1800 chilometri: di tanto ci siamo spostati noi, le poltrone, il teatro e tutto il resto nel primo minuto dello spettacolo. Incredibile, anche perché ogni cosa intorno ci conferma l’esatto contrario: stiamo fermi, seduti in pace e senza giramenti di testa. Eppur si muove, la Terra, si muove nella sua rivoluzione – l’unica rivoluzione nonviolenta della storia – attorno al Sole.
Raccontare questa rivoluzione, per Marco Paolini, significa ripercorrere una straordinaria impresa del pensiero, oltre le colonne d’Ercole di saperi millenari, in direzione ostinata e contraria alle verità apparenti e alle opinioni dominanti. Fin dall’inizio Paolini prende a braccetto gli spettatori (ne fa salire addirittura uno sul palco per fargli da spalla improvvisata) e li conduce attraverso i progressi della scienza e del pensiero filosofico, di cui alcuni uomini d’ingegno si resero artefici a prezzo della vita, come Giordano Bruno, o di brucianti umiliazioni, come Galileo, costretto ad abiurare, provvisoriamente sconfitto dall’oscurantismo della Chiesa.
Ma le parole che Bruno disse, trent’anni prima, al tribunale che lo mandava al rogo, potrebbero benissimo risuonare, ancora più forti, verso i giudici del Sant’Uffizio che costrinsero Galileo all’abiura nel 1633: «Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell’ascoltarla».
Eretico, alla lettera, Galileo fu sicuramente. Del resto, l’eresia è l’anima stessa della scienza, se per ortodossia s’intende il dogma di fede.
Eretica era, fin dal principio, la teoria copernicana dell’eliocentrismo, in contrasto con la fisica aristotelica, le Sacre Scritture e ogni esperienza quotidiana. Ma in fondo, sarebbe rimasta null’altro che una teoria, una speculazione filosofica al pari di tante altre, se nel 1609 Galileo non avesse puntato il suo cannocchiale al cielo e scoperto i satelliti di Giove. Se lassù c’era qualcosa che girava attorno a qualcos’altro che non era la Terra, era chiaro che non eravamo più al centro dell’universo. In un batter d’occhio, andavano in frantumi sedici secoli di fisica tolemaica. E cominciavano i guai per lo scienziato pisano.
Con tutta la sua abilità d’affabulatore, padrone del ritmo e della musicalità delle parole, coinvolgente e ironico ma sempre preciso e documentato dal punto di vista scientifico, Paolini ripercorre la strada tortuosa delle scoperte di quell’epoca, tra verità scientifiche, riflessioni profonde, pochi ma efficaci riferimenti all’attualità, lezioni di grande teatro. Il tutto in una scarna quanto efficace scenografia, dove al centro del palco è sospesa una mina che, come il pendolo nel duomo di Pisa, oscilla sulla testa dell’attore svelando a un certo punto il suo pericoloso contenuto: il sistema eliocentrico copernicano. Pericoloso per i suoi avversari e per i suoi sostenitori.
Galileo gigante della scienza, ma anche – come dirà Italo Calvino – grande scrittore, asciutto ed elegante nella prosa, quanto efficace e brillante nella resa letteraria. Paolini ce ne regala una perla, mettendo in scena, in dialetto veneto, per dieci minuti che da soli valgono il prezzo del biglietto, il celebre passo del “Dialogo sopra i due massimi sistemi” che descrive i movimenti nella stiva di una nave in moto rettilineo uniforme. Uno spettacolare – è il caso di dire – esperimento di pensiero tipico del metodo scientifico, non a caso ripreso tre secoli dopo da Einstein, a proposito della sua teoria della relatività.
Galileo, da buon eretico, non ebbe il funerale. Paolini conclude restituendogli un’orazione funebre, con le parole di Giordano Bruno tratte da “La cena de le ceneri”. Un tributo finale – ci permettiamo di notare – forse superfluo, visto che in quattro secoli Galileo s’è preso largamente la rivincita su coloro che, ieri come oggi, pretenderebbero di tappargli la bocca. Perché non c’è Inquisizione che tenga: come notava Oscar Wilde, chi dice la verità prima o poi viene scoperto.