«Maroni dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interno. Gli universitari? Lasciarli fare. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale».
(Francesco Cossiga sulle proteste nella scuola contro il decreto Gelmini, 23/10/2008)
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Giorgiana Masi, trent’anni dopo
Questa vignetta di Forattini riassume meglio d’ogni altra cosa quel 12 maggio ‘77.
Il fatto che in trent’anni non si sia stati capaci di una verità storica e politica la dice lunga sulla coscienza civile di questo Paese. Un Paese di smemorati, che non fa i conti con la propria storia, è destinato a riviverne i momenti peggiori.
E chi, invece, dei momenti peggiori conosce la verità, è destinato a farla franca: può permettersi di parlar d’altro, perfino di mentire, tanto nessuno gli chiederà conto di nulla.
Giorgiana Masi: la verità di Cossiga
Non è la prima volta che l’ex presidente della Repubblica torna sugli avvenimenti del 12 maggio ’77, che visse da ministro degli Interni. Lo aveva già fatto un paio d’anni fa, nell’aprile 2003, in un’intervista alla trasmissione Report di RAI3, dicendo:
«Non l’ho mai detto all’autorità giudiziaria e non lo dirò mai, è un dubbio che un magistrato e funzionari di polizia mi insinuarono. Se avessi preso per buono ciò che mi avevano detto sarebbe stata una cosa tragica. Ecco, io credo che questo non lo dirò mai se mi dovessero chiamare davanti all’autorità giudiziaria, perché sarebbe una cosa molto dolorosa».
Stavolta è stato meno criptico, ma lo stile è inconfondibile. Dopo 28 anni, pare che il dubbio di cui parla Cossiga sia questo: a uccidere Giorgiana Masi sarebbe stato un «colpo vagante sparato da dimostranti, forse suoi compagni ed amici con i quali si trovava, contro le forze dell’ordine». Fuoco “amico”, dunque.
Dopo tanto tempo, un’affermazione del genere vale quanto il suo contrario, anche perché la fonte citata da Cossiga è a prova di smentita: il prefetto Fernando Masone, all’epoca capo della squadra mobile di Roma, è morto qualche anno fa.
Numerosi, concordanti e gravissimi sono invece gli elementi che fanno propendere per una ricostruzione un po’ diversa.
In ogni caso, ciò che dice Cossiga, se anche fosse vero, sposterebbe di pochissimo i termini della questione.
Giorgiana Masi fu colpita a morte alle 8 di sera, dopo un intero pomeriggio in cui nel centro di Roma le forze dell’ordine cercarono pervicacemente, rabbiosamente, scientificamente una strage. Chi le autorizzò? E qual era lo scopo? La verità sull’episodio isolato (oserei dire marginale) di ponte Garibaldi non può prescindere dalla verità su tutto ciò che accadde quel 12 maggio.
La dichiarazione di Cossiga – questa come tante altre – resta sospesa a mezz’aria: dà un contributo nullo alla ricerca della verità, non coinvolge responsabilità, non inguaia nessuno. Fa solo intendere che lui sa più di quanto dice.
Ma stiano pure tutti tranquilli: lui non lo dirà mai, perché sarebbe una cosa molto dolorosa. Appunto.
Giorgiana Masi, una strage di verità
«A Giorgiana Masi, 19 anni, uccisa il 12 maggio 1977 dalla violenza del regime» è dedicata la lapide che ancor oggi si può vedere a Roma svoltando su ponte Garibaldi, da Trastevere verso il Ghetto. Sta lì a testimoniare avvenimenti lontani e quasi dimenticati, che pure fanno parte della nostra storia e anzi ne rappresentano uno dei momenti più torbidi.
Il contesto
Nella seconda metà degli anni Settanta, l’Italia vive il “compromesso storico”. Alle elezioni politiche del giugno ’76 il Partito Comunista è al massimo storico e sfiora il sorpasso sulla Democrazia Cristiana: i due partiti raccolgono da soli quasi i tre quarti dei voti. La prospettiva di un accordo politico, che ha Aldo Moro come artefice e a cui anche Berlinguer ammicca sin dal ’73, diventa concreta: il terzo governo Andreotti (detto della “non sfiducia”) è un monocolore DC che gode per la prima volta da trent’anni dell’astensione del PCI.
