Intervista ad Alberto Gregorini

Alberto Gregorini

Ho conosciuto Alberto Gregorini attraverso le pagine del suo libro, “Qui non è Hollywood”, un diario della sua esperienza in una comunità di recupero per tossicodipendenti, una confessione delle proprie umane debolezze, ma anche un esilarante racconto pieno di ironia.

Confesso che ho provato una certa emozione a conoscere di persona il protagonista di questo bel racconto; è stato come se la storia non fosse finita, ma fosse viva, attuale, e continuasse per me. Insieme a Roberto Rocchetti e Valeria Bellagamba abbiamo chiacchierato con Alberto, a partire dal suo libro.
Alberto Gregorini presenterà “Qui non è Hollywood” il prossimo venerdì 31 marzo nell’ambito di Scripta Volant, la rassegna di “incontri con l’autore” organizzata dal Centro Sociale Saline e da Popinga.

(domanda) La prima cosa che colpisce, in “Qui non è Hollywood”, è la forte ironia, la capacità di rompere, con le parole, la tensione di un ambiente, la gravità di una situazione. Forse perchè ridiamo delle cose che ci fanno più soffrire?

(risposta) Vero. Quello che tu hai visto nel libro è il mio modo d’essere: ironico, soprattutto autoironico. Però a volte esagero: sdrammatizzare troppo mi porta a prendere le cose con troppa leggerezza.

(d) Leggendo la prima parte del libro confesso di aver fatto qualche grassa risata a voce alta. Nella seconda parte l’ironia non muore, ma viene compressa.

(r) Era la situazione in se ad essere seria; francamente c’era poco da ridere. Ero quasi alla fine di un programma terapeutico, e stavo andando nella direzione opposta a quella sperata. Credo che, in quel momento, la strada migliore fosse aprirsi di più con gli operatori, e favorire l’introspezione.

(d) Come valuti il personale che hai trovato in comunità? Quale approccio “curativo” hanno seguito con te?

(r) Nella comunità in cui sono stato, ho trovato molte persone competenti e capaci di aiutarmi. Allo stesso tempo, l’approccio seguito non era quello di rinchiuderci fra quattro mura, insomma non ti stavano troppo addosso a controllarti. Ti davano invece la libertà di uscire, di tornare per qualche tempo alla propria vita, per metterti alla prova. Quindi c’era anche la possibilità di trasgredire, di sgarrare; purtroppo a volte avvenivano ricadute, è successo. Tuttavia questa libertà è, secondo me, essenziale, perchè poi quando esci definitivamente devi affrontare la realtà, che non è quella ovattata della comunità. Insomma, quando esci hai in mano la tua vita al 100%, e questo puo disorientare.

(d) Altre comunità non lasciano così liberi?

(r) Altre comunità danno la possibilità di rimanere dentro per sempre. Secondo me questo non è un modo per risolvere il problema, è un modo di fuggire, eludere il problema. Io penso che un limite di tempo serva. Anche dove ero io alcuni facevano “stronzate” di proposito per farsi allungare il programma, perché non si sentivano pronti. Ma tale modo di fare non può durare a lungo.
So comunque che oggi tutte le comunità stanno andando in questa direzione, tendono ad esempio ad accorciare la durata dei programmi di recupero. Inoltre prima molte comunità non accettavano una persona se ancora in trattamento metadonico, mentre oggi lo fanno quasi tutte. Perché, quando ti ritrovi senza metadone, ti scopri vulnerabile, il richiamo della sostanza è ancora molto forte. Questo è rischioso.

(d) Li dentro, in fondo, hai imparato che “questa volta tocca a te”, e che devi contare sulle tue forze.

(r) Fin dall’inizio devi essere consapevole che devi essere tu a riprendere in mano la tua vita. E prima degli altri, con l’aiuto degli altri, devi essere tu a riuscire a capirti. Ma persone disposte ad aiutarti ci sono, io di aiuto ne ho trovato tanto, sia in comunità che fuori, come al SERT, per esempio. A me hanno trovato persino un lavoro.

