Democrazia è partecipazione?

«Siete voi, sì, soltanto voi, i colpevoli, siete voi, sì, che ignominiosamente avete disertato dal concerto nazionale per seguire il cammino contorto della sovversione, della indisciplina, della più perversa e diabolica sfida al potere legittimo dello Stato di cui si abbia memoria in tutta la storia delle nazioni.»
(José Saramago, “Saggio sulla lucidità”, 2004)

In questo romanzo, Saramago immagina che alle elezioni di un paese democratico gli elettori votino in massa scheda bianca.
Un diluvio di schede bianche che spiazza il potere: prima lo stupore e lo scandalo, poi l’indignazione ed infine una reazione autoritaria, lo stato d’assedio e la repressione. Il governo non trova di meglio che accusare gli elettori di essere dei rivoluzionari anarcoidi.
La politica, sostenuta da una stampa servizievole quando non addirittura complice, non s’interroga su se stessa, non si fa domande sui motivi veri per cui la gente, votando scheda bianca, ha voluto comunicare la sfiducia verso qualsiasi schieramento politico: centro, destra o sinistra. Si autodifende con lucido cinismo, criminalizzando quello che in un regime democratico è un gesto legale: il voto libero e segreto. Leggi tutto “Democrazia è partecipazione?”

Votare alle provinciali? No, grazie

Che l’Ente Provincia non servisse a nulla e andasse abolito trasferendo le sue poche competenze a Regione e Comuni, era già chiaro.
Nel frattempo, però, in vista delle elezioni provinciali del prossimo 27 maggio, m’è capitato di vedere una puntata di Report (su RAI3 lo scorso 1 aprile) e di leggere un libro sull’indecenza della nostra classe politica, ridotta ormai ad un’oligarchia autoreferenziale di destra-centro-sinistra (“La Casta”, di S. Rizzo e G. A. Stella, edito da Rizzoli). Leggi tutto “Votare alle provinciali? No, grazie”

Cari maledetti astensionisti

Credevo che in democrazia la politica, ossia la partecipazione dei cittadini alla vita della polis, si fondasse sulla scelta responsabile del voto.
Credevo che la Costituzione avesse consegnato agli italiani, oltre alle due schede per l’elezione di Camera e Senato, anche quella referendaria.
Credevo non esistessero, sul piano etico e giuridico – semmai solo su quello tecnico – differenze tra la scelta di partecipazione o astensione alle elezioni politiche e ai referendum. In altre parole, fatta salva la differenza tecnica dovuta al quorum, non capisco perché il comportamento partecipativo o astensionista alle elezioni e ai referendum debba avere una connotazione etica diversa: più o meno nobile, più o meno giustificabile, più o meno deprecabile.

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Diritto di astensione o coda di paglia?

«Sulla vita non si vota» sostengono i comitati per l’astensione ai prossimi referendum, tra cui Scienza & Vita.
Ma la regola – pare di capire – vale da poco tempo e soprattutto ad intermittenza: ai tempi del referendum sull’aborto (promosso da loro), sulla vita si poté votare eccome!

Evidentemente, all’epoca non esistevano i gravi pericoli di oggi:
– la materia è difficile (chi decide il livello di difficoltà di un quesito dello Stato italiano? Loro? Il cardinale Ruini?);
– la gente non capisce (spesso si vuole che la gente non capisca);
– il tema coinvolge una ristretta minoranza (è poi così vero?);
– su certe questioni non si può decidere con un sì e con un no (e perché no?);
– i referendum sono troppi, in Italia si abusa dell’istituto referendario (in Svizzera e negli Stati Uniti si votano decine di referendum ogni anno, apparentemente senza rischi per la democrazia);
– si spacca il Paese (dove sta scritto che il Paese non possa discutere e magari dividersi su temi importanti?).

