Le stelle non sono dove sembrano essere

Nel 1687, nei Principia mathematica philosophiae naturalis, Isaac Newton aveva enunciato il principio di gravitazione universale: “due corpi si attraggono con una forza che è direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza”.
Questa descrizione si basa su un approccio empirico: Newton non aveva cercato spiegazioni della natura della gravità, ma dedotto le proprietà dai fenomeni osservabili. Leggi tutto “Le stelle non sono dove sembrano essere”

Energia del futuro o futuro dell’energia?

La questione energetica costituisce ormai da qualche anno una problematica di fondamentale importanza e gli eventi degli ultimi periodi hanno contribuito significativamente a porre ancora più in risalto questo cruciale argomento. “Perché acquistiamo dalla Francia e dalla Slovenia energia elettrica prodotta da centrali nucleari?” “Che cosa succederà se il prezzo del petrolio continuerà a crescere?” “Quando Paesi come la Cina e l’India incominceranno ad attestarsi sul livello di vita occidentale come sarà possibile garantirne il fabbisogno energetico?”

Questi interrogativi irrisolti sono ormai di pubblico dominio ed è proprio per fornire un’informazione il più possibile accessibile a tutti che venerdì 16 settembre, presso la Sala Convegni del Palazzo del Turismo di Senigallia, si è tenuto un incontro pubblico dal titolo “Ricerca scientifica ed energia del futuro”.

La conferenza è stata articolata in due momenti: nel primo sono stati presentati i filoni verso i quali si sta indirizzando la ricerca in ambito energetico, mentre nel secondo è stato fatto il punto della situazione presente e sono stati evidenziati quegli accorgimenti attualmente praticabili da tutti per un impiego razionale dell’energia.

Le prospettive future di sfruttamento dell’energia solare sono state introdotte dal Prof. Vincenzo Balzani, autore del libro “Energia oggi e domani”. Il suo intervento ha posto anche l’accento su come oggi si senta tanto parlare a sproposito di idrogeno, additato molto spesso come la soluzione universale di tutti i problemi energetici, ed ha contribuito a far luce sulle reali possibilità associate all’impiego di questo combustibile.

Molto significativo è stato il contributo offerto dal Prof. Maurizio Cumo, vicepresidente dell’Associazione Italiana Nucleare, il quale ha evidenziato come, a suo avviso, nell’immediato futuro sarà necessario intraprendere la scelta obbligata di produrre l’energia elettrica con centrali nucleari, essendo già adesso questa tecnologia quella economicamente più vantaggiosa.

Nell’ambito della presentazione delle tematiche di ricerca attualmente intraprese è poi intervenuta la Prof.ssa Rita Casadio, che ha introdotto il pubblico presente in sala nel mondo delle biotecnologie sulle quali i ricercatori stanno lavorando per mettere a punto un processo per la produzione dell’idrogeno su scala industriale. Infine, hanno concluso la prima parte dell’incontro due interventi sulle tecniche di confinamento magnetico ed inerziale per la realizzazione della fusione nucleare.

Il secondo momento della conferenza è stato aperto dal forte richiamo del Prof. Carlo Maria Bartolini sulla necessità di provvedere sin da adesso all’utilizzo tecnologicamente più efficiente delle risorse energetiche in attesa dei futuri sviluppi della ricerca, per i quali, allo stato attuale, è difficile ipotizzare un’applicazione concreta prima di qualche decennio. In particolare, Bartolini ha posto l’accento sulla dipendenza del sistema energetico italiano dalle fonti fossili ed in quest’ottica ha presentato quelle che attualmente rappresentano le soluzioni più efficienti per lo sfruttamento di queste risorse. In questo senso, il professore ha evidenziato come la tecnologia che al momento più si presta ad un utilizzo razionale dei combustibili, siano essi fossili od ottenuti da biomassa, è quella della cogenerazione distribuita. In questo modo, in un’unica centrale si ha la produzione contemporanea di elettricità e di calore direttamente sul luogo in cui queste due forme diverse di energia sono richieste. Questa tecnologia presenta pertanto il duplice vantaggio di sfruttare, innanzitutto, quel calore che nelle normali centrali elettriche viene disperso in ambiente e che costituisce quindi uno scarto, per produrre energia termica utilizzabile per comuni impieghi di riscaldamento o per processi industriali ed, in secondo luogo, di fornire l’energia nel posto in cui deve essere utilizzata, minimizzando le perdite legate al trasporto della stessa.

La sezione dell’incontro dedicata agli scenari attuali è stata conclusa dal Prof. Fabio Polonara che ha esposto le linee guida del Piano Energetico Ambientale Regionale (PEAR). Il professore ha posto in evidenza l’importanza del risparmio energetico e dello sfruttamento delle fonti rinnovabili in ogni settore ed in particolare a partire dagli edifici ad uso residenziale. In questo ambito è stato sottolineato come l’impiego dell’energia solare, sia per la generazione di elettricità mediante pannelli fotovoltaici sia per la produzione di acqua calda, possa fornire un significativo contributo al bilancio energetico delle famiglie, in primo luogo, e della collettività in generale. Inoltre, molto interessante è stato lo spunto lanciato da Polonara sull’opportunità di valutare l’incentivazione delle colture per la produzione di biocombustibili come possibile strumento per rilanciare l’agricoltura nazionale.

Di fronte ad un problema così importante estremamente significativo è stato l’atteggiamento dei relatori intervenuti alla conferenza. Nessuno di essi, infatti, si è fatto promotore “della soluzione energetica”, ma tutti hanno manifestato apertura verso tutti i campi di ricerca intrapresi. Se, da un lato, questa posizione mette in risalto come sia importante tentare di sfruttare ogni strada che sembra aprirsi davanti a noi, dall’altro canto sottolinea come al momento presente non si conosca ancora quella che sarà l’energia del futuro e, in un periodo di transizione come quello che stiamo vivendo, questa incertezza finisce inevitabilmente nello spostare l’attenzione su quale sarà il futuro dell’energia.

Ancora sulle dighe di New Orleans

Ho concluso il mio precedente articolo sul crollo delle dighe di New Orleans lasciando aperto un dubbio: e’ stata colpa degli ingegneri o dei governanti?

Gaspa mi aveva fatto propendere per la seconda ipotesi. Nella sua replica aveva infatti affermato: “… sembra che alcuni centri scientifici, tra cui una vicina base della NASA (inondata anch’essa), avessero predetto tale catastrofe e richiesto già da anni degli stanziamenti per piani di messa in sicurezza degli argini.”

Tuttavia avevo ancora dei dubbi. Tali dubbi sono stati amplificati dalla lettura di un interessantissimo articolo di Leonardo Coen comparso su Repubblica il 7 settembre scorso e intitolato “Sfida alla violenza delle acque, gli Usa a lezione dall’Olanda”.

