Caso Moro: quella mano sbadata…

La signora Nunzia Damiano abita al numero 96 di via Gradoli, a Roma, in un anonimo condominio sulla Cassia. La mattina del 18 aprile 1978, viene svegliata da frettolosi passi nell’appartamento soprastante, e poco dopo si accorge che sul soffitto della cucina si sta allargando una macchia di infiltrazione d’acqua. Corre ad avvisare l’ingegner Borghi, l’inquilino del piano di sopra, prima che si allaghi mezzo mondo. Suona all’interno 11 una, due, tre volte: non c’è nessuno. Non le resta che chiamare i pompieri.

La caduta del covo

La colpa è del telefono della doccia lasciato aperto e appoggiato contro il muro, ma l’appartamento riserva ben altre sorprese: è un covo delle Brigate Rosse, ancora “caldo” cioè in uso.
Magari tenendo la scoperta riservata si potrebbero organizzare appostamenti e fermare eventuali frequentatori, come già fece il generale Dalla Chiesa a Robbiano di Mediglia nel ‘74; invece la notizia è subito data in pasto a giornali e TV, e l’appartamento diventa la grande vetrina delle BR: armi in bella mostra sul tavolo, volantini, divise della Polizia e dell’Alitalia, targhe false. Questo toglie ogni dubbio: si tratta della centrale operativa dei terroristi che il 16 marzo hanno sequestrato Aldo Moro e ucciso i cinque agenti della scorta. Il capo brigatista Mario Moretti, che abita il covo sotto la falsa identità di Mario Borghi, addirittura apprende la notizia dalla TV e si guarda bene dal far ritorno a casa.

La perquisizione del 18 marzo

Si tratti di scoperta accidentale o pilotata, subito affiorano strane coincidenze.
La Polizia è già stata in quel condominio. Il 18 marzo, appena due giorni dopo la strage di via Fani – non si saprà mai se durante una perquisizione a tappeto o dopo una soffiata – le forze dell’ordine arrivano a via Gradoli 96 e ispezionano uno per uno gli appartamenti. Il magistrato che conduce le indagini, dottor Infelisi, è stato chiaro: degli appartamenti chiusi o si sfondino le porte o si attenda l’arrivo degli inquilini con il piantone. L’ordine, eseguito in innumerevoli casi con gran disagio di cittadini innocenti, proprio quella volta che poteva avere effetti di incalcolabile portata, viene disatteso. Arrivati all’interno 11 e non ricevendo risposta, gli agenti se ne vanno senza accertamenti: a detta dei vicini, gli inquilini sarebbero persone tranquille. La Commissione Moro censurerà questa clamorosa omissione, definendola “grave inosservanza”, e la magistratura scoprirà un particolare che ha dell’incredibile: la relazione di servizio di quella perquisizione, datata 18 marzo 1978 e saltata fuori solo quattro anni dopo, risulta scritta su carta intestata “Dipartimento di Polizia”, un organismo costituito solo nel 1981 dopo la legge di riforma. Si tratta di un falso.

La seduta spiritica

Il nome “Gradoli” riemerge una seconda volta in pieno sequestro, il 2 aprile. Quella domenica, nella casa di Alberto Clò sulle colline bolognesi, si riunisce un gruppo di professori universitari con tanto di mogli e bambini. Tra gli altri, ci sono anche Romano Prodi e Mario Baldassarri. L’atmosfera è quella di una scampagnata, peccato che piova. Per allentare la noia, a qualcuno viene l’idea di tenere una seduta spiritica ed evocare gli spiriti di Sturzo e La Pira per chiedere loro dove sia la prigione di Moro. Tra i farfugliamenti del piattino, un paio di nomi viene fuori chiaramente: G-r-a-d-o-l-i, B-o-l-s-e-n-a. La rivelazione arriva alla segreteria DC e da qui al ministro dell’Interno Cossiga, che fa perquisire il paesino di Gradoli, in provincia di Viterbo. Eleonora Moro, moglie del rapito, suggerisce di verificare se esista a Roma una strada con quel nome, ma le viene risposto che a Roma una via Gradoli non c’è. Scriverà Leonardo Sciascia, nella sua relazione di minoranza alla Commissione Moro: «Non meravigli che negli atti di una commissione parlamentare d’inchiesta si parli, come in una commedia dialettale, di una seduta spiritica: ma dodici persone, come si suol dire, degne di fede, e per di più appartenenti al ceto dotto della dotta Bologna, sono state sentite una per una dalla Commissione e tutte hanno testimoniato della seduta spiritica da loro tenuta e da cui è venuto fuori il nome Gradoli».
Dietro l’occultismo, con ogni probabilità si nasconde un espediente per far filtrare una notizia riservata senza doverne rivelare la fonte (forse l’Autonomia bolognese, come ipotizzato dalla Commissione Stragi e anche da Giulio Andreotti). Che poi questa notizia sia stata manomessa e depurata del particolare decisivo (la via anziché il paese), è una questione ancora più profonda e inquietante.