Il pericolo, per loro, è un altro. La campagna astensionista si basa su un solo pilastro: la consapevolezza che i SI sono largamente maggioritari nel Paese. L’unico modo per non toccare la legge, dunque, è impedire la conta dei voti. Il resto sono bizantinismi ed esercizi da azzeccagarbugli. Come ha detto il costituzionalista cattolico Stefano Ceccanti, «chi ha approvato la legge sia in Parlamento che fuori, dovrebbe difenderla votando NO: se è stato fatto un buon lavoro, il consenso sociale è assicurato. Se si astiene, significa che sa di essere in minoranza. È un’ammissione di colpa».
Non so se si tratti di colpa, ma di sicuro è in mala fede chi cerca di ammantare la scelta astensionista di nobili significati, giustificazioni filosofiche e teologiche.
Personalità di spicco, da Pera e Casini per finire a Rutelli, hanno dichiarato che non andranno a votare e difeso la scelta dell’astensione definendola “legittima”. E chi ha mai sostenuto il contrario? Anche se nessuno nega la legittimità dell’astensione, vale la pena fare alcune osservazioni sulla credibilità di chi la predica.

1. Astensione ad intermittenza. Come mai non ci sono appelli per l’astensione alle elezioni politiche? Perché, quando si tratta di poltrone e rimborsi elettorali, bisogna fare una scelta di campo e andare compatti alle urne? E si sarebbe ugualmente caldeggiata l’astensione se i referendum si fossero tenuti insieme alle elezioni regionali?

2. Tutti abili e arruolati. Qual è la quota di astensione “fisiologica” in Italia negli ultimi anni? Una stima può venire dai referendum dell’11 giugno 1995 (privatizzazione della RAI, trattenute sindacali, pubblicità televisiva, ecc.): quella infatti fu l’ultima volta che non scattò il meccanismo del non-voto = voto, i NO alle modifiche delle leggi si esplicitarono nelle urne e non finirono mascherati dietro le astensioni. Ebbene, gli astenuti furono circa il 43%, poco meno della metà degli elettori.
C’è da aspettarsi anche ora una percentuale di votanti attorno al 50%, per cui chi invita a disertare le urne parte con un vantaggio “involontario” di almeno 2/5 degli elettori. Visto che la legge prevede il quorum, il vantaggio è sacrosanto, ma possiamo ritenerlo rappresentativo dell’opinione pubblica? Con che diritto si arruola tra i sostenitori della legge quel 40% di indifferenti, a qualunque titolo disinteressati ai quesiti? Se il quorum dovesse saltare, credo che sarebbe indecente e furbesco appropriarsi della “vittoria” a nome della “maggioranza” degli italiani.

3. Qual è il quorum? Secondo il ministro dell’Interno Pisanu gli elettori italiani residenti all’estero sono circa 3 milioni e 800 mila (iscritti all’A.I.R.E.) ma le anagrafi consolari ne contano un 40% in meno. C’è quindi più di un milione di elettori morti o dispersi che saranno conteggiati nel quorum. Nei giorni scorsi s’è venuto anche a sapere che i militari italiani in missione all’estero non potranno votare per presunti motivi logistici. Non risulta che il ministro Tremaglia, che a suo tempo si commosse quando fu approvata la legge per il voto agli italiani all’estero, abbia le lacrime agli occhi per ciò che sta succedendo oggi.

4. Astensione in nomine patris. Plateale, di stampo quasi militare, è lo schieramento delle gerarchie ecclesiastiche. Lungi da me negare ai vescovi la libera manifestazione del pensiero, o la facoltà di svolgere la missione pastorale, educativa e di evangelizzazione: sarebbe da pazzi solo pensare cose del genere. Dico solo che non spetta alla Chiesa né alla CEI entrare nei meccanismi politici e legislativi dello Stato italiano, e mettere il naso nei dettagli tecnici del voto referendario, prescrivendo agli elettori il comportamento da tenere: se votare, come votare, o se andare al mare.
Illuminanti le parole di Guido Ceronetti su “La Stampa” del 29 maggio: «Predicare l’astensione […] tende a modificare subdolamente il gene della democrazia, alla quale se togli il voto e la libertà di andare al seggio hai tolto quasi tutto, ne hai rinnegato l’essenza. […] Ci avviciniamo alla repubblica islamica iraniana: il potere civile stabilisce una regola, però se l’ayatollah vuole contrastarla la regola va in fumo.»