L’articolo inizia cosi’:
Con molta umilta’ e con altrettanto imbarazzo gli ingegneri americani ammettono che sono indietro tecnologicamente sul fronte della prevenzione idraulica ed hanno ancora molto da imparare, a cominciare dalla vecchia bistrattata Europa. Parole inconsuete da queste parti. “Bisogna capitalizzare le esperienze dei paesi che sono stati capaci di contrastare efficacemente la violenza delle acque” ha dichiarato per esempio il professor George Z. Voyidis, capo della facolta’ di ingegneria civile della Louisiana State University.”

Un altro dato interessante che ho trovato nell’articolo e’ il paragone tra le altezze dei sistemi di protezione che io stesso avevo citato:

  • Barriere mobili all’estuario del Tamigi: 20m sul livello del mare (quando sollevate al livello massimo)
  • Argini olandesi del Piano Delta: 12m sul livello del mare
  • Dighe di New Orleans: 6m sul livello del mare

Un dato che, senza essere esperti del settore, la dice lunga sull’inadeguatezza delle dighe di New Orleans.

In definitiva la dichiarazione del professor George Z. Voyidis mi fa pensare che, se anche ci fossero stati gli stanziamenti richiesti per la messa in sicurezza citati da Gaspa, questi non sarebbero probabilmente bastati a garantire una soulzione ingegneristicamente affidabile o per lo meno comparabile al livello di quelle europee.

Colpa degli ingegneri o dei governanti? Forse di entrambi.

La medium

C’è un’auto con un cadavere in fondo al lago di Como, presso Dervio (Lecco). Pare si tratti di una ragazza del posto, Chiara Bariffi, scomparsa nel nulla quasi tre anni fa. Pare, soprattutto, che l’indicazione sia venuta da una sensitiva, tale Maria Rosa Busi, alla quale i genitori della scomparsa si erano rivolti nei mesi scorsi. L’auto si trova proprio nel punto segnalato.
“Medium trova nel lago ragazza scomparsa” è il titolo emblematico del Corriere della Sera. La vera notizia, infatti, è questa: nessuno mette in dubbio che la scoperta sia davvero il prodotto di capacità paranormali. Che sia stata la medium, è già dato per acquisito.
Si accettano scommesse su ciò che accadrà da domani: giù tutti a intervistare la signora, a cercare di capire come ha fatto, che palla di vetro usa, se riceve per appuntamento. Le faranno ogni domanda, tranne una: scusi signora, chi le ha detto dell’auto in fondo al lago (spiriti a parte, s’intende)? Non sia mai che a qualcuno salti in mente di fare il giornalista…
Appresa la notizia, il leader dell’Unione Romano Prodi ha subito telefonato alla signora Busi. S’è complimentato e le ha detto di star tranquilla: se fior di Commissioni parlamentari hanno creduto a lui e al suo piattino semovente, perché i carabinieri di Lecco non dovrebbero credere alla veggente?

Quelle dighe non dovevano crollare

Qualche giorno fa mi sono imbattuto in un programma della BBC che parlava di uno storm surge (stesso fenomeno verificatosi a New Orleans) capitato nel 1953 nel Mare del Nord.

Uno storm surge è un innalzamento del livello marino provocato dall’azione del vento sulla superficie marina in concomitanza con una bassa pressione atmosferica. Quello storm surge di circa 3 metri di altezza (senza contare il normale effetto di marea) provocò 307 morti sulla costa orientale dell’Inghilterra e circa 1800 in Olanda. Per non parlare dei danni alle abitazioni e all’agricoltura. Lo storm surge risalì persino il corso del Tamigi e alcuni quartieri di Londra furono inondati.
A seguito di quella catastrofe, favorita da inadeguate strutture a protezione di aree situate sotto il livello del mare,  grandi opere di difesa furono costruite sia in Olanda (l’imponente piano Delta, un vero e proprio gioiello di ingegneria idraulica) che in Inghilterra (paratoie mobili alla foce del Tamigi, innalzamento e consolidamento delle difese costiere nelle aree depresse del Norfolk, sistemi di previsione e monitoraggio del fenomeno).

Rimango pertanto stupito nel leggere che a difesa di una città come New Orleans, situata sotto il livello del mare e circondata su tutti i lati dall’acqua, fossero previsti solo dei semplici argini, di cui alcuni in terra.

Differentemente da quanto pensato da molti, non sempre è pratica ingegneristica costruire opere che non collassino mai. Infatti non sempre è possibile o economicamente fattibile evitare una qualche forma di rottura o collasso. Perciò il progettista cerca di condurre il collasso laddove questo crei meno danno.
Tanto per fare un esempio: le case di civile abitazione in cui noi tutti viviamo vengono progettate per non subire danni in caso di terremoti “normali”, subire danni lievi in caso di terremoti “forti” e subire danni pesanti ma non tali da provocare il collasso della struttura in caso di terremoti “catastrofici”.

È però vero che per strutture considerate di importanza strategica un tale approccio non è accettabile. È richiesto qualcosa di più, in quanto tali opere devono garantire la perfetta agibilità anche in condizione di catastrofe. Tra queste, tanto per citarne alcune: ospedali, caserme, ponti, dighe, centrali atomiche e via dicendo.

In altre parole una diga, soprattutto una diga eretta a protezione di una città come New Orleans, non doveva collassare. E parliamo di un uragano forza 3, quindi non la massima.
Non tutti sanno che la tristemente famosa diga del Vajont non è collassata, pur essendo stata  sottoposta a carichi eccezionali. Lì purtroppo l’errore, altrettanto grave, fu quello di costruire un bacino in corrispondenza di versanti instabili.

Chiudo con due citazioni di due miei professori dell’università:

  1. L’ingegnere impara dagli errori degli ingegneri che l’hanno preceduto
  2. L’ingegnere non deve inventare, deve copiare (quel che di buono han fatto altri)

Sembra che negli USA qualcuno (gli ingegneri o i governanti?) si sia dimenticato di questi semplici principi.

L’indemoniato

Il 28 luglio, in Piazza Roma a Senigallia, serata sul satanismo. Sul palco un sacerdote, don Aldo Buonaiuto, coordinatore del numero verde anti sette occulte, ausiliare di polizia giudiziaria e consulente tecnico della magistratura. Presentando il libro “Le mani occulte, viaggio nel mondo del satanismo”, Don Buonaiuto ha tratteggiato il fenomeno, la sua storia e le molteplici sfaccettature. Un punto di vista socio-religioso, tutto sommato interessante ed equilibrato.

Poi, a metà serata, quando s’è trattato di analizzare le cause del fenomeno, Don Buonaiuto ha fatto intervenire sul palco un indemoniato. Aveva le sue stesse sembianze, portava gli stessi vestiti e addirittura lo stesso nome. Un indemoniato in carne ed ossa: la prova che Belzebù non solo esiste, ma può tranquillamente passeggiare per le nostre strade in un’afosa serata estiva.

