Una piazza di Bruxelles

(Con molto piacere Popinga ospita un contributo originale di Vincenzo Fidomanzo, umanista eclettico, scrittore e critico d’arte. Vincenzo interviene, in questo articolo, sulle vicende tragiche del Congo a cavallo tra XIX e XX secolo, legate al nome di Leopoldo II, controverso Re del Belgio, al quale è ancora oggi dedicata una piazza nel centro di Bruxelles)

Alcuni ritengono, contrariamente all’opinione comune secondo la quale “la storia insegna”, che, invece, caratteristica propria della storia sia proprio quella di non insegnare un bel nulla. Chi scrive è meno radicale e ritiene, più semplicemente, che la storia insegna che la storia non insegna. Non si spiega altrimenti l’incessante, disperante ripetersi di vergognosi eccidi, di sanguinosi eventi, bellici e non, ed efferatezze d’ogni tipo e in ogni luogo; atrocità che stanno a testimoniare, forse, una certa qual morbosa tendenza, da parte degli storici, alla registrazione degli avvenimenti più violenti, una tendenza che concede minore attenzione o addirittura sottace accadimenti meno drammatici. Ma, in ogni caso, dal triste panorama offerto nei millenni di storia umana, sembra sia legittimo far propria la considerazione joyciana che vede nella storia l’incubo dal quale si tenta di destarsi.
(1)

Da più di sei decenni l’opinione pubblica planetaria non sembra riuscire a capacitarsi di come sia stato possibile, non tecnicamente, ma umanamente possibile, il genocidio del popolo ebraico. La bibliografia sull’atroce argomento è sconfinata, ma pare che questo ennesimo mistero di iniquità continui a rimanere tale.
Dell’Olocausto, come lo si chiama ormai da alcuni anni, si discute con una profondità di analisi e una frequenza tale da far sì che anche i più refrattari non possano più negarne o solo minimizzarne la paurosa realtà.
A questo genocidio si riconosce il triste primato non soltanto quantitativo, ovvero dell’ammontare delle vittime, ma anche quello del metodo di esecuzione che, nella sua fredda scientificità, non sembra avere paragoni con qualsiasi altro precedente e neppure successivo.

Ma se l’Olocausto è stato l’orrore che è stato, è forse il caso di rammentare che il secolo da poco trascorso si era aperto con uno sterminio di immani proporzioni, ma consumato in una parte del mondo più appartata, periferica rispetto alla “civile” Europa: l’Africa nera.
Di questa pagina oscura della storia dell’umanità è responsabile il sovrano dei Belgi di allora Leopoldo II (1835-1909, re dal 1865).

Dalle esplorazioni del corso del fiume Congo condotte da Henry Morton Stanley (1841-1904), nel 1879 (effettuate proprio per conto del re dei belgi), Leopoldo II, per primo, aveva riconosciuto le nuove possibilità di sfruttamento del ricco territorio. Già dal 1876 “aveva promosso una conferenza geografica al termine della quale fu costituita una Association Internationale du Congo che si prefiggeva «di aprire alla civiltà la sola parte del globo dove il cristianesimo non fosse penetrato». (Corrado GIANTURCO, La rivoluzione congolese, Milano, Dall’Oglio, 1970)”.(2)

Fino dal 1884 gli Stati Uniti riconobbero – primi al mondo – l’Association Internationale du Congo come “stato indipendente”. Nel 1885 la conferenza di Berlino, arbitrata dal cancelliere Otto von Bismarck, che pure non nutriva simpatia per le avventure oltremare e la politica colonialista, considerata pericolosa per l’equilibrio europeo, attribuisce la sovranità dello Stato neutrale del Congo – aperto al libero commercio di tutte le nazioni – al re Leopoldo. Il 28 aprile dello stesso anno il parlamento belga “ratificò le decisioni della conferenza e diede al re poteri «personali» sul nuovo Stato.”(3)
Dal 1° luglio 1885 “gli immensi dominii africani di Leopoldo presero il nome di «Stato Indipendente del Congo» («État Indépendant du Congo»), fermo restando che il suo Sovrano e la sua amministrazione centrale sarebbero rimasti a Bruxelles. Il Congo ebbe per bandiera la stella d’oro in campo azzurro. Leopoldo non vi pose mai piede.”(4)

Si apre quindi un forsennato, rapace e brutale sfruttamento delle risorse del Congo, esclusiva, assoluta proprietà del re Leopoldo che stabilì una sorta di monopolio sui beni che avrebbero dovuto costituire oggetto di libero scambio secondo gli accordi internazionali convenuti. Un decreto regale emanato “nello stesso giorno in cui era stata formalmente proclamata la nascita dello Stato […] dichiarava che tutte le «terre vuote» erano di proprietà dello Stato.”(5)

Il traffico dell’avorio fu la prima lucrosa attività; i congolesi erano costretti – anche con le armi – ad accettare come compenso piccole quantità di tessuto, perline e delle barrette di ottone, designate dallo Stato quale moneta del territorio. Ai congolesi non erano consentite transazioni in denaro.
Si reclutarono grandi masse di portatori per le lunghe spedizioni nel cuore del paese retribuendoli con il cibo appena sufficiente al loro sostentamento. Venivano incatenati per il collo e spesso frustati con la “chicotte, una frusta di pelle di ippopotamo grezza, essiccata al sole e tagliata in maniera da formare una lunga striscia a spirale dalla punta aguzza.”(6)

