Verso la metà degli anni Venti, all’Università di Padova, il biologo Umberto D’Ancona studiava le variazioni delle popolazioni di varie specie di pesce che interagiscono l’una con l’altra. Nel corso di queste ricerche, si imbatté nei dati sulle percentuali di pesca di varie specie in diversi porti dell’Adriatico nel corso della prima guerra mondiale.
I dati del porto di Fiume, negli anni 1914-1923, testimoniavano una crescita anomala dei selaci (pesci poco interessanti come cibo: piccoli squali, razze, ecc.), fino al 36% in più degli anni precedenti. Ciò era tanto più curioso in quanto, negli stessi anni, la proliferazione di altre specie di pesce (soprattutto commestibili) era stata molto meno vigorosa.
La prima spiegazione che D’Ancona tentò si appoggiava su un paio d’osservazioni. Innanzitutto, ciò che distingue i selaci dai pesci commestibili è che i selaci sono predatori mentre gli altri pesci sono le loro prede. In secondo luogo, la diminuzione dell’attività di pesca durante la guerra poteva aver fatto crescere le specie commestibili e quindi aumentare il cibo per i predatori. Il ragionamento, però, reggeva solo in parte: non dava conto, ad esempio, del perché la riduzione della pesca avesse giovato molto di più ai predatori che alle prede.
Dopo aver esaurito le possibili spiegazioni, D’Ancona – è il caso di dirlo – non sapeva più che pesci pigliare. Si rivolse allora al suocero, il matematico anconetano Vito Volterra, nella speranza che questi sarebbe riuscito ad inquadrare il problema entro un modello matematico.
A quell’epoca Volterra, quasi settantenne, preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e membro dell’Accademia dei Lincei, era una delle personalità di spicco – forse la più autorevole – del panorama scientifico italiano.
Iniziò a lavorare al problema del genero, suddividendo i pesci in due categorie: le prede e i predatori. Ipotizzò che le prede, a differenza dei predatori, non competono intensamente fra loro nella ricerca di cibo, poiché questo è abbondante rispetto alla loro popolazione. Allora, in che modo varia nel tempo il loro numero? Il tasso di crescita delle prede è proporzionale al loro numero, secondo una costante di proporzionalità che tiene conto anche della mortalità. Il tasso di decrescita dipende invece da tre fattori: la mortalità naturale, ad un tasso proporzionale al numero di prede; la presenza dei predatori, che provocano una diminuzione del numero delle prede ad un tasso proporzionale al numero di contatti per unità di tempo tra i primi e i secondi; la pesca, che diminuisce le prede ad un tasso ancora proporzionale al loro numero.
Un discorso speculare si può fare per i predatori, che però competono fra loro nella ricerca delle prede: essi hanno un tasso naturale di decrescita (mortalità) proporzionale al loro numero ed un tasso di crescita proporzionale al numero di incontri con le prede nell’unità di tempo.
Con queste assunzioni, Volterra mostrò che le popolazioni delle prede e dei predatori si sviluppano in maniera interdipendente, e la loro evoluzione presenta situazioni di equilibrio. Il risultato sorprendente era che un aumento moderato della pesca ha effetti benefici sulla popolazione delle prede mentre provoca una diminuzione dei predatori. Viceversa, la riduzione della pesca (com’era avvenuto durante la prima guerra mondiale) provoca una proliferazione dei predatori e una diminuzione del pesce commestibile. Questo risultato, non del tutto intuitivo, si accordava con i dati sperimentali e rispondeva ai quesiti di D’Ancona. (vedi paragrafo sottostante).
Le leggi di Volterra si sono dimostrate efficaci nel descrivere molte altre situazioni di competizione naturale tra prede e predatori. Si applicano, ad esempio, al trattamento con gli insetticidi, che distruggono sia gli insetti predatori che i predati: l’uso degli insetticidi determina una crescita di quegli insetti la cui popolazione è tenuta sotto controllo da insetti predatori. Una conferma viene da un insetto (Icerya purchasi) che, quando fu introdotto per caso in America dall’Australia nel 1868, minacciò di distruggere le coltivazioni di agrumi. Come rimedio, fu importato il suo naturale predatore australiano, una coccinella (Novius cardinalis) che causò una riduzione del numero di Iceryae. Quando si scoprì che il DDT poteva distruggere le Iceryae, gli agricoltori lo usarono subito, convinti di poterle sterminare definitivamente. Invece, in accordo con il principio di Volterra, l’effetto fu un aumento dei parassiti.