L’indemoniato ci ha rivelato che, oltre a quelli del mostro di Firenze, anche l’omicidio di Cogne e la recente morte dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi (una studiosa del tema) potrebbero nascondere casi di satanismo. Chissà, magari anche Erica e Omar sarebbero disposti a dichiararsi in preda a Satana ed ottenere uno sconto di pena. Dopo la Pedofili S.p.A. ci mancava la Satanisti S.r.l.
Di seguito se l’è presa col relativismo etico e la scristianizzazione della società, che hanno rimosso il sacro, ridotto al silenzio e alla subalternità l’etica cristiana (soprattutto cattolica) e proposto modelli vuoti e ingannevoli, su cui le sette prolificano. Tra i modelli ingannevoli, oltre ai soliti (denaro, droga, successo, affari, edonismo, ecc.), ci sarebbe anche Harry Potter (noto anticristiano, già oggetto delle attenzioni del Papa). Anche il Codice da Vinci sarebbe pericoloso: troppo critico verso la Chiesa, le crociate e l’Opus Dei, avrebbe il torto di spacciare finzione per verità. Per non parlare della New Age…

Mentre l’indemoniato parlava, a nessuno – neppure a Don Buonaiuto – è passato per la testa che il fiorire di sette occulte, soprattutto in società occidentali evolute di matrice cristiana, potrebbe essere la degenerazione del tentativo di ricerca di una dimensione spirituale e trascendente che le chiese “tradizionali” – nella fattispecie quella cattolica – negli ultimi anni faticano ad offrire.
Se queste chiese alla fede sostituiscono un’etica, in cui la gerarchia si arroga il compito di stabilire cos’è Bene e cos’è Male, e i fedeli sono semplici osservanti tenuti ad uniformarsi a quei precetti, pena non solo essere peccatori ma anche non potersi dire cristiani, ci si può meravigliare se sempre più gente volge lo sguardo altrove?
Per andare sul concreto: una Chiesa che nega il funerale ad una poveretta ritenuta pubblica peccatrice perché viveva more uxorio con un divorziato forse non viene meno alla caritas e alla pietas che molti invece cercano nella dimensione spirituale? Ed ha qualcosa a che vedere con la fede il fatto che una normalissima coppia, anche sposata, non si possa dire cristiana perché fa uso di anticoncezionali?
L’immagine di una cultura cattolica marginalizzata, ridotta al silenzio e all’insignificanza dal relativismo etico e dal “laicismo” semplicemente non esiste. I recenti referendum sono stati l’ennesima dimostrazione del contrario: l’etica cattolica imposta (per legge) a tutti, anche a quelli che non la condividono magari perché appartenenti ad altre confessioni.
Stiamo assistendo in Italia al dilagare del relativismo etico o piuttosto al tentativo di imporre a tutti una sola etica, quella cattolica, magari sottoforma di etica condivisa? È in atto una rimozione del sacro oppure una progressiva dilatazione dello spazio del sacro a tutti gli ambiti dell’esistenza umana? Ma, in tal caso, se tutto è sacro, cosa rimane di sacro?
Non ci aspettavamo che l’indemoniato rispondesse a queste domande, ma almeno che ce (e se) le ponesse Don Buonaiuto.
Macché. Alla fine i due hanno salutato cordialmente, e dopo l’applauso se ne sono andati. Insieme.

Il cognome di Eva

Secondo le leggi di Volterra, se due o più popolazioni sono in concorrenza tra loro, inevitabilmente soltanto una di esse finirà per sopravvivere.
Facciamo un esperimento: prendiamo tutti gli abitanti di una città e raggruppiamoli per cognome, immaginando che ogni cognome contraddistingua una diversa "popolazione"; la città risulterà così divisa in tanti gruppi quanti sono i cognomi presenti.
Ciascuna di queste "popolazioni" si trova a competere con tutte le altre per la sopravvivenza. Non sappiamo chi vincerà ma la matematica di Volterra prevede che, in assenza di immigrazione, prima o poi tutti gli abitanti della città finiranno per avere lo stesso cognome.

Questo fenomeno accade realmente: in Occidente è poco visibile, visto che i cognomi hanno pochi secoli di vita, ma in Cina, dove alcuni di essi esistono da più di 4000 anni, ci sono interi paesi dove tutti hanno lo stesso cognome.

Lo stesso effetto, in generale noto ai biologi come "deriva genetica", può essere osservato guardando il passato e utilizzando caratteristiche ben piu’ antiche dei cognomi. A tal proposito ci chiediamo: puo’ l’intera popolazione mondiale di oggi essere la sola sopravvissuta alla competizione con diverse altre popolazioni in una lotta durata migliaia di anni di storia evolutiva umana? Se si, cosa contraddistingue questa popolazione vincente dalle altre ormai scomparse?

La maggior parte dei paleoantropologi sostiene che l’uomo moderno (homo sapiens sapiens) abbia avuto origine in Africa, e da li’ sia uscito circa 100 mila anni fa per colonizzare il resto del Mondo. E’ dunque corretto supporre che tutti noi discendiamo da un gruppo di progenitori vissuti in Africa in un istante qualsiasi della nostra storia anteriore a 100 mila anni fa.
Ogni donna di questo gruppo diede origine ad una propria distinta discendenza; possiamo dunque pensare che ciascuno di noi, oggi, appartenga ad una di queste progenie, insieme a quanti condividono con lui la stessa antica progenitrice.
E se andassimo indietro oltre i 100 mila anni, troveremmo la progenitrice comune a tutti gli attuali abitanti della Terra? In altre parole, noi tutti discendiamo da una sola donna?
L’esistenza di questa "Eva" primordiale, storica e non biblica, e’ verosimile e giustificata dalla logica e dalla matematica. Ma e’ la genetica a darci il sostegno definitivo.

I mitocondri sono piccoli organi interni alle nostre cellule; un tempo erano batteri liberi, e per questo conservano un proprio filamento di DNA. Il DNA mitocondriale (mtDNA) si eredita solamente dalla propria madre, per cui le persone imparentate per via materna hanno lo stesso mtDNA. Naturalmente due persone prese a caso hanno due mtDNA diversi, questo perche’ il mitocondrio e’ soggetto a mutazioni genetiche: ogni tanto una bambina presenta mitocondri leggermente diversi da quello della propria madre. E’ corretto ritenere che piu’ simili saranno gli mtDNA di due individui, piu’ recentemente sara’ vissuta l’ultima progenitrice comune ad entrambi. Dunque l’mtDNA è un orologio biologico e indica il grado di diversità dei nostri alberi genealogici.

Veniamo all’ipotesi su Eva: in effetti e’ corretto pensare ad una progenitrice comune in quanto, proprio grazie alle leggi di Volterra, possiamo ritenere che sia sopravvissuto solamente il DNA mitocondriale di una delle tante progenitrici esistite; questo mtDNA, sottoposto nel tempo a continue mutazioni genetiche, ha prodotto la diversita’ di mtDNA che vediamo oggi.
Come i cognomi, il DNA dei mitocondri si eredita da un genitore soltanto; e proprio come i cognomi cinesi, dopo millenni di lotta e competizione solamente un mtDNA e’ sopravvissuto, sebbene minato dalle inevitabili mutazioni genetiche.

Ammesso che questa "Eva" sia esistita, quando sarebbe vissuta? I calcoli sono sempre basati sull’mtDNA, che appunto funziona da orologio dell’evoluzione, e ci portano a circa 190 mila anni fa. Un dato che collima abbastanza fedelmente con le prove paleontologiche gia’ citate.

