«La riforma della giustizia, per renderla migliore per tutti i cittadini, ci interessa e abbiamo le nostre proposte. Viceversa, quelle per fermare i processi a Berlusconi non sono riforme e non si può certo pretendere che l’opposizione le faccia proprie. Se per evitare il suo processo devono liberare centinaia di imputati di gravi reati, è quasi meglio che facciano una leggina ad personam per limitare il danno all’ordinamento e alla sicurezza dei cittadini.»
(Massimo D’Alema intervistato dal “Corriere della Sera”, 17/12/2009)
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L’informatica nella giungla
Antonio Tombolini ha richiamato alla mente un mio tarlo: la complessità delle leggi italiane. Grazie anche a Domenico Murrone, Antonio denuncia gli 827 (ottocentoventisette) rimandi di legge contenuti nell’ultima legge finanziaria.
Sapete cosa sono i rimandi di legge? Sono quelle norme in cui invece di dire “Si fa così e cosà” si dice “Con riferimento a quanto previsto all’art. X della legge Y del 1942, ma con l’eccezione delle fattispecie previste dall’art. Z, comma 2, quinquies della legge N del 1974, si dispone che l’art. ecc. ecc.”. Bene, Mimmo, che lavora all’ADUC, si è messo lì con la santa pazienza, e ha contato uno per uno tutti i rimandi contenuti nella legge finanziaria. 827. Ottocentoventisette. E osiamo ancora definirci stato di diritto
I rimandi di legge sono difficili da seguire per una persona, ma potrebbe farlo con faciltà qualsiasi computer, se tali rimandi fossero adeguatamente strutturati e formalizzati.
Decisioni di pochi per la vita di tutti
Quando si parla di ambiente (acqua, aria, gestione dei rifiuti, fauna, flora, salute, ecc.) ci si deve incontrare/scontrare, nel bene e nel male, con una serie infinita di leggi (più volte modificate o ritoccate), decreti attuativi, regolamenti applicativi e circolari esplicative … che non solo mettono in chiara difficoltà il cittadino qualunque (… visto che la legge non ammette ignoranza …) ma anche la pubblica amministrazione ed i giudici, a tutto vantaggio per gli inquinatori, i bracconieri ed i furbacchioni di turno che tra un articolo e l’altro trovano sempre il modo di evitare guai giudiziari. Leggi tutto “Decisioni di pochi per la vita di tutti”
Lacrime e sangue
«Lo spettacolo dunque continua», scrive Vittorio Feltri su “Libero” dell’8 luglio, il giorno dopo gli attentati a Londra. «E continuerà chissà fin quando. Forse finché da vili quali siamo, o illusi o semplicemente incoscienti, rifiuteremo di affrontare il nemico come va affrontato ogni nemico: con forza. Il che significa adottare misure eccezionali e riconoscere che siamo in emergenza; anzi, in guerra. Il regime di guerra richiede sacrifici speciali, anche la rinuncia a certe libertà. La sicurezza ha un prezzo. Più sicurezza equivale a meno libertà».
Abbiamo già sentito queste parole. Si espresse così anche Ugo La Malfa alla Camera il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro. Giorgio Almirante fu anche più esplicito: chiese leggi speciali, il ripristino della pena di morte e la sostituzione del ministro dell’Interno con un militare.
Oggi come ieri, ci viene detto che, quando Annibale è alle porte, la legge che valeva fino a ieri non deve valere più. Lo Stato di diritto non basta: ci vogliono leggi speciali, misure eccezionali. È un’emergenza, la gente deve capire.
Scusate, se di fronte al pericolo si eliminano diritti che valevano fino a ieri, si sospende la legalità costituzionale, si intaccano le conquiste che la nostra civiltà ha raggiunto in secoli di evoluzione, la lotta non è forse persa in partenza? Il nemico forse non ha raggiunto il suo scopo, mettendoci in condizione di dover rinunciare alle nostre libertà?
Di fronte ai barbari si dovrebbe invece alzare più in alto la bandiera dello Stato di diritto, il vessillo della democrazia e della legalità, applicando le leggi che esistono invece di invocarne di nuove. E se democrazia vuol dire anche scontro, battaglia di opinioni e culture, sarebbe bene diffidare di chi, gridando all’emergenza, invoca unità nazionali e unanimismi. La democrazia deve funzionare con le sue regole, il suo pragmatismo, finanche le sue contraddizioni. È questo il suo limite, ma anche la sua forza.
