Intervista ad Enzo Pettinelli

Enzo Pettinelli

Enzo Pettinelli è onnipresente al Centro Olimpico di Tennistavolo di via Molinello, a Senigallia. Del resto è stato soprattutto lui a volerlo, progettarlo, gestirlo da oltre venti anni.

Già tecnico della Nazionale italiana di ping-pong, allenatore di generazioni di pongisti, tra cui i vincitori di 41 titoli tricolori e campioni del calibro di Massimo Costantini, Enzo Pettinelli ha donato a Senigallia un libro, “La città del Ping-pong”, che è la storia della sua avventura sportiva e di vita, un atto d’amore per il tennistavolo senigalliese e per la sua città.

Lo abbiamo intervistato alla vigilia di Scripta Volant, la rassegna di “incontri con l’autore” organizzata dal Centro Sociale Saline e da Popinga, che vede Pettinelli protagonista il prossimo venerdì 24 marzo.

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Scozia 2005 /2

6 – E’ il giorno dell’isola di Skye. Le previsioni della BBC sono state chiare: pioggia, pioggia, pioggia fino a meta’ pomeriggio. In caso di pioggia torrenziale la grafica della BBC indica un’area verde e oggi Skye e’ costellata di aree verdi. Non a caso una delle aree piu’ piovose di tutta la Gran Bretagna. Nonostante l’evidenza scientifica il gestore del nostro B&B (lo spione) ci assicura che troveremo tempo bello perche’ quelli del meteo non ci hanno mai capito niente… Partiamo. Cielo nerissimo. Prima pioggia gia’ sul ponte che conduce all’isola. La parte sud dell’isola e’ un susseguirsi di montagne, vallate, fiordi, torrenti. Scarsissima presenza umana. Il paesaggio e’ davvero fantastico. Le nuvole che nascondono le cime delle montagne aggiungono un tocco di mistero.
Raggiungiamo il nord dell’isola (lunga circa 80km), segnalato dalle guide per le sue “stranezze geologiche”, schivando le pecore se ne stanno beatamente in mezzo alla strada, padrone incontrastate della loro isola.

Prima sosta: Old Man of Storr, un pinnacolo roccioso alto 50m (come un palazzo di 15 piani) che mi ricorda il menhir di Obelix. E che Marco1 ribattezza simpaticamente “la tega”. Per raggiungerlo dobbiamo inerpicarci per circa un’ora lungo un sentiero scosceso in mezzo alle nuvole, finche’ non ci appare in tutta la sua maestosita’. Ma arrivati in cima le nuvole si diradano e inizia a piovere: ci aspetta un’ora di discesa sotto pioggia battente, arriviamo alla macchina fradici. Ma le viste sul mare e le isolette vicine sono indimenticabili.
Seconda sosta: dopo esserci asciugati e cambiati i vestiti zuppi d’acqua ci dirigiamo alla Kilt Rock, uno strapiombo di roccia a picco sul mare cosi’ ribattezzato per la somiglianza con le pieghe del tipico gonnellino scozzese. Piove. Cielo sempre piu’ nero.
La terza sosta prevista sarebbe un’altra delle “stranezze”, ma non ci arriviamo perche’ lungo la strada ci coglie uno scroscio cosi’ violento che il tergicristallo non basta piu’ a garantire la visibilita’. Vatti a fidare dello spione… La strada in alcuni punti e’ diventata un fiume. Preferisco accostare e aspettare che passi la buriana.
Terza sosta: Portree, capoluogo dell’isola. Piove. Dopo esserci rifocillati, visitiamo il porticciolo dominato da una fila di casette variopinte. Un tocco di colore nel grigio dell’estremo nord.
Quarta sosta: Distillerie Talisker. Sono circa le 16 e come da previsioni BBC ha smesso di piovere e sta rischiarando. E’ troppo tardi per il tour guidato della distilleria, non per un assaggino. Ci incuriosisce il torrentello di scarico verso mare che emana odore di whisky…
Raggiunta Armadale nell’estremo sud dell’isola torniamo sulla terraferma con il traghetto. Passiamo la sera risolvendo un qui pro quo con un titolare di B&B che millantava una nostra prenotazione, spacciandoci un suo errore per “Highland’s ospitality”…