Per approfondire:
Chi siamo. La storia della diversità umana
di Luigi e Francesco Cavalli-Sforza
Mondadori (1993)

Prede, predatori… e raggi laser

Verso la metà degli anni Venti, all’Università di Padova, il biologo Umberto D’Ancona studiava le variazioni delle popolazioni di varie specie di pesce che interagiscono l’una con l’altra. Nel corso di queste ricerche, si imbatté nei dati sulle percentuali di pesca di varie specie in diversi porti dell’Adriatico nel corso della prima guerra mondiale.

I dati del porto di Fiume, negli anni 1914-1923, testimoniavano una crescita anomala dei selaci (pesci poco interessanti come cibo: piccoli squali, razze, ecc.), fino al 36% in più degli anni precedenti. Ciò era tanto più curioso in quanto, negli stessi anni, la proliferazione di altre specie di pesce (soprattutto commestibili) era stata molto meno vigorosa.

La prima spiegazione che D’Ancona tentò si appoggiava su un paio d’osservazioni. Innanzitutto, ciò che distingue i selaci dai pesci commestibili è che i selaci sono predatori mentre gli altri pesci sono le loro prede. In secondo luogo, la diminuzione dell’attività di pesca durante la guerra poteva aver fatto crescere le specie commestibili e quindi aumentare il cibo per i predatori. Il ragionamento, però, reggeva solo in parte: non dava conto, ad esempio, del perché la riduzione della pesca avesse giovato molto di più ai predatori che alle prede.
Dopo aver esaurito le possibili spiegazioni, D’Ancona – è il caso di dirlo – non sapeva più che pesci pigliare. Si rivolse allora al suocero, il matematico anconetano Vito Volterra, nella speranza che questi sarebbe riuscito ad inquadrare il problema entro un modello matematico.

A quell’epoca Volterra, quasi settantenne, preside della Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e membro dell’Accademia dei Lincei, era una delle personalità di spicco – forse la più autorevole – del panorama scientifico italiano.
Iniziò a lavorare al problema del genero, suddividendo i pesci in due categorie: le prede e i predatori. Ipotizzò che le prede, a differenza dei predatori, non competono intensamente fra loro nella ricerca di cibo, poiché questo è abbondante rispetto alla loro popolazione. Allora, in che modo varia nel tempo il loro numero? Il tasso di crescita delle prede è proporzionale al loro numero, secondo una costante di proporzionalità che tiene conto anche della mortalità. Il tasso di decrescita dipende invece da tre fattori: la mortalità naturale, ad un tasso proporzionale al numero di prede; la presenza dei predatori, che provocano una diminuzione del numero delle prede ad un tasso proporzionale al numero di contatti per unità di tempo tra i primi e i secondi; la pesca, che diminuisce le prede ad un tasso ancora proporzionale al loro numero.
Un discorso speculare si può fare per i predatori, che però competono fra loro nella ricerca delle prede: essi hanno un tasso naturale di decrescita (mortalità) proporzionale al loro numero ed un tasso di crescita proporzionale al numero di incontri con le prede nell’unità di tempo.
Con queste assunzioni, Volterra mostrò che le popolazioni delle prede e dei predatori si sviluppano in maniera interdipendente, e la loro evoluzione presenta situazioni di equilibrio. Il risultato sorprendente era che un aumento moderato della pesca ha effetti benefici sulla popolazione delle prede mentre provoca una diminuzione dei predatori. Viceversa, la riduzione della pesca (com’era avvenuto durante la prima guerra mondiale) provoca una proliferazione dei predatori e una diminuzione del pesce commestibile. Questo risultato, non del tutto intuitivo, si accordava con i dati sperimentali e rispondeva ai quesiti di D’Ancona. (vedi paragrafo sottostante).

Le leggi di Volterra si sono dimostrate efficaci nel descrivere molte altre situazioni di competizione naturale tra prede e predatori. Si applicano, ad esempio, al trattamento con gli insetticidi, che distruggono sia gli insetti predatori che i predati: l’uso degli insetticidi determina una crescita di quegli insetti la cui popolazione è tenuta sotto controllo da insetti predatori. Una conferma viene da un insetto (Icerya purchasi) che, quando fu introdotto per caso in America dall’Australia nel 1868, minacciò di distruggere le coltivazioni di agrumi. Come rimedio, fu importato il suo naturale predatore australiano, una coccinella (Novius cardinalis) che causò una riduzione del numero di Iceryae. Quando si scoprì che il DDT poteva distruggere le Iceryae, gli agricoltori lo usarono subito, convinti di poterle sterminare definitivamente. Invece, in accordo con il principio di Volterra, l’effetto fu un aumento dei parassiti.
Continuando gli studi sulle dinamiche delle popolazioni biologiche e i rapporti tra prede e predatori, Volterra estese l’analisi alla competizione tra più specie di predatori quando essi condividono la stessa risorsa o preda. Il modello matematico che sviluppò lo portò ad enunciare il cosiddetto principio di esclusione competitiva: quando due specie competono nello stesso ambiente per la medesima risorsa, una delle due è destinata all’estinzione. In altre parole, non esistono stati di equilibrio stabile in cui entrambe le popolazioni di predatori convivano nutrendosi della stessa preda (vedi paragrafo sottostante).
Nati in un ambito assai circoscritto e in risposta ad un problema puntuale, i modelli matematici di Volterra hanno validità del tutto generale, ben al di là dei confini della biologia. La loro potenza e versatilità rappresentano un esempio di ciò che Eugene Wigner, premio Nobel per la fisica nel 1963, ha definito la irragionevole efficacia della matematica nelle applicazioni scientifiche. Solo una minima parte dei fenomeni naturali, infatti, si lascia descrivere matematicamente, e solo in condizioni molto speciali; è dunque incredibile che, quando una descrizione è comunque possibile, lo sia non in maniera soltanto approssimata, bensì con un grado d’accuratezza ed una profondità spropositati.
Ma forse neppure Volterra avrebbe immaginato quale spettacolare applicazione le sue leggi avrebbero avuto pochi decenni più tardi, in un contesto lontanissimo e inaspettato.

Guarda chi si rivede…!