(d) Ora Alberto ho da farti la solita domanda, ma la più importante: perché ci si fa? Tu ne parli diverse volte, anche facendo ridere. Potremmo dire che la droga spegne un dolore interiore, insopportabile?

(r) Come scrivo nel libro, io non avevo “buoni” motivi per farmi, motivi concreti, catalogabili come “a rischio”: non ho genitori separati, non ho problemi di lavoro, e così via.
Sintetizzando, hai ragione: ci si droga per non soffrire, per addormentare il cuore, per dimenticare una sofferenza interiore, per curare un’ipersensibilità che altrimenti non si riesce a controllare. Anche se poi farsi non porta a niente, ti togli quella sofferenza psicologica (momentaneamente, tra l’altro), ma poi accumuli molte altre sofferenze, a forza di correre dietro ai soldi per farsi, alla miriade di problemi che fa della tua vita un disastro. E non è detto che si esce dal tunnel: qualcuno va avanti ad oltranza, finché il fisico, tanto è debilitato, cede con l’overdose.

(d) Nel libro lanci un segnale ai tuoi amici, quelli di sempre; dici che non ti hanno capito. Dopo questo libro, pensi che loro sono riusciti a capirti meglio?

(r) Fondamentalmente sono i tossici che non vogliono farsi capire. I tossici stanno per i fatti loro. Quando gli amici li cercano, loro hanno i loro “giri”, vanno altrove. Direi che sono stato io a non volere vicino i miei amici, non addosso colpe agli altri. Probabilmente il senso di quella frase del libro si può rovesciare.

(d) A proposito di “giri”, quanto ci metterei io ora, qui, a trovare la “roba”?

(r) A te che non sei del “giro” servirebbe un pò di tempo, altrimenti bastano 10 minuti. È più difficile trovare un’aspirina, la farmacia può essere chiusa, e comunque lì può esserci coda.

(d) Nel sentire comune il tossico è “il” pericolo. In realtà è “in” pericolo. Spesso emotivamente fragile, quasi sempre in pericolo di vita.

(r) Esatto. Ma sul sentire comune, o per lo meno su come si discute in pubblico di droga e di tossici, avrei molto da dire. Ad esempio quando si parla di droga in TV non vedi mai un tossico o un ex-tossico, che parli in prima persona; insomma manca l’opinione dei protagonisti. E spesso se ne parla in maniera inappropriata. Uno che secondo me discute di tossicodipendenza centrando il problema è Don Gallo, ad esempio.

In ogni modo se la società è malata, noi siamo coloro che manifestano più evidentemente la malattia. Dovremmo chiederci, più di quanto facciamo, dove stiamo andando, per cosa stiamo correndo. Rimane un fatto che abbonda il consumo generalizzato di farmaci per dormire, antidepressivi, pillola per il giorno, pillola per la sera, pillole per vivere. Persino il divertimento è un dovere, un bene di consumo dal quale sta male rinunciare. Si arriva persino ad uccidere gli altri a causa dei propri malesseri, e ciò dovrebbe rappresentare il più serio campanello di allarme.

Ma, ripeto, il problema va risolto alla radice, o almeno dobbiamo capirne le radici, perché non credo che è sempre possibile una cura. Forse i problemi affettivi delle persone non sono nemmeno completamente sanabili, ma almeno è bene sapere di essere a rischio, di essere portatore di particolari sensibilità. Qualche mese di comunità la consiglierei a tutti, anche a chi non ha problemi di droga, per indurre una maggiore apertura mentale, per educare all’introspezione, ad interessarsi degli altri, capirli meglio.


Nell’ambito degli appuntamenti di Scripta Volant, Alberto Gregorini presenterà il suo libro il prossimo venerdì 31 marzo presso i locali del Centro Sociale Saline, a Senigallia, in via dei Gerani 8, con inizio alle ore 21.15. Qui trovate altre informazioni sulla rassegna Scripta Volant.

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