(segue…) A solo un anno di distanza dal grande successo di “Rimmel”, nel 1976 Francesco De Gregori e la RCA presentano sul mercato il nuovo album, “Bufalo Bill”, dieci canzoni che hanno un suono diverso da quelle del precedente album, un modo nuovo di scrivere le canzoni, un modo nuovo di cantarle; De Gregori, insomma, cambia registro: come il suo maestro Dylan, quando sei certo di poterlo afferrare, di comprendere dove si colloca, ti sfugge e diventa imprevedibile.
Emblematico, in tal senso, l’inizio di “Bufalo Bill”, la canzone che dà il nome all’intero album: sin dalle prime note, la canzone si distacca infatti nettamente dall’orchestra di “Alice” e dal pianoforte e contrabbasso di “Rimmel”, partendo con la sola potenza della voce, che sovrasta le due note introduttive del piano.
Anche in tutto il resto del disco, De Gregori incoraggia la sua voce, le affida il racconto e la piega alla potenza espressiva, cantando su registri per lui inusuali.
Dopo le copertine di Theorius Campus e quella di Rimmel (delle quali abbiamo già parlato), anche sulla copertina di Bufalo Bill è opportuno spendere qualche parola: De Gregori è stato ispirato da un quadro di Otto Dix, “Bufalo Bill al circo”, e lo stesso quadro sarebbe dovuto diventare anche la copertina del disco; la RCA non riesce però ad ottenere i diritti e la copertina definitiva diventa così un calendario americano del 1948, dove una generosa ragazza con una pistola fumante in mano ammicca verso l’obbiettivo; il senso del disco è racchiuso nella foto della copertina: il mito americano ridicolizzato.
Altra ispirazione del disco, oltre al quadro di Otto Dix, è il film “La ballata di Cable Houge” di Pekinpah, in cui uno dei pionieri americani muore schiacciato da un’automobile; un simbolo semplice, ma efficace: la modernità che uccide il mito; una fine diversa, ma simile, a quella che tocca a Bufalo Bill: da eroe a fenomeno da circo, dapprima in America, poi anche in Europa.
“Bufalo Bill” è la canzone in cui De Gregori affronta simultaneamente le due tematiche principali dell’intero album: è infatti allo stesso tempo uno dei “tre momenti americani” (il mito del far-west) ed una delle canzoni del ciclo della mitologia infantile (il mito del cow-boy, passaggio obbligato dell’infanzia e dell’adolesecenza).
Le due tematiche vengono poi sviluppate nel resto dell’album con “Giovane esploratore Tobia” (canzone scritta a quattro mani con Lucio Dalla che descrive, con molta ironia, la figura del giovane e sano ragazzo americano, di sani principi, che sogna l’avventura e la cerca tra i boy-scout) ed a “Disastro aereo sul canale di Sicilia” (canzone dalla forte connotazione politica, che ha invece per oggetto un altro mito americano che affascina gli adolescenti, quello dei top-gun”).
Il ciclo della mitologia infantile continua invece, dopo “Bufalo Bill” in “Ninetto e la colonia” e soprattutto in “L’uccisione di Babbo Natale”, una favola insanguinata dove il mito per eccellenza dei bambini, Babbo Natale, viene ucciso a bastonate: la freddezza della descrizione (“e in pochi minuti si sparse la voce / che Babbo Natale era stato ammazzato”) racchiude tutta la ferocia del gesto di uccidere una fiaba.
Il mito americano e quello dell’infanzia, presentati già nella canzone “Bufalo Bill” e poi sviluppati autonomamente nel resto dell’album”, convergono in una canzone, “Atlantide” che parla del mito per definizione: la città scomparsa in fondo al mare, il luogo in cui le cose perdono o vedono rovesciarsi il proprio significato: “Ditele che l’ho perduta / quando l’ho capita / ditele che la perdono / per averla tradita”.
Ultime due annotazioni sulle canzoni di questo album: “Ipercarmela” è forse, in assoluto, la canzone in cui De Gregori usa al meglio la sua voce, consegnandole un ruolo centrale nella composizione musicale, mentre “Festival” è una canzone che racconta il suicidio di Luigi Tenco al festival di Sanremo del 1969 (molto bella, nel brano, la citazione a “Lontano lontano”, una delle migliori canzoni di Tenco) e soprattutto il cinismo del mondo che ruota intorno al festival, con lo spettacolo che, nonostante tutto, “doveva”andare avanti (“purché lo spettacolo non finisca”). (continua…)
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