Distruggeremo in dieci anni ciò che è stato costruito in dieci secoli?
A proposito di suoli e di paesaggio agrario
La trama sottile e geometricamente ordinata dei filari di viti, la distribuzione solo apparentemente casuale delle grandi querce isolate, o allineate lungo i sentieri, o disposte a piccoli gruppi, l’equilibrata disseminazione delle case coloniche conseguente all’appoderamento frazionato quanto intenso, e la marginalità delle aree a bosco ed a prato rispetto alla dilagante presenza dei coltivi sono state fino a ieri, nell’agricoltura marchigiana — per usare l’espressione di un agronomo maceratese di età napoleonica — il frutto di « un sistema che riuniva l’utilità all’avvenenza », maturato in dieci secoli di sapiente lavoro contadino e di concordi sforzi collettivi, per riappropriarsi di un territorio inselvatichito e degradato dal crollo della compagine demografica e politica dell’Impero romano.
Chi scrive non ignora quanto duro sia stato per secoli lo sfruttamento del lavoro e dell’intelligenza contadina attraverso il patto mezzadrile, né quali profonde contraddizioni economiche e sociali, e quali vicende di emarginazione e di miseria, fossero spesso sottese alla serena armonia ed alla consolante dolcezza di questo paesaggio agrario. Perciò nulla da rimpiangere se la modificazione e il superamento di mortificanti rapporti sociali nelle campagne, l’aspirazione almeno parzialmente esaudita a livelli e modi di vita più umani, e la modernizzazione delle tecniche colturali ha liberato in questi ultimi anni tanti uomini e tante energie dalla secolare schiavitù di un lavoro durissimo, mal retribuito e persino disprezzato.
Il problema da porsi è, invece, quello di non trasformare questa occasione di crescita economica e sociale nell’avventata e incontrollata distruzione di un delicato e fragile equilibrio, costruito lungo l’arco di un millennio e che è indispensabile conservare nell’interesse di una più razionale agricoltura e di una utilizzazione economicamente più corretta delle risorse. Purtroppo, invece, le conseguenze di ben noti processi in atto, quali — per citare i più evidenti — il rapido spopolamento della montagna e dell’alta collina, e la congestione di insediamenti abitativi e produttivi lungo la fascia costiera e nei fondovalle, non stanno sfociando soltanto nella naturalizzazione delle aree di montagna, nella deruralizzazione di vaste fasce collinari, e nella crescita disordinata e casuale dei centri abitati, ma, in mancanza di ogni controllo pubblico e di una sensibilità collettiva, stanno ponendo le premesse di uno sfacelo geomorfologico di enormi proporzioni.
Anche il più disattento osservatore, percorrendo le strade della regione marchigiana, non può non notare anzitutto l’infittirsi, sui fianchi delle montagne, nei letti dei fiumi e a ridosso delle spiagge, di cave di materiale (pietre, breccia, sabbia), che non solo aprono profonde e deturpanti ferite in paesaggi di grande suggestione (Conero, Gola della Rossa, Arcevia, ecc.), ma pongono le premesse di ulteriori fenomeni di degrado. Ugualmente vistoso è l’infoltirsi e l’inselvatichirsi della vegetazione abbandonata a se stessa lungo fossati, ruscelli e fiumi, che ne risultano almeno parzialmente ostruiti con non trascurabili pericoli per il regolare deflusso delle acque.
Ben più grave è però quanto sta verificandosi sull’intera superficie agraria, cioè su un’area che copre almeno i due terzi della regione, con l’abbattimento sistematico della copertura arborea ed arbustiva: quasi scomparso è ormai il gelso, rare stanno diventando le querce, mentre sia le siepi vive che i filari, le alberate e le folignate, forme tipiche, fino a ieri, della nostra viticoltura, sono ovunque spiantati per facilitare l’impiego delle macchine o sopravvivono, ormai inselvatichiti e improduttivi, quasi soltanto nelle aree deruralizzate.
La policoltura, legata all’autosufficienza del podere mezzadrile, sta dunque scomparendo, sconfitta dallo spopolamento delle campagne, dal progressivo ritrarsi della mezzadria e, soprattutto, dall’espansione dell’azienda capitalistica. Ma questo vale anche nei minuscoli appezzamenti di coltivatori diretti, costretti, se vogliono ricavare qualcosa dalla terra, a lavorarla sempre tutta, anche quando la giacitura del fondo lo sconsiglierebbe. L’invito che rivolgiamo è quello di meditare sui modi di questa espansione sregolata perché, nonostante si avvalga quasi sempre di capitali forniti dalla collettività, è mossa unicamente dalla logica del profitto aziendale calcolato sui tempi brevi e trascura completamente le implicazioni sociali del proprio operato.
Le profonde arature collinari lungo le linee di massima pendenza e su grandi e piccole superfici, con l’eliminazione totale delle scoline trasversali, ripropongono, centupliciìti dalla potenza degli attuali mezzi meccanici, i danni irreparabili delle lavorazioni « a ritocchino a. Un tecnico agricolo, nel recente convegno di Ascoli Piceno su « Cultura agricola e urbana nel Piceno dopo l’Unità a, ha calcolato con credibile approssimazione che in conseguenza di queste tecniche aratorie si avrebbe un asporto annuo di humus di almeno 900 grammi per metro quadrato, con una corsa rapidissima verso il totale esaurimento della fertilità naturale, certo non recuperabile con il sempre più intenso uso di concimi chimici. Aggiungiamo a questa prima constatazione l’abnorme estensione delle colture di mais e di barbabietole, che lasciano quasi del tutto indifeso il suolo su cui insistono, l’abuso del ristoppio per la ricerca esasperata di profitti immediati (con la conseguente eliminazione degli erbai pluriennali più resistenti al dilavamento) ed infine l’espansione, soprattutto nelle aree di alta collina, del vigneto specializzato a filari molto distanziati e diserbati chimicamente, che non oppongono quasi nessun freno allo scorrimento delle acque piovane ed avremo un quadro abbastanza chiaramente delineato degli equilibri secolari che si stanno rapidamente alterando con conseguenze che, senza tema di esagerare, potranno ben presto risultare catastrofiche.
Sono infatti sotto gli occhi di tutti il rapido intensificarsi su tutta la collina marchigiana delle erosioni, degli smottamenti, delle frane e la formazione di calanchi che non toccano più soltanto le porzioni pur vaste di suolo argilloso, ma st estendono ormai anche ai più solidi terreni agrari.
Su questi temi, qui appena accennati, proponiamo di organizzare un incontro al quale prendano parte e portino congiuntamente il proprio contributo di cultura e di esperienza, accanto agli studiosi di storia dell’agricoltura, tecnici agrari qualificati, imprenditori agricoli ed esponenti politici, perché siamo convinti che fenomeni della vastità e dell’intensità di quelli qui segnalati riguardano l’intera collettività e richiedono con sollecitudine la meditazione di tutti.
Sergio Anselmi, Gianluigi Mazzufferi, Renzo Paci, Ercole Sori
da Proposte e Ricerche, (a cura della Sezione di storia dell’agricoltura e della società rurale del Centro dei Beni Culturali dell’Università di Urbino) n°1, pp.103-107, Urbino, 1978.
Inizio di smottamenti su una collina argillosa completamente disalberata
Processo avanzato di degradazione del suolo agrario nella collina marchigiana
Demolizione di una «folignata», forma caratteristica e antica della viticultura nell’Umbria e nelle Marche
Estesi vigneti industriali, di recente impianto, accanto ad un oliveto tradizionale (a sinistra) ed a seminativi nudi (a destra)
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