7 – E’ il penultimo giorno del nostro viaggio e, finalmente, c’e’ il sole! Una intera giornata di sole, dopo lo sprazzo di 3-4 ore di Edimburgo. Ci aspetta la cosiddetta “Strade per le Isole”, una cavalcata di 80km, lungo la costa da Mallaig a Fort William, famosa per ospitare alcuni degli scorci piu’ fotografati di Scozia.
Prima sosta: Mallaig, ameno porticciolo animato solo dall’arrivo di un nuovo traghetto. Sul tetto di ognuna delle belle casette a ridosso del porto c’e’ un gabbiano appollaiato.
Seconda sosta: Loch Morar, dimora del secondo mostro piu’ famoso di Scozia dopo Nessie, ma anche qui niente bestione. Che il whisky dia allucinazioni?
Terza sosta: Silver Sands of Morar, stupende spiagge di sabbia bianca che nemmeno ai Caraibi… L’acqua in compenso e’ gelida, ma c’e’ un pazzo che sta pescando immerso fino alla cintola. Potere riscaldante del whisky?
Quarta sosta: Arisaig, sonnolento (forse perche’ e’ domenica mattina?) porticciolo. L’unico segno di vita e’ un piccolo spaccio di generi alimentari. Livia si presenta alla cassa per pagare una bottiglia di whisky, ma e’ gentilmente invitata a riporla sugli scaffali: e’ domenica, niente alcolici in questa parte del mondo…
Quinta sosta: Glenfinnan, luogo caro al popolo scozzese poiche’ qui Bonnie Prince Charlie inizio’ il suo tentativo, fallito, di riconquistare la corona britannica. Il monumento commemorativo dice poco al turista italiano, ma lo scenario e’ spettacolare col fiordo da un lato e il viadotto ferroviario (altro set di un Harry Potter) dall’altro.
Sesta sosta: Neptune’s Staircase. Si tratta del sistema di chiuse che collegano il canale di Caledonia all’Atlantico. Molto interessante, ma non so se tutti hanno apprezzato.
Settima sosta: Fort William. Lo scenario, con lo sfondo del Ben Nevis, il monte piu’ alto di Gran Bretagna, e’ suggestivo, ma del forte nessuna traccia. Marco2 paga a Marco1 un pacchetto di patatine causa scnfitta a briscola a 59… Tanti negozi per turisti. E noi ci adeguiamo…
In serata ci dirigiamo verso sud, attraversando paesaggi dapprima brulli e maestosi come la Glen Coe e poi piu’ boschivi e dolci nelle Lowlands.

8 – Dopo la notte passata nello sperduto villaggio di Aberfoyle, ma con una bellissima locanda, ci apprestiamo al lungo viaggio verso l’Inghilterra con destinazione finale aeroporto di Durham Teesside.
Colazione leggera con haggis, piatto nazionale scozzese a base di interiora di agnello… A dir la verita’ Livia e’ stata l’unica coraggiosa…
Facciamo due brevi soste lungo il tragitto, nel segno del moderno e dell’antico.
A Falkirk, ancora in Scozia, visitiamo un avveniristico sistema che consente il passaggio di imbarcazioni tra canali situati a diversi livelli (diciamo che si tratta delle “chiuse del Duemila”). Ci si puo’ chiedere a cosa serva visto che i canali britannici sono in disuso, ma in compenso i turisti sono tanti.
La seconda sosta e’ in Inghilterra a visitare le rovine del Vallo di Adriano nel loro scorcio piu’ suggestivo. Ma comincia presto a piovere ed e’ ora di ripartire e non c’e’ cosi’ tempo di vedere il sicomoro immortalato nella scena iniziale del Robin Hood di Kevin Costner.

E siamo cosi’ alla conclusione del nostro viaggio. Che dire?
Bei posti (soprattutto la costa atlantica), bella compagnia, cibo cosi’ cosi’.
E portate il k-way…

Scozia 2005 /1

Protagonisti: Daniele, Livia, Marco 1, Marco 2, Michela
Periodo: 8-15 Agosto 2005
Mezzo: Aereo + Auto

1 – Viaggiamo separatamente. Io arrivo in tarda serata ad Humberside (Inghilterra) con voli KLM da Bologna. I nostri eroi atterrano invece a Durham Teesside (Inghilterra) con volo RyanAir da Roma Ciampino. Io dormo a casa a Beverley, mentre i nostri eroi raggiungono Durham coi mezzi pubblici. Non hanno pero’ tempo di vedere la bellissima cattedrale, usata da sfondo anche per un film di Harry Potter, in quanto rapiti da un ristoratore indiano.