Alla crisi economica e sociale si risponde con l’unità tra i partiti del cosiddetto arco costituzionale; al terrorismo e alla diffusa violenza di matrice politica si oppongono una legislazione repressiva e provvedimenti d’emergenza. Dal ’75 è in vigore la “legge Reale”, che estende i termini della carcerazione preventiva, dà facoltà alle forze dell’ordine di arrestare cittadini in base al sospetto che stiano per compiere un reato, autorizza perquisizioni senza mandato della magistratura, prevede la possibilità di 48 ore di fermo di polizia senza la convalida del magistrato. Il ’76 ha fatto registrare il picco degli episodi di violenza politica (1198, con 14 morti e 10 feriti); il ’77 sembra avviato sulla stessa strada, e alla fine batterà il record (2128 episodi, con 17 morti e 45 feriti).
In un clima già pesante e avvelenato da recenti fatti di sangue a Milano e Bologna, il 21 aprile ’77 l’occupazione delle università romane contro la riforma Malfatti degenera in violenti scontri tra polizia e autonomi, con feriti da ambo le parti e l’agente Settimio Passamonti ucciso da una P38.
Il vaso trabocca. «Deve finire il tempo dei figli dei contadini meridionali uccisi dai figli della borghesia romana», dichiara il ministro dell’Interno Francesco Cossiga, e con un decreto-legge dà mandato al prefetto di Roma di vietare ogni manifestazione pubblica nel Lazio per tutto il mese di maggio.
Il decreto è palesemente illegale, anche perché si richiama ad un articolo di una legge fascista del ’31 già dichiarato incostituzionale nel ’61. Il Governo può limitare a scopo preventivo il diritto di pubblica e pacifica riunione, ma solo “per comprovati motivi di sicurezza e incolumità pubblica” (art. 17 della Costituzione), da valutare caso per caso e non indiscriminatamente.
Il 18 maggio ’77 l’ex presidente della Corte Costituzionale Giuseppe Branca scriverà:
«Non voglio credere che […] Cossiga abbia detto […] che il divieto è legittimo perché qualunque manifestazione di piazza, anche la più pacifica, può degenerare […]. È una motivazione che uccide la democrazia: infatti quella possibilità di degenerazione, per interventi esterni, c’è oggi come ci sarà domani». [Questa logica] «condurrebbe a prolungare in perpetuo il divieto o a rinnovarlo a ogni scadenza: in parole povere ad annullare il diritto costituzionale di riunione in luogo pubblico. È come se il governo vietasse le strette di mano perché potrebbero, non si sa mai, diffondere le malattie. Con questa filosofia possono essere annullati i principali diritti del cittadino».
Il decreto Cossiga, da lui stesso definito un «bando militare extra legem», fa ormai scuola nel vero senso della parola: testi universitari di diritto lo citano ad esempio di provvedimento incostituzionale.
Gli avvenimenti del 12 maggio ’77
Nel periodo di divieto cade il terzo anniversario del referendum sul divorzio, il 12 maggio. La manifestazione celebrativa, convocata in Piazza Navona dal Partito Radicale e dai vincitori del ’74, non viene annullata: è un atto di disobbedienza civile al decreto Cossiga. Giusta o sbagliata che sia la mossa dei radicali, la manifestazione neppure comincerà.
Già alle ore 13 gli ingressi a Piazza Navona sono sbarrati da cordoni di militari in assetto antisommossa, e davanti al Senato iniziano le prime cariche: vengono spintonati e picchiati manifestanti, giornalisti, fotografi, parlamentari, ma anche gente comune e passanti diretti in piazza. Il clima inizia a surriscaldarsi e i disordini si espandono al centro storico di Roma. In piazza della Cancelleria si notano per la prima volta uomini in borghese, vestiti da autonomi e armati di pistole e spranghe, apparentemente in buoni rapporti con poliziotti e carabinieri.
In assenza di provocazione, la forza pubblica spara candelotti lacrimogeni, a decine, anche ad altezza d’uomo. In mezzo al fumo, parecchi testimoni sentono colpi d’arma da fuoco. Tra gli agenti si diffonde la voce (falsa) che ci siano già due morti.
