Soldati dell’IDF (Israel Defence Force)
Le scolaresche sono appena uscite dalle classi e affollano i locali nelle piazze, dove possono mangiare pizza, falafel e shawarma. I turisti passano loro accanto, affollando gli spazi angusti delle vie della città vecchia e fotografano tutto quello che possono.
Sono scene di vita normale. Ma non stiamo parlando di una città “normale”: questa è Gerusalemme. E la pace che si può vedere per le strade, la serenità nei volti della gente, è un qualcosa di straordinario. “Siamo molto diversi da come ci descrivono i media in Europa” ci conferma Giordana Roseman, un’ebrea romana che lavora nell’ufficio europeo del ministero del Turismo. “Il turismo negli ultimi mesi ha avuto un incremento del 71%. La gente è naturalmente attratta da questo Paese: offre tutto in così poco spazio. E adesso che sanno che viviamo una vita normale, che non siamo un Paese in guerra, vengono in massa”.
Siamo molto lontani dagli stereotipi e dalle esperienze vissute nel corso della seconda Intifadah: militari dappertutto, metal detector all’ingresso dei locali, volti tesi, pochi assembramenti nei luoghi pubblici per paura di attentatori suicidi… non si vede niente di tutto questo. Eppure questa pace non è il frutto di un trattato. E’ una condizione che resiste perché è garantita dalla forza, una forza praticamente invisibile ma presente dappertutto.
Quando ci sono scolaresche o gruppi di turisti, c’è sempre un ragazzo che ha l’aspetto di un qualsiasi studente che possiamo trovare all’uscita dell’università. E’ un ragazzo armato, con un vecchio fucile a tracolla, un’arma con il calcio in legno e un caricatore dall’aspetto primitivo che probabilmente ha visto la I Guerra arabo-israeliana del 1948-49. “Fa più male se lo tiri in testa” ci dice uno di loro, ridendo. Non sono certo dotati del meglio della tecnologia di cui può essere dotata la Forza di difesa israeliana, ma i ragazzi che abbiamo incontrato e con cui abbiamo parlato, pur avendo un aspetto pacifico e una gran voglia di chiacchierare, hanno tutti un passato di duro addestramento nei corpi speciali. “Ero paracadutista, ho appena finito il servizio militare e adesso faccio la guardia a lei”, ci dice uno di loro, indicandoci una bella ragazza bionda che gli siede accanto. Un ebreo ucraino immigrato subito dopo il collasso dell’Urss, ha fatto 3 anni nei paracadutisti. “Finito il militare, ho deciso di prendermi un anno di pausa e così ho pensato di rendermi utile alla comunità” ci spiega, per farci capire il perché di questa scelta. Il ministero della Difesa impone questo servizio: almeno un uomo armato per ogni scolaresca. Ma a gestirlo sono agenzie private. L’ucraino ci confida di guadagnare 5000 shekel al mese, circa 1000 euro, un po’ come quelli che decidono di fare il servizio civile volontari da noi.
Le guardie armate non sono l’unica difesa. Sono l’ultima barriera. L’esercito non è così presente come si dice, ma c’è. Si vedono soldati e soldatesse in giro per le strade, tranquilli come se fossero studenti del liceo in gita scolastica. Le ragazze portano la loro borsetta a tracolla, al fianco del fucile d’ordinanza. A volte “fraternizzano” con il loro ragazzo, anch’egli in divisa: il concetto di “civile in armi”, tipico di tutti gli eserciti di milizia, è lì da vedere. Questi ragazzi non hanno niente di marziale, non incutono alcun timore nella gente che li approccia, non prendono le distanze. “La mia presenza serve?” si chiede una ragazza-soldato che è appena tornata da turni di pattuglia in città “Certo che serve: vedere un militare su un autobus, per chi ha cattive intenzioni, è sempre un deterrente forte, un invito a pensarci due volte prima di fare qualche porcata”. Già, gli autobus: erano trappole mortali durante la seconda Intifadah. Le famiglie mandavano i bambini su mezzi diversi, per non perderli tutti in un unico attentato. Ora la gente li attende e li prende normalmente, senza paura.
Merito dell’esercito? Sì e della barriera difensiva. Che possiamo vedere nel tratto che passa a Sud di Gerusalemme, per tenere lontani i palestinesi di Betlemme: da lì partivano regolarmente fucilate contro le case del sobborgo di Gilo e contro i bambini che andavano a scuola. E da quelle case palestinesi, al di là della collina, uscivano i terroristi suicidi, quelli che si sono macchiati di 1200 omicidi di civili israeliani inermi. Ora che c’è la barriera e l’Idf ha dimostrato di poter rispondere colpo su colpo, non escono più terroristi e non sparano più i cecchini. Da due anni, con pochissime eccezioni. In Europa si è protestato contro il “muro dell’apartheid”. Visto da qui a Gerusalemme è solo una barriera che ci consente di mangiare i falafel senza aver paura di saltare in aria da un momento all’altro.
La barriera difensiva di fronte a Betlemme
(Stefano Magni è giornalista de L’Opinione ed ha condiviso con noi di Popinga il recente viaggio in Israele. Questo articolo è comparso su L’Opinione, edizione 109 del 31/05/2008. Le foto sono di Marco Scaloni e Gianluigi Mazzufferi)
questa non è pace armata, questa è sottomissione della Palestina: la vera pace armata non ha ne oppressi ne oppressori.