Non bastava il sacrosanto diritto: sono arrivati a teorizzare il dovere all’astensione per evitare una barbarie di stampo nazista, e definiscono l’andare a votare una «colpa gravissima». Su radio Maria c’è chi suggerisce ai fedeli, nel giorno del referendum, di recarsi «in chiese e santuari a pregare perché la Madonna interceda presso suo Figlio affinché il referendum fallisca».
Il 31 maggio monsignor Giuseppe Betori, segretario generale della CEI, ha avvertito che «i credenti che si recheranno a votare il 12 e 13 giugno disattendono le parole del Papa». Come ha fatto però notare su “Il Riformista” del 1 giugno Oscar Giannino (uno non sospettabile di sparare “cretinerie radicaleggianti”), mons. Betori ha dovuto riconoscere che nei confronti dei “disobbedienti” non verrà adottata alcuna sanzione canonica. E ci mancherebbe altro, visto che «l’immedesimazione tra embrione e persona che la CEI difende nella legge 40 non è materia di fede codificata da encicliche o dalla dottrina della Chiesa. Risale solo ad un “principio di precauzione”, per via del quale la Chiesa italiana identifica la nozione di persona in base a criteri fondati proprio su quel biologismo sino a ieri respinto come relativista in materia morale».
Monsignor Betori ha dovuto poi toccare un altro nervo scoperto: la linea astensionista non è mai stata sottoposta ad un libero dibattito nell’assemblea generale dei vescovi italiani. È stata teorizzata dal presidente Ruini nel Consiglio Episcopale del 17 gennaio scorso e poi suggellata da un semplice applauso l’altro giorno a Bari, alla presenza del Papa.
Resta da capire se, pur in assenza di sanzioni canoniche, i cattolici saranno davvero liberi di votare. Ad esempio, quale sarà la segretezza del voto di quegli ecclesiastici che vorranno recarsi alle urne, magari per votare no? E che libertà avranno gli insegnanti di religione e i cappellani militari (tutti revocabili dalla CEI, proprio per ragioni etiche), che potrebbero pagare la loro “disobbedienza” col posto di lavoro?

5. Indurre all’astensione è reato? Come mai nessun “dottore della legge” parla dell’esistenza di un paio di leggi che regolamentano l’esercizio dei diritti politici del cittadino?

  • Art. 98 del Testo Unico delle leggi elettorali, Titolo VII:
    «Il pubblico ufficiale, l’incaricato di un pubblico servizio, l’esercente di un servizio di pubblica necessità, il ministro di qualsiasi culto, chiunque investito di un pubblico potere o funzione civile o militare, abusando delle proprie attribuzioni e nell’esercizio di esse, si adopera
    – a costringere gli elettori a firmare una dichiarazione di presentazione di candidati o
    – a vincolare i suffragi degli elettori a favore od in pregiudizio di determinate liste o di determinati candidati o
    ad indurli all’astensione,
    è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da lire 600.000 a lire 4.000.000».
  • Art. 51 della legge 352/1970 (norme sui referendum):
    «Le disposizioni penali, contenute nel titolo VII del testo unico delle leggi per la elezione della Camera dei Deputati, si applicano anche con riferimento alle disposizioni della presente legge. Le sanzioni previste dagli articoli 96, 97 e 98 del suddetto testo unico si applicano anche quando i fatti negli articoli stessi contemplati riguardino le firme per richiesta di referendum o per proposte di leggi, o voti o astensioni di voto relativamente ai referendum disciplinati nei titoli I, II e III della presente legge.»

Non è che se ne parla poco perché, all’italica maniera, con gli avversari le leggi si applicano e con gli amici si interpretano?
Forse aveva ragione Flaiano. L’Italia è la patria del diritto. E del rovescio.
Il 12 e 13 giugno abbiamo un’ottima occasione per smentirlo.

I 4 referendum e i nostri “liberali”

«La libertà non è la mia libertà, ma è la libertà di chi non la pensa come me. Un clericale non capirà mai questo punto né in Italia, né in nessun altro paese del mondo. Il clericale non arriverà mai a capire la distinzione fra peccato (quello che lui crede peccato) e delitto (quello che la legge secolare ha il compito di condannare come delitto). Punisce il peccato come se fosse delitto, e perdona il delitto come se fosse peccato. Non è mai uscito dall’atmosfera dei dieci comandamenti, nei quali il rubare e l’uccidere (delitto) sono messi sullo stesso livello del desiderare la donna altrui (peccato)…».

Era il 1947, quando Gaetano Salvemini scriveva queste righe a Mario Vinciguerra. Sembrano ovvietà, ma evidentemente non lo sono, se 60 anni dopo c’è ancora bisogno di parlarne.