In tutto ciò, proprio dall’Inghilterra abbiamo molto da imparare.
«Non ho nulla da offrire», disse Winston Churchill il 13 maggio 1940 davanti alla Camera dei Comuni, «se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza». C’era la guerra e Annibale era veramente alle porte. Eppure di lì a pochi mesi, in una Londra sotto le bombe naziste e con centinaia di vittime civili al giorno, lo stesso Parlamento avrebbe riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza.
We shall never surrender significava (e deve significare) anche questo.
Diritto di astensione o coda di paglia?
«Sulla vita non si vota» sostengono i comitati per l’astensione ai prossimi referendum, tra cui Scienza & Vita.
Ma la regola – pare di capire – vale da poco tempo e soprattutto ad intermittenza: ai tempi del referendum sull’aborto (promosso da loro), sulla vita si poté votare eccome!
Evidentemente, all’epoca non esistevano i gravi pericoli di oggi:
– la materia è difficile (chi decide il livello di difficoltà di un quesito dello Stato italiano? Loro? Il cardinale Ruini?);
– la gente non capisce (spesso si vuole che la gente non capisca);
– il tema coinvolge una ristretta minoranza (è poi così vero?);
– su certe questioni non si può decidere con un sì e con un no (e perché no?);
– i referendum sono troppi, in Italia si abusa dell’istituto referendario (in Svizzera e negli Stati Uniti si votano decine di referendum ogni anno, apparentemente senza rischi per la democrazia);
– si spacca il Paese (dove sta scritto che il Paese non possa discutere e magari dividersi su temi importanti?).
Il pericolo, per loro, è un altro. La campagna astensionista si basa su un solo pilastro: la consapevolezza che i SI sono largamente maggioritari nel Paese. L’unico modo per non toccare la legge, dunque, è impedire la conta dei voti. Il resto sono bizantinismi ed esercizi da azzeccagarbugli. Come ha detto il costituzionalista cattolico Stefano Ceccanti, «chi ha approvato la legge sia in Parlamento che fuori, dovrebbe difenderla votando NO: se è stato fatto un buon lavoro, il consenso sociale è assicurato. Se si astiene, significa che sa di essere in minoranza. È un’ammissione di colpa».
Non so se si tratti di colpa, ma di sicuro è in mala fede chi cerca di ammantare la scelta astensionista di nobili significati, giustificazioni filosofiche e teologiche.
Personalità di spicco, da Pera e Casini per finire a Rutelli, hanno dichiarato che non andranno a votare e difeso la scelta dell’astensione definendola “legittima”. E chi ha mai sostenuto il contrario? Anche se nessuno nega la legittimità dell’astensione, vale la pena fare alcune osservazioni sulla credibilità di chi la predica.
1. Astensione ad intermittenza. Come mai non ci sono appelli per l’astensione alle elezioni politiche? Perché, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una scelta di campo e andare compatti alle urne? E si sarebbe ugualmente caldeggiata l’astensione se i referendum si fossero tenuti insieme alle elezioni regionali?
2. Tutti abili e arruolati. Qual è la quota di astensione “fisiologica” in Italia negli ultimi anni? Una stima può venire dai referendum dell’11 giugno 1995 (privatizzazione della RAI, trattenute sindacali, pubblicità televisiva, ecc.): quella infatti fu l’ultima volta che non scattò il meccanismo del non-voto = voto, i NO alle modifiche delle leggi si esplicitarono nelle urne e non finirono mascherati dietro le astensioni. Ebbene, gli astenuti furono circa il 43%, poco meno della metà degli elettori.
C’è da aspettarsi anche ora una percentuale di votanti attorno al 50%, per cui chi invita a disertare le urne parte con un vantaggio “involontario” di almeno 2/5 degli elettori. Visto che la legge prevede il quorum, il vantaggio è sacrosanto, ma possiamo ritenerlo rappresentativo dell’opinione pubblica? Con che diritto si arruola tra i sostenitori della legge quel 40% di indifferenti, a qualunque titolo disinteressati ai quesiti? Se il quorum dovesse saltare, credo che sarebbe indecente e furbesco appropriarsi della “vittoria” a nome della “maggioranza” degli italiani.
