Ilvo Diamanti: non rassegnamoci alla sfiducia

Invitato a parlare sul tema “comunicare la speranza” per l’ultimo incontro della Scuola di Pace di Senigallia, Ilvo Diamanti, sociologo e politologo, docente dell’Università di Urbino, è stato tutt’altro che accademico. Al contrario è apparso combattivo, convincente, e motivato a suscitare la reazione dal pubblico, che non è restato certo indifferente. L’incontro è  ora riascoltabile integralmente su questo sito.

La speranza è fiducia nel futuro, l’auspicio che i propri ideali si realizzino, e magari che si possa sopravvivere per vederli realizzati. Ma oggi, afferma Diamanti, “non c’è tanto posto per la speranza“. Ma perché fiducia e futuro sono parole così lontane?

La prima parola-chiave è futuro. Il futuro rimanda ai giovani. “Ma il nostro paese ha abolito la gioventù“. Tutti si considerano giovani. Non accettiamo l’idea dei cicli di vita, non accettiamo di invecchiare. Questo significa che non coltiviamo l’idea di un futuro che riguarderà le generazioni che verranno dopo di noi.
E del resto oggi il 90% degli italiani pensa che i giovani avranno un futuro peggiore di quello dei loro genitori. Sostanzialmente tutti ne sono convinti. “Ma non puoi avere fiducia se non hai una idea del futuro“.

E poi la fiducia. Fiducia nello Stato, nei partiti, nelle banche, nel sindacato. Oggi è bassa, sempre di più. Le uniche istituzioni a tenere sono le forze dell’ordine e il Presidente della Repubblica. Questo riflette i sentimenti di una società che ha paura. E ha anche sfiducia nel prossimo. Il 70% delle persone pensano, sostanzialmente, che dagli altri ti devi guardare, che non c’è spazio per il confronto.

La perdita di fiducia, in primis, è nella politica. Un tempo essa, sebbene casta, era riconosciuta come portatrice di ideologie e fedi. Ci diceva cosa avremmo voluto diventare. Elaborava e comunicava grandi progetti per il futuro. Oggi la politica è passata dai progetti ai programmi, alle agende, agli slogan. I partiti sono stati rimpiazzati dai loro leader. Le grandi storie collettive, comuni, sono oggi piccole storie personali. Nessuno dice cosa vogliamo diventare domani. Al massimo si propone cosa fare nei successivi 5 anni, o magari un anno, o un mese.

In questa nostra società siamo disabituati alla presenza degli altri. La società si è individualizzata. Ma allo stesso tempo è globalizzata, e la si può conoscere in tempo reale, grazie ai mezzi di comunicazione. Questo porta a perdere, o mutare, il proprio rapporto con lo spazio e con il tempo. E abbiamo tutti la sensazione che ciò che avviene nel mondo, ciò di cui veniamo subito a conoscenza da qualunque parte provenga, possa influenzarci direttamente, e ci sentiamo impotenti. Questo genera ansia, paura.

I mezzi di comunicazione con cui osserviamo il mondo globalizzato non evitano comunque la solitudine, quella vera. I giovani su Internet sono sempre insieme agli altri, ma non li incontrano mai. Contribuiscono ad una società di guardoni, dove chi guarda sa di essere guardato. E le nuove urbanizzazioni sono dominate dai condomini che facilitano l’isolamento dagli altri. Non ci sono piazze dove incontrarsi; al loro posto parcheggi e strade.
Un tempo si cresceva nelle strade. Oggi si passa il tempo davanti alla TV in cui crediamo di vedere il mondo. Poi andiamo in viaggio attraversando solamente non-luoghi: gli aeroporti, i villaggi turistici.

In realtà è molto più facile alimentare la sfiducia, la paura, che non la speranza. E, anche elettoralmente, gli sceriffi hanno più successo dei missionari. Non importa che in 20 anni i reati non siano aumentati oltre l’1%. Non importa che il tasso di criminalità in Italia sia inferire alla media europea. La sicurezza, da almeno 10 anni, è la parola politica che funziona di più. Ricordiamo i personaggi felicemente coniati dall’attore Antonio Albanese: il “Ministro della paura”, il “Sottosegretario all’angoscia”.

La via d’uscita è non rassegnarsi a tutto questo. Perché in larga misura tutto ciò non è realtà, ma superstizione. Il bene comune non si dice ma si fa. Le buone notizie non sono popolari. La speranza non è di moda.

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