da quando Moro aveva iniziato a parlare, rivelando forse informazioni riservate, si fosse messa in moto una macchina volta insieme a liquidare l’ostaggio e a recuperare il materiale compromettente (il famoso “memoriale”).
Verosimilmente, il messaggio che dalle operazioni Gradoli e Duchessa dovette arrivare al commando che tratteneva Moro poteva essere questo: “vi stiamo addosso; sappiamo dove siete, siamo in grado di smantellare le vostre sedi e di occupare i vostri canali di comunicazione con i mass-media. Non vi venga in mente di gestire l’affare in modo diverso da quello indicato nel comunicato della Duchessa”. Le Brigate Rosse eseguirono.

Bibliografia consigliata

  • Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro”, Adelphi 1978
  • Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini Recchia, “Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale”, Franco Angeli 1984
  • Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Kaos 1993
  • Sergio Flamigni, “Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro”, Kaos 1998
  • Alfredo C. Moro, “Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro”, Ed. Riuniti 1998
  • Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico”, Ed. Riuniti 1998
  • Sergio Flamigni, “Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro”, Kaos 1999
  • Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000
  • Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, “Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro”, Einaudi 2003
  • Vladimiro Satta, “Odissea nel caso Moro”, Edup 2003
  • Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 17/06/1998, 23/06/1998, 10/11/1999 e 11/11/1999.Materiale reperibile in rete:
    www.apolis.com/moro

Droghe, una nuova legge

Il 18 Novembre scorso è approdata in Senato la cosiddetta “legge Fini”, un giro di vite nei confronti del traffico e del consumo di stupefacenti. Il punto di forza, l’elemento innovativo della legge – si dice – è l’equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, sotto l’aspetto della pericolosità e delle sanzioni. L’approccio è: non esistono droghe leggere, la droga è droga. Detenere, cedere o consumare tali sostanze, non importa in che quantità, sono comportamenti puniti dalla legge. In particolare, possedendo più di una quantità massima prestabilita, si diventa spacciatori e si rischiano pene da uno a vent’anni di carcere, secondo la gravità; il consumo è comunque punito con sanzioni amministrative (il ritiro della patente, del porto d’armi, del permesso di soggiorno, ecc.) revocabili se l’interessato si sottopone a programma terapeutico, di cui si è certificato il buon andamento.

Dal punto di vista teorico ed etico l’impostazione “dura” sembra accattivante e miete consensi, a patto però di mettersi d’accordo su alcuni punti.
In primis, su cosa è droga e cosa non lo è. La distinzione non è per nulla facile: se definiamo droga ciò che produce alterazione mentale e percettiva creando dipendenza, allora dovremmo includervi anche il vino, il caffè e le sigarette. Inoltre, bisognerebbe capire in che misura una legge dello Stato può sanzionare un comportamento supposto auto lesivo per l’individuo. Ad esempio, fatta salva l’ovvia (ma non per tutti) distinzione tra peccato e reato, una legge che sanzionasse l’azione sommamente auto lesiva dell’integrità individuale – ovvero il suicidio – sarebbe probabilmente incostituzionale, per violazione dell’articolo 2. Più in generale, sarebbe da stabilire se il “diritto” alla salute (art. 32 della Costituzione) si traduce automaticamente in “dovere” alla salute. Se questo esistesse, e se quindi lo Stato avesse il potere sanzionatorio per farlo rispettare, perché si continuano a vendere i tabacchi in regime di monopolio? Delle due l’una: o il dovere alla salute esiste e il monopolio dei tabacchi è incostituzionale, oppure questo dovere non esiste ed è incostituzionale il divieto all’uso personale di stupefacenti. Tertium non datur.

Dal punto di vista pratico, invece, bisogna fare i conti con l’applicazione delle questioni di principio alla società fatta di persone in carne ed ossa. Il proposito del legislatore è quello di combattere un fenomeno sociale – mediante la repressione, la prevenzione, eccetera – senza “se” e senza “ma”, trattando le droghe leggere come le droghe pesanti ed assumendo che il consumo di droghe leggere sia l’anticamera per quelle pesanti. Si sente dire, infatti, che l’80% dei consumatori di droghe pesanti (eroina e cocaina in primis) ha iniziato facendo uso di droghe leggere come la marijuana o l’hashish. E questo cosa prova? Per dimostrare che da una certa premessa segue una certa conclusione, è un non-senso logico osservare la conclusione e cercare di inferire la premessa. Se chiedessimo agli eroinomani se da bambini bevevano latte, probabilmente il 100% ci risponderebbe di sì. Dovremmo forse dedurne che l’uso di latte, specialmente in tenera età, apre la strada al consumo di eroina? Tutti gli alcolizzati hanno cominciato con un bicchiere di vino, ma qualcuno se la sentirebbe di proibire il vino perché c’è chi eccede fino al bottiglione? Se un nesso tra il consumo di marijuana ed eroina esiste, esso trova semmai ragione nella contiguità o nella coincidenza dei rispettivi mercati: ad uno spacciatore del mercato nero conviene ovviamente vendere droghe pesanti (più remunerative e generatrici di dipendenza fisica) piuttosto che droghe leggere (che non creano dipendenza fisica). Se non altro per una questione di marketing: bisogna fidelizzare la clientela.

Dal punto di vista legale, poi, uniformando le pene per lo spaccio di marijuana ed eroina, siamo davvero sicuri di ridurre lo spaccio e la conseguente diffusione? Se deve rischiare lo stesso numero d’anni di carcere, uno spacciatore opta per lo spaccio di droghe pesanti che, come dicevamo poco fa, sono più remunerative. L’approccio del proibizionista, fondato sull’equazione “io non lo farei = nessuno lo deve fare”, è assoluto, etico: c’è il Male da estirpare e bisogna farlo con tutti i mezzi, ad ogni costo. Non si rende conto che, molto spesso, crea problemi maggiori di quelli che pretende di combattere. Le leggi proibizioniste sulle droghe, in particolare quelle leggere, hanno il merito d’aver trasformato negli ultimi 40 anni un problema socio-sanitario in una questione d’ordine pubblico. Esattamente come avvenne negli Stati Uniti degli anni ’20 con il diciottesimo emendamento, che proibiva la vendita e il consumo di alcolici: anni dopo l’approvazione della legge, bevevano praticamente tutti, anche quelli che prima erano astemi; la pericolosità del prodotto era aumentata perché l’alcol era di pessima qualità non essendoci alcun controllo nel mercato nero; la malavita faceva affari d’oro sui traffici e i crimini aumentavano. È vero: la polizia girava per cantine sequestrando tonnellate di whisky e arrestando migliaia di persone, così come oggi si sequestrano quintali di fumo sui tir provenienti dall’Albania, ma questo significava (e significa) ridurre il problema oppure cercare di svuotare il mare con un cucchiaino? E ancora: un tizio sorpreso allora a farsi una birra era veramente un delinquente? E uno che oggi si fa uno spinello può essere considerato un delinquente?