Alla fine degli anni Quaranta il fisico statunitense Charles Townes cercava di utilizzare le onde elettromagnetiche per studiare la struttura delle molecole. Viste le dimensioni microscopiche degli oggetti da indagare, la radiazione doveva avere una piccolissima lunghezza d’onda (ossia una frequenza altissima) ed essere molto “pulita”. Aiutato dal suo allievo Gordon Gould, Townes si ricordò di vecchi lavori di Albert Einstein del 1917 sull’emissione stimolata di radiazione, per cui è possibile indurre un atomo ad emettere radiazione investendolo con una radiazione identica. Se si fosse riusciti a costruire un dispositivo in grado di imbrigliare e contenere la radiazione così prodotta – pensava Townes – il gioco era fatto: la radiazione si sarebbe autorigenerata e amplificata, con un effetto a catena. Nasceva così l’idea del LASER (Light Amplification by Stimulated Emission of Radiation, se la radiazione è luminosa) ovvero MASER (Microwave ASER, nella versione a microonde). Nel frattempo, oltrecortina, i fisici sovietici Nicolaij Basov e Aleksandr Prokhorov stavano ottenendo risultati simili. Townes, Basov e Prokhorov vinsero nel ’67 il premio Nobel per l’elaborazione teorica del laser, quando già se ne cominciavano a vedere i vastissimi campi d’applicazione. Oggi il laser è utilizzato un po’ ovunque: dall’ottica alla medicina, dall’astronomia alle telecomunicazioni, dalla biologia all’archeologia; con la diffusione di lettori CD e DVD, è entrato persino negli elettrodomestici di uso quotidiano.
Come suggerisce il nome, il dispositivo (in sostanza un “wafer” di materiali semiconduttori, con due specchietti semiriflettenti alle estremità) è capace di creare, amplificare ed emettere un fascio luminoso quando gli viene iniettata una corrente elettrica che può essere vista come l’alimentazione.
La luce del laser, però, non è luce qualsiasi. Le comuni sorgenti, come il Sole o una lampadina, generano luce estremamente incoerente e “disordinata”, con una banda di frequenza larghissima, una fase e una polarizzazione casuali. Il laser invece è in grado di produrre un segnale luminoso coerente e “ordinato”: cioè con una banda di frequenza strettissima, una stessa polarizzazione e una stessa fase. Come ci riesce? Vediamo.
In estrema sintesi, la luce è composta da pacchetti o quanti di energia, chiamati fotoni. La sua intensità dipende dal numero di fotoni trasmessi in un certo tempo; la sua fase e polarizzazione variano con la fase e la polarizzazione di ciascun fotone trasmesso. Per quanto detto, il laser è capace di sfruttare una corrente elettrica (leggasi: popolazione di elettroni) per generare una luce (leggasi: popolazione di fotoni) avente speciali caratteristiche (la medesima frequenza, polarizzazione e fase). Una torcia elettrica, invece, sfrutta la stessa corrente elettrica ma genera luce incoerente e caotica, ossia popolazioni di fotoni completamente diverse l’una dall’altra per frequenza, polarizzazione e fase.
Sembra che nel laser una certa popolazione di predatori (fotoni), riuscendo a sfruttare il cibo disponibile (gli elettroni) meglio di qualunque altra, alla fine risulti vincente e abbia il sopravvento.
In che modo, dunque, il laser riesce a produrre e selezionare fotoni di un certo tipo? Semplice: obbedendo alle leggi di Volterra. Ciò che descriveva le dinamiche delle popolazioni di pesci continua incredibilmente ad essere valido in un contesto completamente diverso. Formalmente nulla cambia, salvo che ora sono gli elettroni a svolgere il ruolo di prede, e i fotoni quello di predatori. Il tempo di vita dei fotoni è inferiore (circa 1/1000) al tempo di vita degli elettroni: le leggi di Volterra prevedono allora che la popolazione dei fotoni (predatori) deve aumentare a scapito di quella degli elettroni (prede).
Il principio di esclusione competitiva ci dice dell’altro. Tra tutte le possibili popolazioni di predatori (fotoni) che competono per la stessa risorsa (elettroni), una sola ha successo: quella che meglio si adatta all’ambiente (la struttura del dispositivo laser) e riesce a sfruttarne le risorse per proliferare. Basta un piccolo vantaggio iniziale, e poi la selezione naturale farà il resto. Alla fine, la popolazione vincente sarà composta da individui (fotoni) della stessa “specie”, cioè aventi la stessa frequenza, polarizzazione e fase. Dunque, il fascio luminoso prodotto sarà preciso, “coerente” e pulito.

Un semplice modello di interazione preda-predatore

Detto x il numero di prede e y quello dei predatori, i tassi di variazione temporale delle rispettive popolazioni si possono esprimere come:
dx/dt = Ax – Bxy
dy/dt = –Cy + Dxy
dove
A è il fattore netto di crescita delle prede, che tiene conto della proliferazione naturale e della decrescita dovuta a fattori esterni come la pesca; nel caso del laser, A esprime l’aumento della popolazione di elettroni (x) dovuta alla corrente iniettata nel dispositivo, e tiene conto del tempo medio di vita degli elettroni;
B è il fattore di decrescita delle prede per la presenza dei predatori; nel caso del laser, esprime l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni (y).  
C è il fattore netto di decrescita (naturale e dovuta alla pesca) dei predatori; nel caso del laser esprime la vita media dei fotoni (y).
D è il fattore di crescita dei predatori dovuta all’interazione con le prede, ed esprime l’efficienza di caccia dei predatori; nel caso del laser rappresenta l’efficienza di produzione dell’emissione stimolata di fotoni y (sostanzialmente D = B).
Si può dimostrare che il sistema di equazioni presenta due situazioni di equilibrio. Oltre a quella banale (x = y = 0), c’è la:
x = C/D
y = A/B
Un aumento moderato della pesca (A cresce e C decresce) ha dunque benefici effetti sulla popolazione delle prede. Nel caso del laser, siccome la vita media dei fotoni è molto minore della vita media degli elettroni (C << A), i predatori y (fotoni) hanno il sopravvento sulle prede x (elettroni disponibili all’emissione stimolata): l’intensità luminosa ne risulta amplificata. 

Il modello di esclusione competitiva

In questo caso si prendono in considerazione due popolazioni di predatori y1 e y2 che competono per la stessa risorsa o preda x.
La popolazione delle prede (risorse) condivise x dipende ovviamente dal numero di predatori y1 e y2. Il tasso di variazione si può scrivere come:
dx/dt = Ax – B1xy1 – B2xy2   
Le popolazioni dei predatori variano invece come:
dy1/dt = –C1y1 + D1xy1
dy2/dt = –C2y2 + D2xy2
Sia x(0) la concentrazione iniziale della risorsa; y1(0) e y2(0) le concentrazioni iniziali dei predatori.  
I parametri A, B e C hanno significato analogo a quelli definiti per la relazione preda-predatore.
Oltre a quella banale (y1 = y2 = 0), esistono 2 situazioni di equilibrio:
y1 = K1, y2 = 0       con K1 = K1(C1, D1, x(0))
y1 = 0, y2 = K2       con K2 = K2(C2, D2, x(0))
In entrambi i casi, una sola popolazione di predatori sopravvive, l’altra soccombe.