Le cariche spingono i manifestanti oltre il fiume, verso Trastevere; nel tardo pomeriggio carabinieri e polizia arrivano nella zona del Ghetto, mentre parecchia gente finisce in piazza Belli, oltre ponte Garibaldi. Ancora qualche minuto, e col buio ognuno sarebbe tornato a casa. Invece verso le otto di sera i blindati della polizia avanzano, e all’improvviso cominciano a sparare lacrimogeni. Rapidamente oltrepassano metà del ponte, in direzione Trastevere. Tra di essi, agenti in divisa e in borghese. In mezzo ai candelotti si sentono colpi di pistola. Giorgiana Masi, una studentessa diciannovenne appartenente ad un collettivo femminista, è in mezzo alla folla sul lato opposto, in piazza Belli. Si volta per scappare, come gli altri, ma fa solo pochi passi: la vedono cadere di schianto, a braccia in avanti, la testa verso Trastevere e i piedi verso il ponte. Pensano che sia inciampata, ma non si rialza. La soccorrono, ma è agonizzante e in ospedale arriva già morta. Poco più in là cade ferita un’altra ragazza, la trentaduenne Elena Ascione. Alla fine della giornata si conteranno decine di feriti tra manifestanti e passanti, e un ferito tra i carabinieri.
Roma, 12 maggio ’77: poliziotti travestiti da autonomi in mezzo alle truppe
Le menzogne
Chi ha sparato? La verità dei fatti, come vedremo, resterà nascosta; in compenso, quasi per contrasto, subito fioccano le menzogne. E si tratta di menzogne così palesi da delineare, se non proprio la verità, almeno un’“ombra” di verità.
Il giorno dopo, 13 maggio, Cossiga riferisce alla Camera e parla di «gravi atti di aggressione allo Stato», addossando tutta la responsabilità ai manifestanti. Riceve in questo il pieno appoggio della maggioranza e soprattutto del PCI, con Antonello Trombadori e Ugo Pecchioli in prima fila. Sullo specifico episodio di ponte Garibaldi, il ministro accredita che Giorgiana Masi sia stata colpita all’addome, cioè da Trastevere dov’erano i manifestanti. L’autopsia stabilirà invece che il colpo mortale è arrivato alla schiena, ossia da ponte Garibaldi dove in quel momento erano solo polizia e carabinieri.
Il 14 maggio il Governo dichiara alla stampa che durante gli incidenti non c’erano agenti in borghese, contrariamente a quanto notato da molti testimoni; il 15 che gli agenti in borghese c’erano ma non erano armati; il 16 che erano armati ma non avevano sparato; il 17, infine, che nessuno aveva sparato. Ancora il 24 ottobre ‘77 il sottosegretario all’Interno Nicola Lettieri, negando l’evidenza, mente clamorosamente davanti al Parlamento, sostenendo che «gli agenti di polizia erano dotati non già di armi non regolamentari, bensì delle pistole di ordinanza» e che «non fecero uso di armi da fuoco, salvo che dei mezzi per il lancio di candelotti lacrimogeni».
Decine di testimonianze, centinaia di foto e due filmati amatoriali dimostrano il contrario: nel pomeriggio del 12 maggio – anche prima dell’episodio fatale ed anche altrove – le forze dell’ordine hanno sparato ripetutamente e ad altezza d’uomo, anche con armi non d’ordinanza, avendo cura di raccogliere i bossoli per eliminare le prove. È documentata la presenza nel centro di Roma, tra Piazza S. Pantaleo, Campo de’ Fiori e Piazza della Cancelleria, di agenti in borghese, travestiti da autonomi e armati di pistole, spranghe, sampietrini e tondini di ferro. Uno dei travestiti, l’agente di P.S. Giovanni Santone – capelli lunghi, jeans e maglietta – comparirà anche sui giornali e diverrà uno dei simboli mediatici di quella giornata.
Dalle trascrizioni delle comunicazioni radio tra la questura e i funzionari che operavano quel giorno vicino a ponte Garibaldi emergono altri elementi. Un funzionario, rimasto ignoto perché nessuno l’ha voluto identificare, ordina di usare le armi: «Stronzo, figlio di puttana, fai sparare».
Roma, 12 maggio ’77: poliziotti in borghese con armi non regolamentari
Una verità inconfessabile
Una miriade di prove diverse, precise e concordanti dimostra che per tutto il pomeriggio del 12 maggio la forza pubblica nel centro di Roma ha ricevuto l’ordine di sparare e cercare il morto, l’incidente clamoroso. In tale scenario, l’omicidio di Giorgiana Masi cessa di essere un fatto isolato e diventa il tragico epilogo di una giornata che sarebbe potuta finire anche peggio.
