Intervista a Leonardo Badioli

Leonardo Badioli

Leonardo Badioli presenterà “Il dito del Diavolo” il prossimo venerdì 7 aprile nell’ambito di Scripta Volant, la rassegna di “incontri con l’autore” organizzata dal Centro Sociale Saline e da Popinga. Lo abbiamo intervistato.

(domanda) Leonardo, avevi motivi fondati, o quanto meno una valida giustificazione, per scrivere questo librone?

(risposta) “Non avevo niente da fare”, risponderebbe Luigi Tenco, intendendo con questo sprezzamento una motivazione formidabile. Non solo per il fatto di essere senigalliese. Per questa singolarità italiana di avere una storia tanto piena: è la nostra biodiversità nel mondo. La storia da noi è come l’erba trista, la trovi dappertutto e non ci fai neanche caso. Non la riconosciamo. Anch’io quando ho cominciato sapevo poche cose a proposito del Valentino tanto da pensare che trenta pagine e due settimane sarebbero bastate…

D. Invece?

R. Invece ci ho messo tre anni lavorando quasi tutti i giorni.

D. Ma Tenco parlava d’amore. Come si fa a innamorarsi del Valentino? Quale simpatia può suscitare un simile personaggio, e quale attualità può avere il modello politico di Machiavelli?

R. Il Valentino indubbiamente emana un fascino nero e perverso, e questo fatto di essere odioso lo segnala particolarmente alla memoria (per quanto Marinella Bonvini Mazzanti mi disse che sì, era cattivo, ma mai quanto le multinazionali). Machiavelli è simpatico perché pur essendo serissimo nelle sue cose, era anche un divertente mattacchione. Attualità purtroppo ce l’ha. Quanto più esecriamo il suo pensiero, tanto più siamo costretti a dargli ragione. Il giorno in cui non avremo più bisogno di Machiavelli potremo anche permetterci di dimenticarlo. E sarà un gran giorno: ma ci arriveremo mai?

D. E cosa hai potuto aggiungere a quello che già si sapeva?

R. Come storico non so. Sulla strage di Senigallia, “il bellissimo inganno” per chiamarla in modo letterario, non mancavano le informazioni: bisognava però raccoglierle e metterle insieme; poi c’è il fatto che, in una certa misura, è chi racconta che fa la storia, e decide per esempio cosa ne fa parte e cosa no. Nella storia come la racconto io, c’entra davvero parlare di Luca Signorelli e degli affreschi di San Brizio? Chi la legge si accorgerà che il collegamento tiene. Ma questa è una faccenda che riguarda più che altro riguarda il narratore.

D. Volevo evitare la domanda, ma dal momento che mi inviti, allora dimmelo: storia o romanzo?

R. Ti rispondo con un esempio. Una volta sono andato alla presentazione di un bel libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, “L’uomo che si credeva il re di Francia”, a Pesaro. Ho chiesto all’autore: quanto sarebbe stato diverso questo libro, che pure è perfettamente documentato, se l’avesse scritto un altro? Perché la verità non sta soltanto nella documentazione. Importante è smascherarla. Importante è anche il modo in cui costruisci una storia e la trasformi in racconto.

D. E lui cos’ha detto?

R. Ha detto: “Questa domanda mi fa pensare a uno che scriveva una storia… ” Ma io sapevo già che “Il Diavolo” rischiava di non piacere agli storici perché lo trovavano troppo letterario e ai letterati perché lo trovavano scarso di invenzione.

D. Ci sono modelli che sfuggono a questa polarità?

R. Direi di sì. Se dovessi indicarne uno, col dovuto rispetto delle proporzioni, sceglierei quello manzoniano della Colonna Infame. Però questo Dito del Diavolo ha una particolarità: che si avvale di molte fonti come materiale di costruzione del racconto. Ho potuto ricostruire dialoghi autentici, e li ho lasciati nella lingua del primo cinquecento perché traducendoli in linguaggio odierno avrebbero perso quasi tutto il sapore. Non conosco molti esempi del genere.

D. A un anno dalla pubblicazione hai già raccolto commenti?

R. Sì. Qualcuno l’ha trovato “illeggibile”. Quelli che l’hanno letto lo hanno trovato “bellissimo”. Posso dire che preferisco i secondi?

D. Troppo intellettuale?

R. Dio ne liberi e scampi! Non c’è altra maniera di rendersi antipatico che fare il saccente. Il libro è scritto in italiano; vorrei dire: in buon italiano. Tutto qui. Oggi tutti sanno leggere e scrivere. Più o meno. Però mi è rimasto impresso un pensiero di Giuseppe Pontiggia: “La letteratura è tante cose, ma direi che è sempre critica del linguaggio, perché recupera il senso delle parole, la potenza della lingua”. Credo che questa intenzione non manchi nel “Dito del Diavolo”. Certo non è “Il Codice da Vinci”, sul quale alcuni mi chiedono un’opinione a causa di una coincidente presenza leonardesca. Il thriller di Dan Brown è congegnato perché il lettore si mangi le pagine. Leggendolo, se pure la traduzione gli rende merito, non impariamo assolutamente niente sul linguaggio; e forse un linguaggio più critico rallenterebbe la foga di passare oltre. Il Diavolo invece è come un ciambellone: si mangia a fettine, non tutto in una volta. E’ quello che si chiama “ritmo”. Un ritmo controllato.

D. Il Dito del Diavolo è un libro autoprodotto. Che diffusione può avere un libro costruito in questo modo?

R. Una delle differenze, se vogliamo restare sull’improponibile, sta nel fatto che Dan Brown può avere venduto cinque milioni di copie e io solo cinquecento. Questo è dovuto al fatto che il “Diavolo” è un libro artigianale, costruito da me con due amici, il grafico Franco Fileri e l’illustratore Andrea Mattiussi. Con loro si può fare un libro con caratteristiche differenti da quelle dell’industria. Del resto, se esiste un’industria culturale perché non dovrebbe esistere un artigianato culturale? E poi chi è meglio: Guzzini o la bravissima vasaia Aldina Olivi? Paragoni come questi non si pongono. Come lei, noi tre siamo artigiani. Siamo scontrosi e non andiamo alla televisione. E viviamo bene lo stesso. Belli fuori e puliti dentro.

D. Consigli da dare a un giovane senigalliese?

R. Solo se me li chiede. Piuttosto ne ho io da chiedere: io vivo il presente in modo meno diretto del loro. Ma loro devono, complessivamente, saperne più di me. Coscienza generativa e trasformazionale. Se non fosse così saremmo rovinati.

D. Altri libri?

R. Il tempo in cui si scrive è solitudine, ma viene compensato dal messaggio che si riesce a consegnare: e uno scritto, pur stampato, è come una lettera personale, specialmente per chi ti conosce. Ho tre titoli in mente e due manoscritti nel cassetto. E tutto il tempo che spetta a un sessantenne.

D. Buon lavoro, allora.

R. Grazie.


Nell’ambito degli appuntamenti di Scripta Volant, Leonardo Badioli presenterà il suo libro il prossimo venerdì 7 aprile presso i locali del Centro Sociale Saline, a Senigallia, in via dei Gerani 8, con inizio alle ore 21.15. Qui trovate altre informazioni sulla rassegna Scripta Volant.

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