Vito Volterra

Nato ad Ancona il 3 maggio 1860, passò i primi anni a Torino e Firenze, mostrando già una spiccata propensione agli studi scientifici. Nel 1878, grazie all’aiuto del suo professore di fisica Antonio Roiti e di uno zio, l’ingegnere Edoardo Almagià, si iscrisse alla facoltà di Scienze matematiche, fisiche e naturali dell’Università di Pisa. L’anno dopo entrò come allievo alla Scuola Normale, dove studiò fisica e matematica. Era laureato solo da pochi mesi quando partecipò ad un concorso per la cattedra di Meccanica Razionale dell’Università di Pisa. Lo vinse e diventò docente: aveva 23 anni. Nell’87 fu promosso ordinario, cinque anni dopo gli venne assegnato l’insegnamento di Fisica Matematica e diventò preside della facoltà di Scienze. Nel ’93 decise di lasciare Pisa per Torino, a coprire la cattedra di Meccanica Superiore. Risalgono a quegli anni alcuni dei suoi lavori più famosi sull’analisi funzionale applicata allo studio di equazioni integrali e differenziali alle derivate parziali. Nel ’99, dopo una serie di prestigiosi riconoscimenti accademici, ottenne la nomina più ambita, quella a socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Nel 1900 fu chiamato presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Roma e nel 1907 ne divenne preside.
Allo scoppio della prima guerra mondiale, Volterra appoggiò l’intervento italiano e arrivò ad arruolarsi col grado di tenente, mettendo a disposizione dell’esercito le sue capacità tecniche e organizzative.
Contrastò invece apertamente il Fascismo, sin dagli albori. Nel ‘25 fu tra i firmatari del “Manifesto Croce” degli intellettuali antifascisti, e aderì all’Unione nazionale delle forze liberali e democratiche promossa da Giovanni Amendola, schierandosi col gruppo dei senatori di opposizione. Il regime non glielo perdonò. Dal ‘26 cominciarono ad arrivargli pressioni e avvertimenti affinché si dimettesse da presidente dell’Accademia dei Lincei, ma i soci lo convinsero a restare. Nel ‘31, però, il governo estese ai professori universitari l’obbligo del giuramento di fedeltà al regime: Volterra e una decina d’altri (cittadini ebrei ma non solo) si rifiutarono di giurare, perdendo così la loro posizione accademica e anche il posto nei Lincei. Egli provò a ribellarsi, ma invano: schedato come oppositore, divenne un sorvegliato dalla polizia politica e la sua libertà d’espressione e di movimento sottoposta a restrizioni.
Attorno a Volterra si creò una situazione paradossale, quasi grottesca. Da una parte, l’ordine ufficiale di ignorare l’uomo, la sua figura e la sua attività; dall’altra, la solidarietà di amici, colleghi ed estimatori che ancora lo consideravano un riferimento – non più formale ma di fatto – per il mondo scientifico e accademico.
Emarginato ma non dimenticato, Vito Volterra morì a Roma l’11 ottobre 1940. Nessuna delle istituzioni scientifiche italiane a cui tanto aveva dato poté commemorarlo: l’unica celebrazione ufficiale cui la famiglia poté assistere fu quella di Carlo Somiglianza nell’accademia pontificia. E mentre la figura del grande matematico veniva ricordata nel resto del mondo, l’Italia avrebbe dovuto attendere la fine della guerra. La commossa rievocazione di Guido Castelnuovo apriva l’adunanza generale del 17 ottobre 1946, ed inaugurava l’attività della ricostituita Accademia dei Lincei.
Ancona, la sua città natale, ha intitolato a Vito Volterra il Dipartimento di Matematica della facoltà di Ingegneria e l’Istituto Tecnico Industriale di Torrette.

A proposito di OGM

Cari amici,
quando ho letto il pezzo sugli OGM mi sono balenate in mente diverse considerazioni, prima di tutti quella che avrei voluto dare un’occhiata alla bibliografia di riferimento. Accontentato quasi subito ho avuto una certa impressione accorgendomi che era dominante, se non esclusivo, un certo Autore, un solo nome… Tamino.

Io Tamino lo conosco bene, anzi lo conoscevo molto bene dai tempi lontani delle frequentazioni politiche e pertanto mi è passato in mente che su questa materia sarebbe stato meglio non andare a memoria, su nozioni che sono invecchiate ancor più della mia età ed ho scritto ad un giovane amico che si occupa di genetica, che ha avuto interessanti esperienze all’estero e che lavora in Italia, in ambiente universitario. Così lui mi ha girato via mail questo parere, quasi come uno sfogo (e lo comprendo bene!), aggiungendo alla fine:” Mi rendo conto che il mio e’ stato quasi uno sfogo notturno. Fanne cio’ che vuoi..”

Ecco quindi che alla richiesta di Marco ed Andrea, che avevano letto queste righe, non ho potuto dire di no. Anzi con piacere partecipo a questo dibattito perché le mie convinzioni sono anche più drastiche di quelle del giovane studioso.

Ragazzi oltre le scienze (che sono il mio terreno) studiate anche la storia, certo fate tesoro degli errori, ma per paura non restate ancorati nel porto senza mai prendere il largo. L’assoluta certezza dell’inesistenza dei rischi non cè mai per nessuno, in nessuna materia. Ogni passo della vita richiede decisioni e sofferenze. Lasciatevelo dire da chi – a ragione dell’età – ha sbagliato, ma anche avuto qualche soddisfazione.

Un saluto
Gianluigi Mazzufferi

Tamino e’ tristemente noto tra i genetisti agrari, in quanto portatore di un punto di vista “ideologico” sulle biotecnologie.
I pericoli che ci minacciano, apocalittici, secondo l’articolo, non sono secondo me concreti.

La questione della brevettabilità della materia vivente non piace neanche a me, ma gli investimenti (notevoli) per portare in campo una varieta’ coltivata con caratteristiche veramente buone devono pur essere compensati, altrimenti si ferma tutto, con buona pace di Tamino. Che cosa fa lui per la avitaminosi A nei paesi poveri? I soldi per il Golden rice li ha messi prevalentemente la fondazione Rockefeller, che ha scopi umanitari. Secondo me sono stati soldi spesi piuttosto bene.

Il Golden rice non risolve certo tutti i problemi, ma e’ un aiuto da affiancare al miglioramento della dieta che certamente deve essere realizzato. Le multinazionali che detengono i brevetti hanno accettato di non riscuotere royalties nei paesi poveri, ma solo in quelli ricchi. Potrykus, il leader del gruppo di ricerca, oggi in pensione, ha sviluppato riso arricchito di beta carotene (e anche di ferro) anche con altri metodi per aggirare vincoli di brevettazione.

Quello che mi sorprende e’ l’accanimento con cui Greenpeace e altri si oppongono all’introduzione di questo riso: cosa c’e’ da perderci? non si tratta mica di una sola varieta! saranno molte e molte varieta’ adattate ai diversi ambienti, ma tutte con questa nuova caratteristica, e chi non le vorra’ trovera’ anche le varietà non GM !!
Perche’ non mangiano riso integrale? Credo per le stesse ragioni per cui non ce lo mangiamo noi. Non credo che le multinazionali abbiano imposto la raffinazione del riso in tutto il mondo, questo fa veramente ridere. Così come la bassa qualità nutrizionale del riso della rivoluzione verde: questa e’ veramente grossa: Tamino forse vorrebbe tornare alle varietà locali antiche, che producevano una frazione di quello che producono le varietà moderne !! I grandi difensori della biodiversità hanno tutti la pancia piena. Perche’ milioni di agricoltori, anche a livelli di sussistenza, coltivano con soddisfazione piante GM resistenti ad insetti o a diserbanti ? Forse perche’ trattano meno (drastica diminuzione di intossicazioni da insetticidi tra gli agricoltori cinesi, drastica riduzione dei consumi di carburanti e forte del consumo di diserbanti in USA e altrove), producono e guadagnano di piu’ (anche considerando il maggior costo dei semi delle varietà GM, che comunque non sono le sole sul mercato!).

