Come allestimmo la mostra

Ai tempi Senigallia non offriva molte soluzioni logistiche. Di fatto l’unica possibile, comunque di grande pregio, era la sede del Palazzetto Comunale Baviera.
Sempre “ai tempi”, le iniziative non erano poi moltissime e fu facile avere la disponibilità delle sale, e dei relativi pannelli, per esporre le immagini dal 6 al 20 giugno 1971.
Allora non c’erano nemmeno quei piccoli ma utilissimi sussidi tecnologici odierni; per ottenere delle didascalie che fossero facilmente leggibili da parte dei visitatori avevamo approfittato di una macchina molto particolare, in uso presso l’Azienda Autonoma di Soggiorno. Questa disponeva di grossi caratteri, con dimensioni doppie o forse triple rispetto a quelle di una normale macchina da scrivere. Quindi, così facendo, avevamo evitato alla neonata associazione oneri aggiuntivi per la tipografia; qui ci rivolgemmo soltanto per la stampa degli inviti e dei manifesti.

Le didascalie, scritte e corrette più volte, erano frutto della penna quanto mai incisiva di Renzo Paci. Furono corrette più volte – dicevo – in quanto, se avessimo mantenuto la prima stesura, in diversi casi avremmo rischiato davvero qualche querela. Malgrado l’attenta opera di revisione, però, diversi concittadini, quelli direttamente interessati ai soggetti fotografati, quando visitarono la mostra, non trattennero la loro insoddisfazione. Dei diversi ricordi ne ripesco due, quelli attinenti appunto le immagini che ora pubblichiamo.

Il primo riguarda l’allora parroco di Montignano, don Pietro Sallei, un tipo ben noto a Senigallia. Entrò nelle sale con un passo da bersagliere; girò di fronte ai vari pannelli cercando qualcosa fino a quando non vide l’immagine che evidentemente gli avevano segnalato: il suo grosso palazzo. Era questo un gigantesco cubo di cui si stava ultimando la costruzione; nel cantiere lavorava lui stesso proprio nei giorni in cui scattavamo le fotografie. Ero stato accompagnato sul posto da un “basista” di area cattolica che ben sapeva quanto questo prete fosse intraprendente nel settore delle costruzioni.


Montignano. Anche le frazioni seguono l’andazzo
(si noti che era l’ultima foto della sezione “I mostri”)

Don Pietro, sempre con un classico cappello da prete, s’avvicinò a quella foto esposta, diede un’occhiata alla didascalia, poi girò i tacchi e s’avviò deciso verso la porta d’uscita. Dato che ero presente alla mostra, m’avvicinai e con cortesia forse un po’ ostentata, così mi rivolsi a lui: “Reverendo, Lei non firma il registro dei visitatori?”. La risposta fu immediata e glaciale: “No, non firmo niente!”. Al che replicai che se non approvava – come ben s’intuiva – avrebbe potuto scrivere un commento. Allora Don Pietro ebbe un attimo d’indecisione; poi si girò di scatto e per farmi capire che lui “lavorava” (come ben sapevo avendolo visto in un garage del palazzo con la tonaca impolverata e schizzata di calce) mi mostrò le mani dalle dita grosse e callose. Quindi prese la penna, si curvò sul librone e scrisse qualcosa.

Appunto quanto qui riprodotto.

L’altro ricordo attiene la fotografia, o meglio la didascalia dell’immagine di questo edificio.


Ghiribizzo faraonico

L’allora giovane architetto progettista, un senigalliese già noto all’epoca, non visitò la mostra, però telefonò al professor Paci. Voleva argomentare la valenza del suo progetto, le molte qualità che aveva e quindi si lamentò delle allusioni suggerite dalla didascalia.
“No, professore, lei non può dire che quanto da me progettato è uno “sghiribizzo”!”
Renzo Paci, con calma olimpica e voce forse anche un po’ professorale, replicò: “Guardi architetto che ghiribizzo si scrive senza la “s”!”.

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