Continuando gli studi sulle dinamiche delle popolazioni biologiche e i rapporti tra prede e predatori, Volterra estese l’analisi alla competizione tra più specie di predatori quando essi condividono la stessa risorsa o preda. Il modello matematico che sviluppò lo portò ad enunciare il cosiddetto principio di esclusione competitiva: quando due specie competono nello stesso ambiente per la medesima risorsa, una delle due è destinata all’estinzione. In altre parole, non esistono stati di equilibrio stabile in cui entrambe le popolazioni di predatori convivano nutrendosi della stessa preda (vedi paragrafo sottostante).
Nati in un ambito assai circoscritto e in risposta ad un problema puntuale, i modelli matematici di Volterra hanno validità del tutto generale, ben al di là dei confini della biologia. La loro potenza e versatilità rappresentano un esempio di ciò che Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963, ha definito la irragionevole efficacia della matematica nelle applicazioni scientifiche. Solo una minima parte dei fenomeni naturali, infatti, si lascia descrivere matematicamente, e solo in condizioni molto speciali; è dunque incredibile che, quando una descrizione è comunque possibile, lo sia non in maniera soltanto approssimata, bensì con un grado d’accuratezza ed una profondità spropositati.
Ma forse neppure Volterra avrebbe immaginato quale spettacolare applicazione le sue leggi avrebbero avuto pochi decenni più tardi, in un contesto lontanissimo e inaspettato.
Guarda chi si rivede…!
Alla fine degli anni Quaranta il fisico statunitense Charles Townes cercava di utilizzare le onde elettromagnetiche per studiare la struttura delle molecole. Viste le dimensioni microscopiche degli oggetti da indagare, la radiazione doveva avere una piccolissima lunghezza d’onda (ossia una frequenza altissima) ed essere molto “pulita”. Aiutato dal suo allievo Gordon Gould, Townes si ricordò di vecchi lavori di Albert Einstein del 1917 sull’emissione stimolata di radiazione, per cui è possibile indurre un atomo ad emettere radiazione investendolo con una radiazione identica. Se si fosse riusciti a costruire un dispositivo in grado di imbrigliare e contenere la radiazione così prodotta – pensava Townes – il gioco era fatto: la radiazione si sarebbe autorigenerata e amplificata, con un effetto a catena. Nasceva così l’idea del LASER (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, se la radiazione è luminosa) ovvero MASER (Microwave ASER, nella versione a microonde). Nel frattempo, oltrecortina, i fisici sovietici Nicolaij Basov e Aleksandr Prokhorov stavano ottenendo risultati simili. Townes, Basov e Prokhorov vinsero nel ’67 il premio Nobel per l’elaborazione teorica del laser, quando già se ne cominciavano a vedere i vastissimi campi d’applicazione. Oggi il laser è utilizzato un po’ ovunque: dall’ottica alla medicina, dall’astronomia alle telecomunicazioni, dalla biologia all’archeologia; con la diffusione di lettori CD e DVD, è entrato persino negli elettrodomestici di uso quotidiano.
Come suggerisce il nome, il dispositivo (in sostanza un “wafer” di materiali semiconduttori, con due specchietti semiriflettenti alle estremità) è capace di creare, amplificare ed emettere un fascio luminoso quando gli viene iniettata una corrente elettrica che può essere vista come l’alimentazione.
La luce del laser, però, non è luce qualsiasi. Le comuni sorgenti, come il Sole o una lampadina, generano luce estremamente incoerente e “disordinata”, con una banda di frequenza larghissima, una fase e una polarizzazione casuali. Il laser invece è in grado di produrre un segnale luminoso coerente e “ordinato”: cioè con una banda di frequenza strettissima, una stessa polarizzazione e una stessa fase. Come ci riesce? Vediamo.