La realta’ e’ che senza le varietà moderne di cereali oggi ci sarebbe molta piu’ gente che soffre la fame, e le varietà GM vengono coltivate ogni anno di piu’ non certo soltanto perche’ le promuove Monsanto e i suoi amici, ma soprattutto perche’ gli agricoltori le vogliono coltivare perche’ gli conviene (vedi www.isaaa.org).

Ormai tutti sono d’accordo che l’aumento della produzione di cibo non potra’ essere sostenibile se realizzato mettendo a coltura nuove terre. Si deve produrre di piu’ sulla terra oggi coltivata, magari recuperando quella impoverita dalla cattiva pratica agricola. Per questo le biotecnologie possono dare un grande aiuto: esistono gia’ piante rese resistenti al sale o all’acidità del terreno.

Ma il resto del mondo l’ha capito, e pure la Chiesa Cattolica. I nostri ambientalisti stanno veramente facendo una battaglia di retroguardia. Io poi non ne posso piu’ di sentire parlare di prodotti tipici e locali. La patata e il pomodoro non erano tipici prima del 1500 ! Quella e’ roba molto bella ma da ristoranti costosi e da gente che ha tempo e soldi. Bisogna avere l’onesta’ di ammetterlo, e di dire che l’umanità non puo’ campare di agricoltura biologica, a meno, forse, di non diventare tutti subito vegetariani. Per me non sarebbe un grosso problema, ma non mi sembra che si possa fare facilmente o imporre per decreto.

Le piante GM sono supercontrollate, anche troppo: io se vedessi scritto “contiene OGM” su un’etichetta comprerei piu’ volentieri. l’introduzione di geni di diversa provenienza non mi turba affatto, il codice genetico e’ universale e le proteine prodotte sono note. Tutta l’agricoltura e’ una manipolazione profonda dell’ambiente, un’attività artificiale. Chi deve decidere il limite? I ricercatori devono avere voce in capitolo o no? Per i nostri politici pare di no, visto che si scelgono i consulenti tra quelli contro gli OGM, trascurando il parere di autorevoli società scientifiche specializzate (vedi www.siga.unina.it).

Il Prof. Sala ha scritto un libretto molto documentato, molto pro OGM ma secondo me molto franco e largamente nel giusto: “Gli OGM sono davvero pericolosi?” Universale Laterza, 2005. Te lo consiglio.

Scienza, Società, Biotecnologie

Il periodo storico che stiamo vivendo può essere tranquillamente definito come “l’epoca delle biotecnologie”: biotecnologie che promettono di trasformare il nostro pianeta per far scomparire malattie, fame, povertà, mettendo allo stesso tempo in discussione le radicate basi morali della cosiddetta “società occidentale”.

Tematiche quali la clonazione umana, l’utilizzo delle cellule staminali, gli organismi geneticamente modificati (OGM) evidenziano oggi, come mai prima d’ora, tutte le contraddizioni e i paradossi di cui è vittima una scienza senza limiti e priva di controllo. La biologia che promette un’illimitata palingenesi fornisce nel contempo le basi teoriche e pratiche per la produzione di strumenti veramente “micidiali”: non si tratta di rinverdire i fasti della teoria che vuole le ricerche ed i risultati della scienza sempre positivi e la loro utilizzazione soggetta al “buono” o al “cattivo” uso, ma di capire che disgiungere i risultati della scienza dalla loro utilizzazione pratica significa separare la scienza dal suo contesto sociale. Corollario della natura della scienza, infatti, è il sacrosanto diritto dei cittadini “comuni” di discutere dei fatti della scienza e di decidere di volta in volta se questa rappresenti un “progresso” od un “limite”, senza così soggiacere a impostazioni autoritarie tecnicistiche e specialistiche legate più agli interessi di pochi (leggasi multinazionali del settore “Biotech”) che a quelli della collettività.

Quando si parla di biotecnologie spesso si fa una gran confusione, con il rischio di non riuscire a discernere le complessità e le diversità di ogni singola tecnica oggi in uso. Proviamo a fare “ordine” con una breve sintesi.

E’ certamente una biotecnologia il “miglioramento” di una specie vegetale attraverso incroci e selezioni all’interno della stessa specie, arrivando in tempi relativamente brevi ad una pianta in grado, ad esempio, di produrre lo stesso frutto ma in situazioni ambientali diverse o con una resa superiore. D’altra parte, è sicuramente una biotecnologia la modificazione genetica – sempre per finalità produttive – di una pianta nel cui DNA è stato inserito un gene estraneo, proveniente da un’altra specie vegetale o, addirittura, da una specie animale.

C’è però una grande, importante differenza: nel primo caso si copia, anche se con finalità molto diverse, quello che la natura, con la selezione naturale, mette in opera quotidianamente in risposta alle pressioni ambientali e alle mutazioni genetiche proprie di ogni singola specie; si lavora sulla genetica della pianta, dunque, ma non si inseriscono “pezzi” di DNA estranei alla specie stessa. Nel secondo caso, invece, si infrange una vera e propria “barriera naturale” andando a modificare il patrimonio genetico di un vivente – che ha quella particolare, unica, irripetibile e stabile configurazione genetica ottenuta grazie al risultato dei processi evolutivi durati anni e anni ed ancora in corso – inserendo nel suo DNA uno o più geni provenienti da una specie diversa che, spesso e volentieri, è separata da milioni di anni dal punto di vista filogenetico. Una tecnologia già di per se aberrante e senza controllo che purtroppo ben si sposa con finalità legate alla bieca commercializzazione di questi nuovi “oggetti viventi” così ottenuti e brevettati, i tanto famigerati organismi geneticamente modificati. 

In questa sede non voglio appesantire troppo le mie riflessioni andando a ribattere, con argomentazioni motivate, ai presunti benefici degli OGM tanto sbandierati dai loro sostenitori. Argomento che conto di riprendere in una prossima “puntata” sul tema. Mi piace riportare, però, un solo esempio che considero veramente significativo e illuminante rispetto alla sincerità, all’indipendenza intellettuale e alla buona fede dei brillanti ricercatori pro-OGM e delle lobbies ad essi colluse: l’emblematico caso del “Golden Rice”, ovvero quando si specula sulle gravi e reali situazioni di denutrizione in vaste aree del Terzo Mondo per ottenere consenso popolare ed enormi vantaggi economici.

Il Golden Rice è una “meravigliosa” varietà di riso raffinato ad alto contenuto del precursore della vitamina A (il beta-carotene) che gli scienziati pro-OGM hanno creato in laboratorio per salvare dalla fame, una volta per tutte, i poveri delle regioni africane, asiatiche e dell’America latina, nelle cui popolazioni è stata da tempo riscontrata un’alta deficienza proprio di vitamina A (specialmente nei bambini), correlata ad altre carenze di micronutrienti (come ferro, iodio e zinco).