2 – Mentre i nostri eroi visitano finalmente il bellissimo centro storico di Durham, patrimonio dell’Unesco, io li raggiungo in macchina. Sistemiamo con qualche difficolta’ valigie e zaini nel pur capiente bagagliaio della mia Chevrolet perche’ Marco1 ha portato un valigione con ricambi per 30 giorni. Ci mettiamo in viaggio verso la Scozia. Non c’e’ autostrada e Marco1 mi esorta spesso a premere sull’acceleratore. Una volta lo fa proprio mentre siamo nel mirino di uno degli innumerevoli autovelox fissi… Fortunatamente non lo ascolto. Immancabile sosta al confine con zampognaro e giapponesi che gli fanno la foto. Breve sosta a Jedburgh ad ammirare le rovine di una imponente abbazia. Raggiunta la capitale Edimburgo subito ci perdiamo, ma grazie alle indicazioni di una passante e a un po’ di fortuna finalmente troviamo il nostro B&B. Giretto pomeridiano e notturno in centro, per il famoso Royal Mile. Prima impressione: troppi italiani in giro… Siamo colpiti dalla audace architettura della nuova sede del parlamento scozzese. Prime gocce di pioggia e ci rifugiamo nel Museo di Scozia: 7 piani ricchissimi di reperti e testimonianze sulla storia della Scozia ma troppo dispersivo. Dopo un’ora e mezzo usciamo avendone visto solo una piccola parte e con la sensazione che il ricordo che ci rimarra’ piu’ impresso e’ la vista della citta’ dal terrazzo posto all’ultimo piano. E anche il ricordo di Marco2 fenomeno nella gara dei riflessi… Serata in pub a base di Guinness, steaks e jacket potatoes.

3 – Giornata interamente dedicata alla visita di Edimburgo. Raggiunto il centro con autobus a due piani in perfetto stile britannico siamo i primi a varcare la soglia della National Gallery: non sara’ quella di Londra, ma ci sono davvero tanti bei quadri. Ovviamente la sala che preferisco e’ quella degli impressionisti. Percorrendo i verdi giardini che con la ferrovia dividono in due la citta’ ci dirigiamo verso la New Town, magnifico esempio di un oculato e rigoroso sviluppo urbanistico. Insieme alla Old Town, al contrario irregolare e caotica, e’ stata designata patrimonio dell’Unesco. Torniamo quindi verso la Old Town e ci dirigiamo verso il castello. Mentre siamo in fila per l’ingresso ci informiamo sui biglietti per lo spettacolo serale (Military Tattoo) che si tiene sulla spianata. Niente da fare…i biglietti sono finiti a gennaio! E pensare che viene replicato tutte le sere di agosto e le tribune hanno una capienza di circa 10000 spettatori… Incredibile! La visita del castello e le vedute del Firth of Forth ripagano ampiamente della delusione per il mancato spettacolo. Marco1 si invaghisce del gendarme dell’One o’Clock Gun e gli da’ un bacio in bocca. Nel pomeriggio spunta finalmente il sole e ne approfittiamo per sederci su un prato e intavolare un bella partita a queen. Cena in ristorante messicano dove Michela diventa lo zimbello del cameriere.