Anche le lucide, laiche, tolleranti argomentazioni di Mariangela Paradisi su Vivere Senigallia del 19 maggio paiono ovvie. Eppure vanno ancora ribadite, se possibile con maggiore forza, proprio in questi giorni. Gli ultimi prima dei 4 referendum sulla procreazione assistita.
Prima le bordate terroristiche di chi invita all’astensione per scongiurare il pericolo della clonazione umana (che nulla ha a che vedere con i quesiti in discussione); adesso scendono in campo gli intellettuali del Comitato Liberali per l’Astensione: quelli bravi, seri, preparati, che parlano di filosofia, citano Locke, Kant e il diritto romano. Sono laureati e soprattutto liberali. D’altra parte, chi non è liberale al giorno d’oggi?

I nostri “liberali” ci avvertono, restando seri, che «un pensiero autenticamente liberale deve salvaguardare sempre e comunque [le scelte individuali] fino al limite estremo della lesione degli altrui diritti». Con questo metro di giudizio, che ci farebbe ritenere liberali personaggi del calibro di Hitler, Mussolini, Stalin o Fidel Castro, i nostri “liberali” ritengono che le scelte individuali vadano salvaguardate a tal punto che è meglio convincere gli elettori a non votare.
Mariangela Paradisi fa giustamente notare che i referendum riguardano aspetti ben circoscritti e contraddittori della legge 40/2004, come la diagnosi pre-impianto e la tutela della salute della donna. Si impedisce la diagnosi dell’ovulo fecondato e poi si consente alla donna di abortire se con l’amniocentesi scopre che l’embrione è portatore di una patologia mortale. Oppure, se tra il momento della stimolazione ormonale e il momento dell’impianto la donna scopre – magari proprio a causa della stimolazione – di avere un tumore all’utero o al seno, non può più rifiutarsi di farsi impiantare gli ovuli fecondati. E in che modo avverrà l’impianto coatto? Con i carabinieri? Ci possiamo già immaginare la scena: “appuntato, lei la prenda per i piedi che io le tengo ferme le braccia…”
È una legge da stato liberale quella che fa entrare la forza pubblica nelle camere da letto, nella vita di milioni di persone? Assolutamente sì, assicurano i nostri “liberali”.

Poi, però, guardandoli in faccia, ci accorgiamo che i nostri “liberali” assomigliano molto ad altri “liberali”: quelli che trent’anni fa, ai tempi della legge Fortuna sul nuovo diritto di famiglia, sostenevano che concedere per legge la possibilità di divorziare avrebbe portato allo sfascio delle famiglie, che i mariti sarebbero scappati di casa con la governante, che si sarebbe istituzionalizzato il libertinaggio. Ma ci ricordano anche quegli altri “liberali” che si schierarono contro la legge 194, ovvero contro la legge che 25 anni fa – pur tra dubbi e contraddizioni – cercò di contenere il fenomeno enorme e vergognoso dell’aborto di massa, clandestino, irresponsabile.
A distanza di anni, nessuna delle tragedie prospettate si è avverata, anzi è successo il contrario: le famiglie non si sono sfasciate e forse è stato un bene non finire più in galera per adulterio; le interruzioni volontarie di gravidanza si sono più che dimezzate, e forse nei giovani s’è creata più consapevolezza intorno ai problemi del sesso, della contraccezione e della gravidanza.
Eppure, i “liberali” sono tornati alla carica. Una volta almeno c’erano Fanfani e Almirante, i quali peraltro non hanno mai avuto la faccia tosta di proclamarsi liberali. Adesso bisogna accontentarsi.
Alla credibilità, alla filosofia, al latinorum di questi “liberali” mi piace opporre le semplici parole che seguono.

La campana de la chiesa, di C. A. Salustri (“Trilussa”)

Che sôno a fa’? – diceva una Campana. –
Da un po’ de tempo in qua, c’è tanta gente
che invece d’entrà drento s’allontana.
Anticamente, appena davo un tocco
la Chiesa era già piena;
ma adesso ho voja a fa’ la canoffiena
pe’ chiamà li cristiani còr patocco!
Se l’omo che me sente nun me crede
che diavolo dirà Dommineddio?
Dirà ch’er sôno mio
nun è più bono a risvejà la fede.
– No, la raggione te la spiego io:
– je disse un angeletto
che stava in pizzo ar tetto –    
nun dipenne da te che nun sei bona,
ma dipenne dall’anima cristiana
che nun se fida più de la Campana
perché conosce quello che la sona…