Leggo sulla stampa senigalliese che gli studenti del Liceo Classico “Perticari” di Senigallia da qualche tempo sono impegnati in un progetto di autogestione scolastica. Il progetto comprende scioperi e assemblee ma anche svariati corsi, tra i quali c’è una rassegna cinematografica su Kubrick, una mostra d’arte, un corso di hip-hop, dibatti sulla società moderna, un’informazione scientifica sull’AIDS, un’informazione critica sulla Riforma Moratti, un corso di fotografia, un corso di Yoga, il racconto dell’esperienza “Il Giardino degli Angeli” in Brasile, corsi di musica e di graffiti e molto altro ancora. Argomenti, hanno sottolineato organizzatori e partecipanti, «di solito sorvolati nelle ore curricolari».
Ripenso allora ad un bel libro uscito qualche mese fa (“Tre più due uguale zero. La riforma dell’università da Berlinguer alla Moratti” a cura di Gian Luigi Beccaria, edito da Garzanti): un punto di vista semplice, chiaro e illuminante sui cambiamenti in corso nel mondo della scuola. Se ne consiglia la lettura, a dosi massicce, prima e dopo i pasti.
C’era una volta una concezione della cultura secondo cui la validità e l’utilità dell’istruzione erano intrinseche, si sarebbe detto universali, importanti di per sé, prima e aldilà della loro spendibilità sul mercato. La perenne attualità di latino, greco, filosofia, matematica, storia, fisica nasceva proprio da questa universalità: conoscerli voleva dire innanzitutto saper riflettere, sviluppare una coscienza critica su passato e presente, in definitiva conoscere se stessi. Valori senza tempo.
C’erano una volta, almeno fino a 10-15 anni fa, un Liceo Classico e un Liceo Scientifico letteralmente rivoluzionari, in cui poteva entrare il figlio di un operaio e uscirne a testa alta di fronte a chiunque, con parecchi assi da giocare nel gioco della vita.
C’era la voglia di ammettere che, in fondo, la scuola e l’insegnamento sono una questione semplice. Ai diversi livelli, nelle diverse culture, con i diversi linguaggi umani, letterari e scientifici, si tratta sempre di insegnare tre cose: leggere, scrivere e far di conto. Passano i millenni, ma resta immutato l’eterno rapporto tra docente e discente, tra la capacità, l’intelligenza e la serietà con cui il primo sa trasmettere il sapere, e la capacità, l’intelligenza e la serietà che il secondo mette nell’apprendere. Non sbagliava di molto Gramsci, quando diceva che studiare è anche una posizione della schiena.
Poi, a partire dalla metà degli anni Novanta, prima Luigi Berlinguer e poi Letizia Moratti hanno deciso che la scuola andava adeguata ai tempi, aperta alla società, al territorio, al mercato del lavoro, alle tre “i” (internet, inglese, impresa), insomma a tutta la paccottiglia politicamente corretta della nostra epoca. I “riformatori” erano e sono animati da ottime intenzioni, ma da queste – Manzoni insegna – non è possibile difendersi.
Come in ogni S.p.A. che si rispetti, non si deve parlare di studenti ma di utenti o clienti, non di insegnamento ma di «offerta formativa»; la scuola deve fornire ai giovani «skill professionali», un «portfolio delle competenze», una «metodologia laboratoriale», attraverso moduli didattici, crediti e debiti formativi che aprano la strada al mondo del lavoro. Ovviamente il sapere deve essere personalizzato, la scuola «modellata sullo studente», anzi con l’autonomia degli istituti si vuole che «i docenti e i ragazzi siano chiamati a gestire la scuola, si rimbocchino le maniche, adottino decisioni, trovino il modo di comporre i conflitti».
Per quel che riguarda la didattica, per essere alla moda nella scuola nuova si dovrebbe trattare, fra l’altro, di lavoro, guerra, pace, sport, sessualità e AIDS, anoressia, fumo, politica, educazione stradale, ambiente e inquinamento, depressione, violenza negli stadi, pedofilia eccetera. Si dovrebbe fare di tutto, insomma, tranne sedersi un po’ e studiare. Quando proprio non si può fare a meno di aprire un libro, lo si faccia nel modo più indolore e piacevole possibile: l’ultimo anno di corso, per esempio, si studi solo il Novecento. Non va ancora bene? Niente paura, tanto gli esami di riparazione a settembre non ci sono più, le insufficienze gravi diventano 6 rossi, i “debiti formativi” sono perennemente condonati e di fatto c’è la promozione garantita fino a 18 anni, a meno che non si uccida il preside. Esagero? Ciascuno può giudicare.
Di fronte ad una situazione del genere, ogni iniziativa di autogestione e di «riappropriazione della scuola» attraverso il rifiuto dei contenuti “classici” del sapere corre almeno un rischio: fare inconsapevolmente il gioco dei riformatori (o meglio: controriformatori) annidati al Ministero e travestiti da pedagoghi illuminati.
Cari studenti del “Perticari”, siete contro le discriminazioni nell’accesso all’istruzione, ma non vi sentite discriminati da un’impostazione simile, che appiattisce tutti verso il basso e riduce la cultura all’utilità? Dite che «il sapere non è in vendita», ma non vi rendete conto – voi per primi – di correre il rischio che non vi si venda più nessun sapere, ma solo dei manuali d’uso?
È vero: costa meno fatica e sudore navigare su Internet che imparare i verbi irregolari greci, tradurre Tacito o studiare logica e analisi matematica. Così come è confortante sapere che un 4 a fine anno diventerà un 6 rosso e il professore ve lo perdonerà. Ma se il “sistema” è quello che vi ho descritto, sono più anti-sistema le vecchie, dolorose ma sane bocciature oppure le pacche sulle spalle degli eterni condoni? Sono più rivoluzionari, più “utili” Socrate, Cicerone, Virgilio, Newton, Leopardi, Pirandello oppure i dibattiti sulla società moderna, i corsi di fotografia e gli argomenti «di solito sorvolati nelle ore curricolari» in cui vi state cimentando? E ancora: cosa potremmo definire classico e cosa moderno in un mondo come il nostro? C’è proprio bisogno di diventare maghi di Windows, super esperti di nuove tecnologie e “new economy”, e poi sbagliare i congiuntivi?
Auguri, ragazzi.