4 – Ci lasciamo alle spalle Edimburgo attraversando il Firth of Forth in direzione nord e ci godiamo la vista del famoso Forth Bridge, ponte ferroviario in acciaio.
St.Andrews, patria del golf, mi emoziona subito. La citta’ vive per lo sport a cui ha dato i natali. Tantissima gente cammina per strada con la sacca piena di mazze, i negozi vendono abbigliamento per il golf e c’e’ anche un museo del golf. Ma e’ quel grande prato verde della buca 18 (Roberto rassegnati, non e’ la 17!) circondato dalle case e a un tiro di schioppo dalla spiaggia che ti colpisce piu’ di tutto. Provo un po’ d’invidia per quei fortunati che, avendo prenotato con un anno d’anticipo, ora possono roteare le loro mazze. Marco1 suscita l’ilarita’ di uno spettatore quando ad alta voce esprime il proprio disappunto per un “putt” sbilenco: “Nooo!!!”. Anche Livia, che non mi era sembrata felicissima dell’inserimento di St.Andrews nell’itinerario, ne rimane colpita.
Visitiamo anche le rovine del castello e della cattedrale. Nel camposanto della cattedrale attira la nostra attenzione la tomba di “Tommy”, morto il giorno di Natale del 1875 a soli 24 anni, ma gia’ tre volte vincitore del famosissimo torneo.
Lasciamo St.Andrews col rammarico di non aver imbucato nemmeno una pallina (e anche di non averla comprata… son dovuto correre perche’ scadeva il parcheggio e nel frattempo i bast…se la son comprata solo per loro…) alla volta di Inverness. Dopo cena abbiamo tempo per una passeggiata notturna lungo il fiume, dominato dal castello illuminato.

5 – E’ il giorno della traversata est-ovest che ci portera’ dal mare del Nord all’Atlantico. Piu’ ci muoviamo verso est e piu’ il paesaggio diventa selvaggio e affascinante. Inizia la Scozia che ci aspettavamo.
Prima sosta: Loch Ness alla ricerca del mostro, ma lo troviamo solo nei negozi di souvenir. In compenso la vista del lago dalle rovine dell’Urquhart Castle e’ molto suggestiva, cosi’ come la ricostruzione cinematografica della storia del maniero con tanto di sipario che si apre alla vista delle attuali rovine.
Seconda sosta: Eilean Donan Castle, un castello appollaiato su un isolotto roccioso nel bel mezzo di un fiordo e raggiungibile con un ponte in pietra. Riflessi indimenticabili. Non a caso scenario di diverse pellicole di successo.
Terza sosta: abbiamo raggiunto l’Atlantico, a Plockton, villaggio simil-caraibico con tanto di barche a vela, isoletta e palme (grazie alla corrente del Golfo). Davvero strano trovare un posto del genere in Scozia. Manca solo il sole. Hai detto niente… Abbiamo la geniale idea di avventurarci a piedi in una penisoletta raggiungibile attraversando la zona di bassa marea. Nessuno si fida di Marco1 che ha scelto la via piu’ lunga e tutti seguono me per la strada piu’ breve. Finiamo immaltati fino alle caviglie…
Quarta sosta: Kyle of Lochalsh, villaggio di pescatori dominato dalla sagoma a dorso d’asino del ponte che porta sull’isola di Skye. Ceniamo, davvero bene, nel ristorante gestito da una simpatica signora olandese. In serata raggiungiamo, poco fuori Kyle, un B&B con vista. Con con vista su un’isoletta popolata di foche, con vista sull’isola di Skye sormontata da nubi nere e con vista… del gestore su di noi (nel senso che tramite uno spioncino ci sbircia mentre giochiamo a queen in salotto… no comment). (… continua)

Ancora sulle dighe di New Orleans

Ho concluso il mio precedente articolo sul crollo delle dighe di New Orleans lasciando aperto un dubbio: e’ stata colpa degli ingegneri o dei governanti?

Gaspa mi aveva fatto propendere per la seconda ipotesi. Nella sua replica aveva infatti affermato: “… sembra che alcuni centri scientifici, tra cui una vicina base della NASA (inondata anch’essa), avessero predetto tale catastrofe e richiesto già da anni degli stanziamenti per piani di messa in sicurezza degli argini.”

Tuttavia avevo ancora dei dubbi. Tali dubbi sono stati amplificati dalla lettura di un interessantissimo articolo di Leonardo Coen comparso su Repubblica il 7 settembre scorso e intitolato “Sfida alla violenza delle acque, gli Usa a lezione dall’Olanda”.

L’articolo inizia cosi’:
Con molta umilta’ e con altrettanto imbarazzo gli ingegneri americani ammettono che sono indietro tecnologicamente sul fronte della prevenzione idraulica ed hanno ancora molto da imparare, a cominciare dalla vecchia bistrattata Europa. Parole inconsuete da queste parti. “Bisogna capitalizzare le esperienze dei paesi che sono stati capaci di contrastare efficacemente la violenza delle acque” ha dichiarato per esempio il professor George Z. Voyidis, capo della facolta’ di ingegneria civile della Louisiana State University.”