3. Qual è il quorum? Secondo il ministro dell’Interno Pisanu gli elettori italiani residenti all’estero sono circa 3 milioni e 800 mila (iscritti all’A.I.R.E.) ma le anagrafi consolari ne contano un 40% in meno. C’è quindi più di un milione di elettori morti o dispersi che saranno conteggiati nel quorum. Nei giorni scorsi s’è venuto anche a sapere che i militari italiani in missione all’estero non potranno votare per presunti motivi logistici. Non risulta che il ministro Tremaglia, che a suo tempo si commosse quando fu approvata la legge per il voto agli italiani all’estero, abbia le lacrime agli occhi per ciò che sta succedendo oggi.
4. Astensione in nomine patris. Plateale, di stampo quasi militare, è lo schieramento delle gerarchie ecclesiastiche. Lungi da me negare ai vescovi la libera manifestazione del pensiero, o la facoltà di svolgere la missione pastorale, educativa e di evangelizzazione: sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Dico solo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Illuminanti le parole di Guido Ceronetti su “La Stampa” del 29 maggio: «Predicare l’astensione […] tende a modificare subdolamente il gene della democrazia, alla quale se togli il voto e la libertà di andare al seggio hai tolto quasi tutto, ne hai rinnegato l’essenza. […] Ci avviciniamo alla repubblica islamica iraniana: il potere civile stabilisce una regola, però se l’ayatollah vuole contrastarla la regola va in fumo.»
Non bastava il sacrosanto diritto: sono arrivati a teorizzare il dovere all’astensione per evitare una barbarie di stampo nazista, e definiscono l’andare a votare una «colpa gravissima». Su radio Maria c’è chi suggerisce ai fedeli, nel giorno del referendum, di recarsi «in chiese e santuari a pregare perché la Madonna interceda presso suo Figlio affinché il referendum fallisca».
Il 31 maggio monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della CEI, ha avvertito che «i credenti che si recheranno a votare il 12 e 13 giugno disattendono le parole del Papa». Come ha fatto però notare su “Il Riformista” del 1 giugno Oscar Giannino (uno non sospettabile di sparare “cretinerie radicaleggianti”), mons. Betori ha dovuto riconoscere che nei confronti dei “disobbedienti” non verrà adottata alcuna sanzione canonica. E ci mancherebbe altro, visto che «l’immedesimazione tra embrione e persona che la CEI difende nella legge 40 non è materia di fede codificata da encicliche o dalla dottrina della Chiesa. Risale solo ad un “principio di precauzione”, per via del quale la Chiesa italiana identifica la nozione di persona in base a criteri fondati proprio su quel biologismo sino a ieri respinto come relativista in materia morale».
Monsignor Betori ha dovuto poi toccare un altro nervo scoperto: la linea astensionista non è mai stata sottoposta ad un libero dibattito nell’assemblea generale dei vescovi italiani. È stata teorizzata dal presidente Ruini nel Consiglio Episcopale del 17 gennaio scorso e poi suggellata da un semplice applauso l’altro giorno a Bari, alla presenza del Papa.
Resta da capire se, pur in assenza di sanzioni canoniche, i cattolici saranno davvero liberi di votare. Ad esempio, quale sarà la segretezza del voto di quegli ecclesiastici che vorranno recarsi alle urne, magari per votare no? E che libertà avranno gli insegnanti di religione e i cappellani militari (tutti revocabili dalla CEI, proprio per ragioni etiche), che potrebbero pagare la loro “disobbedienza” col posto di lavoro?
5. Indurre all’astensione è reato? Come mai nessun “dottore della legge” parla dell’esistenza di un paio di leggi che regolamentano l’esercizio dei diritti politici del cittadino?
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Art. 98 del Testo Unico delle leggi elettorali, Titolo VII:
«Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera
– a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o
– a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o
– ad indurli all’astensione,
è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000». -
Art. 51 della legge 352/1970 (norme sui referendum):
«Le disposizioni penali, contenute nel titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge. Le sanzioni previste dagli articoli 96, 97 e 98 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti negli articoli stessi contemplati riguardino le firme per richiesta di referendum o per proposte di leggi, o voti o astensioni di voto relativamente ai referendum disciplinati nei titoli I, II e III della presente legge.»
Non è che se ne parla poco perché, all’italica maniera, con gli avversari le leggi si applicano e con gli amici si interpretano?
Forse aveva ragione Flaiano. L’Italia è la patria del diritto. E del rovescio.
Il 12 e 13 giugno abbiamo un’ottima occasione per smentirlo.