Open Data: nessun diritto, nessun dovere

(Articolo apparso sul primo numero del giornale free press La Città Futura)

Cosa vuol dire “Open Data”? Semplicemente che alcune tipologie di dati in possesso della Pubblica Amministrazione devono essere liberamente accessibili a tutti, attraverso Internet, senza restrizioni legali o di altra natura.

Questo renderebbe lo Stato, in tutte le sue diramazioni, molto più trasparente, permetterebbe a qualsiasi cittadino di conoscerne a fondo l’attività, e ad ogni elettore di monitorare meglio i propri governanti (citando Einaudi: “conoscere per deliberare”). Dunque gli Open Data farebbero bene alla politica.
Ma avrebbero un impatto positivo sulla cultura e persino sull’economia di una nazione, perché permetterebbero nuove ricerche e analisi, attraverso il confronto e l’elaborazione di dati provenienti anche da soggetti esterni alla Pubblica Amministrazione (si pensi ad esempio ai dati cartografici). Diverrebbero possibili nuovi servizi, e dunque nuove idee imprenditoriali, quindi nuova occupazione. Insomma, Open Data per la democrazia, per la conoscenza, per la qualità della vita.

Ma tutto ciò è sogno o realtà?

E’ già realtà nelle più avanzate democrazie occidentali, quelle anglosassoni. Un primo importante impulso agli Open Data è arrivato dalla cosiddetta “direttiva Obama” (2009) che disegna un modello di Open Government fondandolo su tre pilastri: trasparenza, partecipazione e collaborazione. Su questo tema il governo degli Stati Uniti ha prodotto quello che è ancora un riferimento per tutti: il sito www.data.gov. Non meno importante il progetto che nel Regno Unito ha dato vita al portale data.gov.uk, che porta la firma di Tim Berners Lee, uno dei padri del web.

E in Italia? Nel Bel Paese non esiste un analogo di data.gov (anche perché non esiste un analogo di Obama!). Più in generale, da noi il processo di apertura dei dati pubblici si scontra con una serie di difficoltà giuridiche. Mentre in USA, già nel 1994, veniva sancito che tutte le informazioni pagate con soldi pubblici devono essere pubbliche e pubblicabili, in Italia, negli stessi anni, nasceva la cosiddetta “legge sulla trasparenza” (241/90): essa prevede che chi vuole accedere ad un dato deve dimostrare di avere l’interesse a farlo. Cioè, diversamente dal common law che prevede il “right to know” (diritto di conoscere), la legge italiana sancisce il “need to know”. E’ dunque l’Amministrazione che concede l’utilizzo dei dati, non basta che sia il cittadino a richiederlo. In Italia l’Open Data non è un diritto del cittadino e non è un dovere dello Stato.
In assenza di una chiara indicazione nazionale che coordini le varie Amministrazioni Pubbliche e imponga loro determinate azioni, nel nostro paese la diffusione degli Open Data avviene “a macchia di leopardo”, spesso su iniziativa di amministrazioni locali (come è avvenuto per dati.piemonte.it) o di pezzi di quella centrale (per esempio la Ragioneria Generale dello Stato).

Un altro ostacolo agli Open data in salsa italiana viene dalla normativa sulla privacy, da noi particolarmente restrittiva (o perlomeno interpretata in senso restrittivo), che ha introdotto la curiosa distinzione tra dato pubblico e dato pubblicabile. Sembrerebbe una contraddizione in termini ma è esattamente quanto avviene, per esempio, per le dichiarazioni dei redditi. Esse sono totalmente accessibili a chiunque ma non è possibile leggerle sui giornali o su Internet (eppure, a me parrebbe un passo importante per la lotta all’evasione). Fino ad arrivare al paradosso che addirittura le informazioni rese disponibili sul web dopo la cosiddetta “Operazione Trasparenza” del Ministro Brunetta, non sono indicizzabili dai motori di ricerca, quindi in pratica restano pressoché inutilizzabili, per volere del Garante della Privacy.

Nonostante tutto ciò, amministrazioni volonterose, in Italia, possono fare Open Data da subito, almeno su dati non sensibili alla privacy. A Senigallia, in particolare, si è aperta una interessante prospettiva. Non è un caso che proprio sulla Spiaggia di Velluto, lo scorso novembre, si è tenuto il convegno “Fammi Sapere”, tra i primi in Italia interamente dedicato agli Open Data, che ha visto come relatori alcuni tra i maggiori esperti nazionali. L’Amministrazione Comunale, che ha organizzato il convegno insieme ad InformaEtica, è interessata ad implementare l’Anagrafe Pubblica degli Eletti e Nominati (APEN), che rientra a pieno titolo nell’ambito degli Open Data, e per la quale il bilancio 2011 del Comune di Senigallia prevede appositi fondi.

Essere d’accordo, in linea di principio, sull’APEN è cosa ben diversa dall’implementarla realmente. Lo sanno i cittadini di quegli enti, alcune decine tra Comuni, Province e Regioni italiane, che l’hanno istituita sulla carta ma non l’hanno ancora resa funzionante. E’ difficile che un politico o un amministratore si dichiari in disaccordo su questa iniziativa, lanciata tre anni fa dai Radicali Italiani. Clamoroso è il caso di Roma dove, approvata con fatica anche grazie ad una delibera di iniziativa popolare, l’istituzione dell’Anagrafe è stata pubblicizzata con manifesti firmati PdL (molti dei quali abusivi), dopodiché ci sono voluti molti mesi per averla effettivamente disponibile sul sito del Comune.

A Senigallia gran parte dei dati necessari a formare una APEN sono già pubblici, o almeno dovrebbero esserlo. Persino quelli più “sensibili”, come le dichiarazione dei redditi di Sindaco, Assessori e Consiglieri Comunali, devono essere pubblicati secondo un regolamento comunale risalente al 1994. Quello stesso regolamento è stato applicato circa un anno fa, dopo essere rimasto lettera morta per anni, soprattutto grazie ad una lunga campagna di stampa e all’impegno diretto dell’allora Presidente del Consiglio Comunale. I dati del 2011 ancora non sono stati resi pubblici, nonostante da sei mesi siano scaduti i termini previsti dal Regolamento. Un ulteriore esempio di quanto sia lunga la strada per la trasparenza, anche a Senigallia.

2 pensieri riguardo “Open Data: nessun diritto, nessun dovere”

  1. Sembra che l’Open Data italiano sia in fermento, oltre alla nascita del sito governativo, dei portali piemontese (anno scorso), emilianoromagnolo (quest’anno), nascono anche vari portali privati che spronano alla conoscenza e fruizione dell’Open Data, vedasi i più recenti: wikitalia, smartitaly. Se l’Italia possa essere cogliere le opportunità di questa rivoluzione una volta tanto al pari degli altri paesi avanzati, è tutto da sperare…

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