Un altro dato interessante che ho trovato nell’articolo e’ il paragone tra le altezze dei sistemi di protezione che io stesso avevo citato:

  • Barriere mobili all’estuario del Tamigi: 20m sul livello del mare (quando sollevate al livello massimo)
  • Argini olandesi del Piano Delta: 12m sul livello del mare
  • Dighe di New Orleans: 6m sul livello del mare

Un dato che, senza essere esperti del settore, la dice lunga sull’inadeguatezza delle dighe di New Orleans.

In definitiva la dichiarazione del professor George Z. Voyidis mi fa pensare che, se anche ci fossero stati gli stanziamenti richiesti per la messa in sicurezza citati da Gaspa, questi non sarebbero probabilmente bastati a garantire una soulzione ingegneristicamente affidabile o per lo meno comparabile al livello di quelle europee.

Colpa degli ingegneri o dei governanti? Forse di entrambi.

Quelle dighe non dovevano crollare

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un programma della BBC che parlava di uno storm surge (stesso fenomeno verificatosi a New Orleans) capitato nel 1953 nel Mare del Nord.

Uno storm surge è un innalzamento del livello marino provocato dall’azione del vento sulla superficie marina in concomitanza con una bassa pressione atmosferica. Quello storm surge di circa 3 metri di altezza (senza contare il normale effetto di marea) provocò 307 morti sulla costa orientale dell’Inghilterra e circa 1800 in Olanda. Per non parlare dei danni alle abitazioni e all’agricoltura. Lo storm surge risalì persino il corso del Tamigi e alcuni quartieri di Londra furono inondati.
A seguito di quella catastrofe, favorita da inadeguate strutture a protezione di aree situate sotto il livello del mare,  grandi opere di difesa furono costruite sia in Olanda (l’imponente piano Delta, un vero e proprio gioiello di ingegneria idraulica) che in Inghilterra (paratoie mobili alla foce del Tamigi, innalzamento e consolidamento delle difese costiere nelle aree depresse del Norfolk, sistemi di previsione e monitoraggio del fenomeno).

Rimango pertanto stupito nel leggere che a difesa di una città come New Orleans, situata sotto il livello del mare e circondata su tutti i lati dall’acqua, fossero previsti solo dei semplici argini, di cui alcuni in terra.

Differentemente da quanto pensato da molti, non sempre è pratica ingegneristica costruire opere che non collassino mai. Infatti non sempre è possibile o economicamente fattibile evitare una qualche forma di rottura o collasso. Perciò il progettista cerca di condurre il collasso laddove questo crei meno danno.
Tanto per fare un esempio: le case di civile abitazione in cui noi tutti viviamo vengono progettate per non subire danni in caso di terremoti “normali”, subire danni lievi in caso di terremoti “forti” e subire danni pesanti ma non tali da provocare il collasso della struttura in caso di terremoti “catastrofici”.

È però vero che per strutture considerate di importanza strategica un tale approccio non è accettabile. È richiesto qualcosa di più, in quanto tali opere devono garantire la perfetta agibilità anche in condizione di catastrofe. Tra queste, tanto per citarne alcune: ospedali, caserme, ponti, dighe, centrali atomiche e via dicendo.

In altre parole una diga, soprattutto una diga eretta a protezione di una città come New Orleans, non doveva collassare. E parliamo di un uragano forza 3, quindi non la massima.
Non tutti sanno che la tristemente famosa diga del Vajont non è collassata, pur essendo stata  sottoposta a carichi eccezionali. Lì purtroppo l’errore, altrettanto grave, fu quello di costruire un bacino in corrispondenza di versanti instabili.

Chiudo con due citazioni di due miei professori dell’università:

  1. L’ingegnere impara dagli errori degli ingegneri che l’hanno preceduto
  2. L’ingegnere non deve inventare, deve copiare (quel che di buono han fatto altri)

Sembra che negli USA qualcuno (gli ingegneri o i governanti?) si sia dimenticato di questi semplici principi.