Il riso è uno dei principali, se non l’unico, alimento-base di queste popolazioni: l’avitaminosi è dovuta sia alla graduale sostituzione delle migliaia di varietà di riso integrale coltivate (più di 10.000 nel 1949) con le attuali due sole varietà raffinate il cui valore nutrizionale si è notevolmente ridotto, sia alle condizioni di assoluta povertà. Questi sono alcuni degli effetti della cosiddetta “rivoluzione verde” (che ha come principio base la monocoltura) e della reiterata proposizione di modelli agrari insostenibili (leggasi “neocolonialismo economico”) che hanno costretto a modificare le tradizionali pratiche agricole locali e, di conseguenza, i modelli agro-nutrizionali delle popolazioni rurali, per la sovrapproduzione che vola verso il “Nord” del mondo. Nel caso del riso, per ragioni commerciali legate alla domanda del mercato occidentale, questo viene privato dello strato esterno di aleuroni naturalmente ricco in provitamina A: l’involucro esterno, infatti, tende ad irrancidirsi durante lo stoccaggio, specialmente nelle aree tropicali.

Ebbene il riso OGM “arricchito” con beta-carotene, che viene in apparente soccorso al modello commerciale che colpisce duramente lo stato nutrizionale delle popolazioni locali, è il prodotto di 10 anni di costosissime ricerche (circa 100 milioni di dollari) grazie alle quali si è “costruita” una pianta nel cui DNA sono stati inseriti geni e materiali genetici provenienti principalmente dal virus del mosaico del cavolfiore CaMV e dal batterio del suolo Agrobacterium tumefaciens (responsabile di molti tumori vegetali). In questa varietà di riso, dunque, si ritrova in piccole quantità il beta-carotene che si è perso con le moderne tecnologie di raffinazione, ma anche tutta una serie di prodotti non identificati e non caratterizzati (proteine, geni, ecc.) dei quali, ovviamente, non si sa nulla né sul loro valore nutrizionale, né tantomeno sulla loro tossicità e stabilità.   

Multinazionali del Biotech finalmente benefiche e fame del mondo almeno parzialmente sconfitta ? Non proprio.
Quello che non viene sapientemente detto né divulgato da chi sta facendo fruttare i circa 70 brevetti sul Golden Rice (…pensavate fosse gratuito ?) è che, vista la quantità di beta-carotene del riso OGM, una dieta normale (di circa 300 grammi di riso al giorno) fornirebbe solo l’8% della quantità giornaliera di questa preziosa provitamina A raccomandata dai nutrizionisti. E cioè: una donna in fase di allattamento dovrebbe nutrirsi con circa 18 kg di riso cotto al giorno per ottenere la quantità di beta-carotene che le è necessaria !

Se qualcuno pensasse “…meglio poco che niente…” è bene che rifletta anche sul processo fisiologico di trasformazione del beta-carotene in vitamina A. Infatti una volta ingerito, il precursore vitaminico deve essere trasformato dall’organismo e questo non avviene se la dieta è troppo povera di grassi, proteine, zinco e vitamina E; dunque …. i poveri del Terzo Mondo rischiano di non utilizzare nemmeno quel poco di beta-carotene contenuto nel Golden Rice a causa delle note carenze alimentari. E questo evidenzia ancor di più, se mai ce ne fosse stato bisogno, che ai problemi provocati da una tecnologia si risponde proponendo una nuova biotecnologia, ignorando completamente che esiste una realtà soggiacente al mondo artificiale. Una realtà che chiede soluzioni che l’approccio ipertecnologico non potrà mai fornire.

In conclusione a queste mie considerazioni, non posso non far notare come oggi quello che manca è un serio approfondimento a vari livelli del rapporto “uomo-natura” e dell’effetto sulla nostra identità di un mondo naturale svilito a risorsa da rapinare e a recipiente di prodotti a presunto “alto valore aggiunto”, ottenuti dalla cruenta trasformazione/modificazione del patrimonio genetico degli esseri viventi. In questo contesto la commercializzazione della scienza ed i rapporti sempre più stretti tra università ed industria aventi finalità stile … do ut des …, stanno minando la fiducia del “grande pubblico” verso la scienza e gli studiosi, verso una ricerca scientifica che obbedisce agli interessi economici, alle nuove regole sulla brevettazione, alla moderna pirateria che preda le risorse genetiche del Terzo Mondo.

Le splendide certezze di un avvenire migliore, di un “progresso” legato al consumismo che fa rima con benessere e che scienza ed economia pubblicizzano incessantemente con il più o meno tacito placet dei politici di turno, sono continuamente smentite dalla dura, e spesso drammatica, realtà vissuta dalla maggior parte del genere umano; certezze che svaniscono giorno dopo giorno nel fallimento di un progetto “cosmetico” inteso a modificare ed abbellire i clamorosi insuccessi di una grossa parte del sapere ipertecnologico (vedi il caso degli OGM) sempre più lontano dai bisogni quotidiani della gente.
Il nostro ruolo di “cittadini-consumatori informati, critici e consapevoli” è quello di continuare ad essere informati e fare controinformazione per spingere i nostri politici, i nostri amministratori, i nostri concittadini più “ignavi” verso valori quali la tutela della natura e della biodiversità, la giustizia sociale, la solidarietà ed il rispetto della vita in ogni sua forma. Senza per questo essere tacciati di oscurantismo o di essere definiti nemici del “progresso”, proprio come gli oppositori al riso OGM “Golden Rice” sono stati definiti.

David Fiacchini
Biologo
[dr.fiacchini@libero.it]

BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Ladri di geni. Dalle manipolazioni genetiche ai brevetti sul vivente.
Gianni Tamino, Fabrizia Pratesi.
Editori Riuniti

Etica, biodiversità, biotecnologie, emergenze ambientali.
Gino Ditaldi, Margherita Hack, Gianni Tamino.
Edizioni Isonomia.

Le biotecnologie. Atti del seminario di Roma, 24 settembre 1999.
Ministero dell’Ambiente,
Supplemento al mensile “l’ambiente informa” n. 11 – 1999.

Riso transgenico dilemma cinese (Gianni Tamino).
Altreconomia, n. 59, marzo 2005, pp.14-16

Coltivazioni transgeniche e lobbies OGM: Alemanno, il pesto, il decreto indigesto (Gianni Tamino).
Gaia, n. 22/2004, inverno 2005, pp. 16-19

Soia OGM in Argentina: un fallimento annunciato (Sue Bradford).
Gaia, n. 22/2004, inverno 2005, pp. 18-19
(giornalista del NEW SCIENTIST; www.newscientist.com)

RISORSE IN RETE:

www.lescienze.it/index.php3?id=10454
Le Scienze: "Politico blocca studi sugli OGM"

www.greenpeace.it
Greenpeace, uno dei più grandi movimenti ambientalisti del mondo

www.ciboogmnograzie.it

www.equivita.it
Equivita, Comitato Scientifico Antivivisezionista

www.genet-info.org
GENET, rete internazionale informatica che riporta notizie su geni e OGM.