Insomma: il covo BR di via Gradoli, base operativa del sequestro Moro e abitazione di Mario Moretti, sfiorato il 18 marzo e dimenticato il 2 aprile, cade finalmente il 18 aprile grazie a una “manina” che lascia la doccia aperta. Chi è stato? Anche concedendo che l’allagamento del covo sia stato provocato – volontariamente o meno – da qualche brigatista e che gli “spiriti” si riferiscano al paesino, sembra strano che Moretti abbia potuto dormire sonni tranquilli per due settimane in quel posto divenuto così pericolosamente “omonimo”. Forse, gli “spiriti” avevano visto giusto e volevano veramente aiutare le indagini? Oppure solo lanciare un avvertimento a chi lo sapesse cogliere?
Ambigua, torbida, a tratti grottesca, ma gravida di implicazioni e sottintesi, la vicenda del covo BR di via Gradoli rappresenta lo snodo cruciale del caso Moro. Vi si intrecciano inefficienze, ritardi, menzogne e una serie impressionante di errori (non sappiamo se colposi o dolosi). Di via Gradoli certamente gli investigatori e i servizi di sicurezza sapevano; e se ci fossero arrivati prima e avessero gestito le informazioni un po’ meglio o solo un po’ meno peggio, sarebbe stata diversa la storia del sequestro e forse anche quella dell’Italia.

Il falso comunicato n° 7

Ma torniamo al 18 aprile. Quello non è un giorno qualsiasi: è il trentennale della vittoria DC alle elezioni del ’48. E proprio quel giorno, quasi contemporaneamente all’allagamento, avviene un altro fatto enigmatico: è diffuso il comunicato n. 7, che annuncia la morte del prigioniero e l’occultamento del corpo nel Lago della Duchessa, sui monti tra Lazio e Abruzzo. Si scoprirà che il comunicato è un falso, non opera delle BR ma di tale Antonio Chichiarelli, un falsario romano legato alla banda della Magliana e ai servizi segreti; sulle prime però gli inquirenti lo giudicano autentico, scatenando affannose quanto inutili ricerche. Allora, a cosa e a chi serve la messinscena? Di sicuro, dando per autentico un comunicato falso, s’invade il campo della comunicazione brigatista, si aggiunge un rumore che rende indistinguibili le voci, si intacca la “credibilità” delle BR verso le masse. Ma non si potrebbe anche voler saggiare la reazione dell’opinione pubblica di fronte ad un epilogo tragico? Lo stesso Moro, dal carcere del popolo, scriverà di una “macabra prova generale” della sua esecuzione. E perché il riferimento a quel lago? Ci sono nel messaggio allusioni oscure, comprensibili solo dai veri destinatari?
A distanza di tempo, un’impressione resta: gli accadimenti del 18 aprile 1978 sembrano messaggi in codice rivolti alle stesse Brigate Rosse, affinché il sequestro si avviasse ad una rapida conclusione. Ma da chi? Possiamo ipotizzare l’esistenza di un “partito non brigatista dell’omicidio”, che spinse per la fine cruenta chiudendo tutti i canali di una possibile trattativa, per vie sia istituzionali che – diciamo così – extra-legali. È probabile, infatti, che da quando Moro aveva iniziato a parlare, rivelando forse informazioni riservate, si fosse messa in moto una macchina volta insieme a liquidare l’ostaggio e a recuperare il materiale compromettente (il famoso “memoriale”).
Verosimilmente, il messaggio che dalle operazioni Gradoli e Duchessa dovette arrivare al commando che tratteneva Moro poteva essere questo: “vi stiamo addosso; sappiamo dove siete, siamo in grado di smantellare le vostre sedi e di occupare i vostri canali di comunicazione con i mass-media. Non vi venga in mente di gestire l’affare in modo diverso da quello indicato nel comunicato della Duchessa”. Le Brigate Rosse eseguirono.