In estrema sintesi, la luce è composta da pacchetti o quanti di energia, chiamati fotoni. La sua intensità dipende dal numero di fotoni trasmessi in un certo tempo; la sua fase e polarizzazione variano con la fase e la polarizzazione di ciascun fotone trasmesso. Per quanto detto, il laser è capace di sfruttare una corrente elettrica (leggasi: popolazione di elettroni) per generare una luce (leggasi: popolazione di fotoni) avente speciali caratteristiche (la medesima frequenza, polarizzazione e fase). Una torcia elettrica, invece, sfrutta la stessa corrente elettrica ma genera luce incoerente e caotica, ossia popolazioni di fotoni completamente diverse l’una dall’altra per frequenza, polarizzazione e fase.
Sembra che nel laser una certa popolazione di predatori (fotoni), riuscendo a sfruttare il cibo disponibile (gli elettroni) meglio di qualunque altra, alla fine risulti vincente e abbia il sopravvento.
In che modo, dunque, il laser riesce a produrre e selezionare fotoni di un certo tipo? Semplice: obbedendo alle leggi di Volterra. Ciò che descriveva le dinamiche delle popolazioni di pesci continua incredibilmente ad essere valido in un contesto completamente diverso. Formalmente nulla cambia, salvo che ora sono gli elettroni a svolgere il ruolo di prede, e i fotoni quello di predatori. Il tempo di vita dei fotoni è inferiore (circa 1/1000) al tempo di vita degli elettroni: le leggi di Volterra prevedono allora che la popolazione dei fotoni (predatori) deve aumentare a scapito di quella degli elettroni (prede).
Il principio di esclusione competitiva ci dice dell’altro. Tra tutte le possibili popolazioni di predatori (fotoni) che competono per la stessa risorsa (elettroni), una sola ha successo: quella che meglio si adatta all’ambiente (la struttura del dispositivo laser) e riesce a sfruttarne le risorse per proliferare. Basta un piccolo vantaggio iniziale, e poi la selezione naturale farà il resto. Alla fine, la popolazione vincente sarà composta da individui (fotoni) della stessa “specie”, cioè aventi la stessa frequenza, polarizzazione e fase. Dunque, il fascio luminoso prodotto sarà preciso, “coerente” e pulito.
Un semplice modello di interazione preda-predatore
Detto x il numero di prede e y quello dei predatori, i tassi di variazione temporale delle rispettive popolazioni si possono esprimere come:
dx/dt = Ax – Bxy
dy/dt = –Cy + Dxy
dove
A è il fattore netto di crescita delle prede, che tiene conto della proliferazione naturale e della decrescita dovuta a fattori esterni come la pesca; nel caso del laser, A esprime l’aumento della popolazione di elettroni (x) dovuta alla corrente iniettata nel dispositivo, e tiene conto del tempo medio di vita degli elettroni;
B è il fattore di decrescita delle prede per la presenza dei predatori; nel caso del laser, esprime l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni (y).
C è il fattore netto di decrescita (naturale e dovuta alla pesca) dei predatori; nel caso del laser esprime la vita media dei fotoni (y).
D è il fattore di crescita dei predatori dovuta all’interazione con le prede, ed esprime l’efficienza di caccia dei predatori; nel caso del laser rappresenta l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni y (sostanzialmente D = B).
Si può dimostrare che il sistema di equazioni presenta due situazioni di equilibrio. Oltre a quella banale (x = y = 0), c’è la:
x = C/D
y = A/B
Un aumento moderato della pesca (A cresce e C decresce) ha dunque benefici effetti sulla popolazione delle prede. Nel caso del laser, siccome la vita media dei fotoni è molto minore della vita media degli elettroni (C << A), i predatori y (fotoni) hanno il sopravvento sulle prede x (elettroni disponibili all’emissione stimolata): l’intensità luminosa ne risulta amplificata.
Il modello di esclusione competitiva
In questo caso si prendono in considerazione due popolazioni di predatori y1 e y2 che competono per la stessa risorsa o preda x.
La popolazione delle prede (risorse) condivise x dipende ovviamente dal numero di predatori y1 e y2. Il tasso di variazione si può scrivere come:
dx/dt = Ax – B1xy1 – B2xy2
Le popolazioni dei predatori variano invece come:
dy1/dt = –C1y1 + D1xy1
dy2/dt = –C2y2 + D2xy2
Sia x(0) la concentrazione iniziale della risorsa; y1(0) e y2(0) le concentrazioni iniziali dei predatori.