Dal questore di Roma Domenico Migliorini, passando per il sottosegretario Lettieri, per finire al ministro Cossiga, tutto l’apparato del Viminale ha mentito all’opinione pubblica e al Parlamento per coprire i responsabili dell’omicidio e – più in generale – i mandanti di quella che si configura come una tentata strage.
Alcuni interrogativi si impongono.
Cosa sarebbe accaduto se un agente travestito, con pistole e armi fuori ordinanza, fosse stato ammazzato dai colleghi perché “autonomo” d’aspetto? O se egli stesso avesse ucciso dei colleghi per errore? Contravvenendo deliberatamente a leggi, norme e regolamenti di pubblica sicurezza, dove si voleva arrivare?
Qualche morto era bastato a Cossiga per sospendere a Roma, per 45 giorni, il diritto costituzionale di manifestare: come si sarebbe reagito il 12 maggio, se i morti fossero stati tanti (una strage “ben riuscita”, insomma)? Col pretesto dell’emergenza si sarebbero sospesi alcuni diritti civili in tutt’Italia, magari col benestare del PCI? E per quale inconfessabile strategia politica? Fare dell’asse DC-PCI, anche a costo di un’involuzione autoritaria, l’unica risposta alle BR e alle P38?
Domande che ovviamente rimarranno senza una risposta, politica ancor prima che storica.
Il questore Migliorini si dimette il 23 dicembre ’77 dichiarando di aver sempre preventivamente e successivamente informato i suoi superiori (il prefetto Giuseppe Parlato e il ministro Cossiga) e ottenuto da questi il pieno consenso per le misure da lui assunte a tutela dell’ordine pubblico, in particolare riguardo ai fatti del 12 maggio. Chiamando in causa prefetto e ministro, riporta dunque la questione sul piano delle responsabilità politiche, che hanno nomi e cognomi.
Nessuna azione sarà intrapresa a livello parlamentare. Le richieste di una commissione d’inchiesta cadranno nel vuoto: meglio non indagare.
Mancherà anche una verità processuale sull’omicidio. Il 15 gennaio ’79 il pubblico ministero Giorgio Santacroce (lo stesso che indagherà a caldo su Ustica) chiede l’archiviazione essendo rimasti ignoti gli autori dei fatti.
Effettivamente i colpevoli di un reato, se non si cercano, non si trovano. Poiché dai verbali di ispezione delle armi, redatti da carabinieri e polizia la sera stessa del 12 maggio, non risultano richieste di «colpi a reintegro di quelli eventualmente mancanti», il magistrato disinvoltamente deduce che le forze dell’ordine non hanno sparato. Nessun funzionario o capo reparto presente su ponte Garibaldi viene interrogato, nessun altro accertamento è ritenuto necessario e ci si accontenta delle dichiarazioni della questura. Il 9 maggio ’81 il giudice istruttore Claudio D’Angelo stabilisce che non si debba procedere. Il caso è chiuso.
Dopo quasi trent’anni la verità, che dovrebbe essere un patrimonio comune e il momento della giustizia per le vittime, è ancora velata. Si continua ad intravederne l’ombra. Sempre che qualcuno, prima o poi, non abbia l’onestà e il coraggio di accendere la luce.
* * *
Se la rivoluzione d’ottobre
fosse stata di maggio,
se tu vivessi ancora,
se io non fossi impotente
di fronte al tuo assassinio,
se la mia penna fosse un’arma vincente,
se la mia paura esplodesse nelle piazze ,
coraggio nato dalla rabbia strozzata in gola,
se l’averti conosciuta diventasse la nostra forza,
se i fiori che abbiamo regalato alla tua coraggiosa vita
nella nostra morte diventassero ghirlande
della lotta di noi tutte, donne,
se…
non sarebbero le parole a cercare d’affermare la vita
ma la vita stessa, senza aggiungere altro.
(Lapide in ricordo di Giorgiana Masi, su Ponte Garibaldi a Roma)
Per approfondire
- Giorgiana Masi: scheda su Wikipedia.
- “Cronaca di una strage”, libro bianco a cura del Centro di iniziativa giuridica “Piero Calamandrei”, I edizione aprile 1979.
- Atti parlamentari della Camera dei Deputati (VII legislatura), resoconti stenografici delle sedute del 24/10/1977 e 28/11/1977 (risposte ad interpellanze).
- Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 06/11/1997, 28/01/1998 e 18/02/1998.
- Sergio Flamigni, “Convergenze parallele”, Kaos 1998
- Giovanni Fasanella e Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000.