Bibliografia consigliata

  • Leonardo Sciascia, “L’affaire Moro”, Adelphi 1978
  • Giuseppe Zupo, Vincenzo Marini Recchia, “Operazione Moro. I fili ancora coperti di una trama politica criminale”, Franco Angeli 1984
  • Sergio Flamigni, “La tela del ragno. Il delitto Moro”, Kaos 1993
  • Sergio Flamigni, “Convergenze parallele. Le Brigate rosse, i servizi segreti e il delitto Moro”, Kaos 1998
  • Alfredo C. Moro, “Storia di un delitto annunciato. Le ombre del caso Moro”, Ed. Riuniti 1998
  • Francesco M. Biscione, “Il delitto Moro. Strategie di un assassinio politico”, Ed. Riuniti 1998
  • Sergio Flamigni, “Il covo di Stato. Via Gradoli 96 e il delitto Moro”, Kaos 1999
  • Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri con Giovanni Pellegrino, “Segreto di Stato. La verità da Gladio al caso Moro”, Einaudi 2000
  • Giovanni Fasanella, Giuseppe Rocca, “Il misterioso intermediario. Igor Markevic e il caso Moro”, Einaudi 2003
  • Vladimiro Satta, “Odissea nel caso Moro”, Edup 2003
  • Commissione Stragi (XIII legislatura), resoconti stenografici delle audizioni del 17/06/1998, 23/06/1998, 10/11/1999 e 11/11/1999.Materiale reperibile in rete:
    www.apolis.com/moro

“Il Codice Da Vinci” di Dan Brown

Il Codice Da Vinci

Perché Dan Brown ha venduto milioni di copie in tutto il mondo? Semplice, ha usato una ricetta vincente mettendo insieme i più grandi misteri della storia (il Santo Graal, i quadri di Leonardo, i dogmi religiosi, i codici numerici) condendo il tutto con una narrazione intensa e coinvolgente con un ritmo da film di azione.
Il risultato è un libro leggibile tutto d’un fiato che farà storcere il naso a molti (soprattutto ai cattolici credenti), ma che va preso per quello che è: un “romanzo”. Leggi tutto ““Il Codice Da Vinci” di Dan Brown”

Droghe, una nuova legge

Il 18 Novembre scorso è approdata in Senato la cosiddetta “legge Fini”, un giro di vite nei confronti del traffico e del consumo di stupefacenti. Il punto di forza, l’elemento innovativo della legge – si dice – è l’equiparazione tra droghe “leggere” e droghe “pesanti”, sotto l’aspetto della pericolosità e delle sanzioni. L’approccio è: non esistono droghe leggere, la droga è droga. Detenere, cedere o consumare tali sostanze, non importa in che quantità, sono comportamenti puniti dalla legge. In particolare, possedendo più di una quantità massima prestabilita, si diventa spacciatori e si rischiano pene da uno a vent’anni di carcere, secondo la gravità; il consumo è comunque punito con sanzioni amministrative (il ritiro della patente, del porto d’armi, del permesso di soggiorno, ecc.) revocabili se l’interessato si sottopone a programma terapeutico, di cui si è certificato il buon andamento.