I parametri A, B e C hanno significato analogo a quelli definiti per la relazione preda-predatore.
Oltre a quella banale (y1 = y2 = 0), esistono 2 situazioni di equilibrio:
y1 = K1, y2 = 0 con K1 = K1(C1, D1, x(0))
y1 = 0, y2 = K2 con K2 = K2(C2, D2, x(0))
In entrambi i casi, una sola popolazione di predatori sopravvive, l’altra soccombe.
Vito Volterra
Nato ad Ancona il 3 maggio 1860, passò i primi anni a Torino e Firenze, mostrando già una spiccata propensione agli studi scientifici. Nel 1878, grazie all’aiuto del suo professore di fisica Antonio Roiti e di uno zio, l’ingegnere Edoardo Almagià, si iscrisse alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Pisa. L’anno dopo entrò come allievo alla Scuola Normale, dove studiò fisica e matematica. Era laureato solo da pochi mesi quando partecipò ad un concorso per la cattedra di Meccanica Razionale dell’Università di Pisa. Lo vinse e diventò docente: aveva 23 anni. Nell’87 fu promosso ordinario, cinque anni dopo gli venne assegnato l’insegnamento di Fisica Matematica e diventò preside della facoltà di Scienze. Nel ’93 decise di lasciare Pisa per Torino, a coprire la cattedra di Meccanica Superiore. Risalgono a quegli anni alcuni dei suoi lavori più famosi sull’analisi funzionale applicata allo studio di equazioni integrali e differenziali alle derivate parziali. Nel ’99, dopo una serie di prestigiosi riconoscimenti accademici, ottenne la nomina più ambita, quella a socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel 1900 fu chiamato presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e nel 1907 ne divenne preside.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Volterra appoggiò l’intervento italiano e arrivò ad arruolarsi col grado di tenente, mettendo a disposizione dell’esercito le sue capacità tecniche e organizzative.
Contrastò invece apertamente il Fascismo, sin dagli albori. Nel ‘25 fu tra i firmatari del “Manifesto Croce” degli intellettuali antifascisti, e aderì all’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, schierandosi col gruppo dei senatori di opposizione. Il regime non glielo perdonò. Dal ‘26 cominciarono ad arrivargli pressioni e avvertimenti affinché si dimettesse da presidente dell’Accademia dei Lincei, ma i soci lo convinsero a restare. Nel ‘31, però, il governo estese ai professori universitari l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime: Volterra e una decina d’altri (cittadini ebrei ma non solo) si rifiutarono di giurare, perdendo così la loro posizione accademica e anche il posto nei Lincei. Egli provò a ribellarsi, ma invano: schedato come oppositore, divenne un sorvegliato dalla polizia politica e la sua libertà d’espressione e di movimento sottoposta a restrizioni.
Attorno a Volterra si creò una situazione paradossale, quasi grottesca. Da una parte, l’ordine ufficiale di ignorare l’uomo, la sua figura e la sua attività; dall’altra, la solidarietà di amici, colleghi ed estimatori che ancora lo consideravano un riferimento – non più formale ma di fatto – per il mondo scientifico e accademico.
Emarginato ma non dimenticato, Vito Volterra morì a Roma l’11 ottobre 1940. Nessuna delle istituzioni scientifiche italiane a cui tanto aveva dato poté commemorarlo: l’unica celebrazione ufficiale cui la famiglia poté assistere fu quella di Carlo Somiglianza nell’accademia pontificia. E mentre la figura del grande matematico veniva ricordata nel resto del mondo, l’Italia avrebbe dovuto attendere la fine della guerra. La commossa rievocazione di Guido Castelnuovo apriva l’adunanza generale del 17 ottobre 1946, ed inaugurava l’attività della ricostituita Accademia dei Lincei.
Ancona, la sua città natale, ha intitolato a Vito Volterra il Dipartimento di Matematica della facoltà di Ingegneria e l’Istituto Tecnico Industriale di Torrette.
Un commento su “Prede, predatori… e raggi laser”