Dal punto di vista teorico ed etico l’impostazione “dura” sembra accattivante e miete consensi, a patto però di mettersi d’accordo su alcuni punti.
In primis, su cosa è droga e cosa non lo è. La distinzione non è per nulla facile: se definiamo droga ciò che produce alterazione mentale e percettiva creando dipendenza, allora dovremmo includervi anche il vino, il caffè e le sigarette. Inoltre, bisognerebbe capire in che misura una legge dello Stato può sanzionare un comportamento supposto auto lesivo per l’individuo. Ad esempio, fatta salva l’ovvia (ma non per tutti) distinzione tra peccato e reato, una legge che sanzionasse l’azione sommamente auto lesiva dell’integrità individuale – ovvero il suicidio – sarebbe probabilmente incostituzionale, per violazione dell’articolo 2. Più in generale, sarebbe da stabilire se il “diritto” alla salute (art. 32 della Costituzione) si traduce automaticamente in “dovere” alla salute. Se questo esistesse, e se quindi lo Stato avesse il potere sanzionatorio per farlo rispettare, perché si continuano a vendere i tabacchi in regime di monopolio? Delle due l’una: o il dovere alla salute esiste e il monopolio dei tabacchi è incostituzionale, oppure questo dovere non esiste ed è incostituzionale il divieto all’uso personale di stupefacenti. Tertium non datur.

Dal punto di vista pratico, invece, bisogna fare i conti con l’applicazione delle questioni di principio alla società fatta di persone in carne ed ossa. Il proposito del legislatore è quello di combattere un fenomeno sociale – mediante la repressione, la prevenzione, eccetera – senza “se” e senza “ma”, trattando le droghe leggere come le droghe pesanti ed assumendo che il consumo di droghe leggere sia l’anticamera per quelle pesanti. Si sente dire, infatti, che l’80% dei consumatori di droghe pesanti (eroina e cocaina in primis) ha iniziato facendo uso di droghe leggere come la marijuana o l’hashish. E questo cosa prova? Per dimostrare che da una certa premessa segue una certa conclusione, è un non-senso logico osservare la conclusione e cercare di inferire la premessa. Se chiedessimo agli eroinomani se da bambini bevevano latte, probabilmente il 100% ci risponderebbe di sì. Dovremmo forse dedurne che l’uso di latte, specialmente in tenera età, apre la strada al consumo di eroina? Tutti gli alcolizzati hanno cominciato con un bicchiere di vino, ma qualcuno se la sentirebbe di proibire il vino perché c’è chi eccede fino al bottiglione? Se un nesso tra il consumo di marijuana ed eroina esiste, esso trova semmai ragione nella contiguità o nella coincidenza dei rispettivi mercati: ad uno spacciatore del mercato nero conviene ovviamente vendere droghe pesanti (più remunerative e generatrici di dipendenza fisica) piuttosto che droghe leggere (che non creano dipendenza fisica). Se non altro per una questione di marketing: bisogna fidelizzare la clientela.

Dal punto di vista legale, poi, uniformando le pene per lo spaccio di marijuana ed eroina, siamo davvero sicuri di ridurre lo spaccio e la conseguente diffusione? Se deve rischiare lo stesso numero d’anni di carcere, uno spacciatore opta per lo spaccio di droghe pesanti che, come dicevamo poco fa, sono più remunerative. L’approccio del proibizionista, fondato sull’equazione “io non lo farei = nessuno lo deve fare”, è assoluto, etico: c’è il Male da estirpare e bisogna farlo con tutti i mezzi, ad ogni costo. Non si rende conto che, molto spesso, crea problemi maggiori di quelli che pretende di combattere. Le leggi proibizioniste sulle droghe, in particolare quelle leggere, hanno il merito d’aver trasformato negli ultimi 40 anni un problema socio-sanitario in una questione d’ordine pubblico. Esattamente come avvenne negli Stati Uniti degli anni ’20 con il diciottesimo emendamento, che proibiva la vendita e il consumo di alcolici: anni dopo l’approvazione della legge, bevevano praticamente tutti, anche quelli che prima erano astemi; la pericolosità del prodotto era aumentata perché l’alcol era di pessima qualità non essendoci alcun controllo nel mercato nero; la malavita faceva affari d’oro sui traffici e i crimini aumentavano. È vero: la polizia girava per cantine sequestrando tonnellate di whisky e arrestando migliaia di persone, così come oggi si sequestrano quintali di fumo sui tir provenienti dall’Albania, ma questo significava (e significa) ridurre il problema oppure cercare di svuotare il mare con un cucchiaino? E ancora: un tizio sorpreso allora a farsi una birra era veramente un delinquente? E uno che oggi si fa uno spinello può essere considerato un delinquente?