Si continuò con l’imposizione agli indigeni del lavoro forzato – una vera schiavitù -, poi di “tasse incredibilmente pesanti” che furono costretti a pagare “raccogliendo gomma [caoutchouc tratto da un lungo rampicante spugnoso del genere Landolphia] in condizioni sempre più dure, procurando gratis rifornimenti di viveri” per i coloni.
E “quando per la fame, le malattie, la disperazione, il lavoro incessante ed estenuante” vennero meno ai loro compiti, abbandonando le loro case e fuggendo nei boschi per evitare la punizione, che consisteva nel taglio della mano, truppe composte da militari negri, “originari di tribù ostili e istigati e condotti” da belgi – la Force Publique -, diedero loro la caccia, li massacrarono, bruciarono i loro villaggi e rapirono le loro donne tenendole in ostaggio, spesso stuprandole.(7)
Un ufficiale-agente commerciale belga di questa milizia “decorò” il giardino della sua residenza con le teste tagliate agli indigeni, come trofei di caccia.(8)

Si giunse a stabilire un regime di schiavitù e di terrore tale – si arrivò persino alle crocifissioni (9) -, da produrre una paurosa diminuzione della popolazione del Congo.
“Lo Stato Libero del Congo [aveva] all’ingrosso un milione di miglia quadrate di superficie. Quando Stanley scoprì il corso del Congo e osservò le sue rive densamente popolate, egli ne stimò la popolazione a 40 milioni; cifra indubbiamente esagerata. Negli anni seguenti, dopo che la regione era stata esplorata in ogni direzione da viaggiatori di nazionalità diverse, il calcolo oscillò tra i venti e i trenta milioni. Nel 1911 fu fatto un censimento ufficiale: non fu pubblicato nel Belgio, ma registrato in uno dei dispacci del Consolato inglese. Esso rivelò il fatto che rimanevano soltanto otto milioni e mezzo di indigeni. Il sistema del Congo durò per ben vent’anni. La perdita di vite non potrà mai esser conosciuta neppure con [approssimazione]. Ma i dati circa periodi successivi si possono procurare per parecchie regioni; e uno studio accurato di essi dà la cifra di dieci milioni di vittime come un calcolo approssimativo moderato.”(10)
Mark Twain lo definì amaramente un “record”.(11)

Come osserva Gianni Baget Bozzo “le vittime della colonizzazione belga non usavano scrittura, e perciò non hanno lasciato memoria: i più grandi orrori della storia umana non giungeranno per questa ragione mai alla nostra coscienza. È solo quando i vinti hanno la scrittura e preservano la loro cultura che il violento è riconosciuto come tale.”(12)
Di quei muti, e per questo ancor più odiosi, orrori furono però testimoni osservatori internazionali, come diplomatici (13) e missionari (14), che denunciarono quelle atrocità mediante la pubblicazione di articoli, opuscoli e libri che sollevarono un qualche sdegno nella società internazionale di allora.

Uno di questi scandalizzati osservatori, Edmund Dene Morel (1873-1924) fondò nel 1904, in Inghilterra, la Congo Reform Association; autore di numerosi scritti sull’argomento, chiese, nell’autunno dello stesso anno, a Mark Twain di scrivere un pamphlet di denuncia della politica imperialista del re Leopoldo del Belgio in Congo. Una volta scritto questo documento Mark Twain ne propose la pubblicazione ad alcune riviste. “Nessuna osò farlo”, e così Il soliloquio di re Leopoldo, questo è il titolo del suo scritto, fu pubblicato dalla American Congo Reform Association con alcune “fotografie che testimoniavano le mutilazioni delle quali i negri erano vittime” e, in copertina, il disegno di una croce e un machete con la dicitura dal tono beffardamente costantiniano “By this sign we prosper”. Neanche una “rivista in America segnalò la presenza del libro per gli stessi motivi per i quali ne era stata rifiutata la pubblicazione.”(15)

Convinto oppositore del sistema politico monarchico, Twain aveva visto nella efferata condotta del re belga una conferma della fondamentale tirannia di ogni monarchia. La vecchia e corrotta Europa gli sembrava il ricettacolo di ogni nefandezza, rapacità e violenza. Benché la politica interna degli Stati Uniti di allora fosse infangata da periodici scandali sulla corruzione di governatori, ministri e senatori, tema da lui affrontato nel suo The gilded age (16), quella estera non aveva, a quella data, assunto ancora il carattere imperialista che le sarà proprio nei decenni a seguire.(17)
Il primo ed il secondo conflitto mondiale poi, originati entrambi nel cuore del vecchio continente, sembrarono giustificare la presunzione di superiorità morale degli Stati Uniti su di esso.

Con la relativamente recente costituzione della Comunità Europea il continente sembra volersi mondare del suo tenebroso passato di guerre ed orrori per presentarsi al mondo, nel nuovo millennio, come una forza saggia, positiva, ormai pacifica e pacificatrice. Ancora incerta sulla omogeneità della sua politica estera e anche priva di una carta costituzionale vera e propria, sembra intenda proporsi come una alleanza di antiche e nobili civiltà e culture, possibile modello da emulare da parte di altri paesi e continenti, non soltanto come una comunità economica.
Il percorso di commossa e dolente correzione del proprio triste passato da parte della Germania, che ne fa attivamente parte, è sotto gli occhi non del solo Occidente.(18)

Colpisce invece che la Comunità Europea – che si vuole purificata e riscattata dagli orrori del suo recente passato – abbia la sede del suo parlamento in una città, Bruxelles, che su uno dei suoi più importanti viali – Avenue de Tervueren – ospita una piazza intitolata al mostruoso re Leopoldo.(19)
Chi ne dubiti consulti una semplice cartina stradale o prenda visione anche di Google Maps (su Internet) per averne una rapida, mesta ma autorevole conferma.

È un po’ come se a Berlino esistesse una piazza con il nome del suo austriaco Führer. La Germania però ha saputo punire con la damnatio memoriae – l’antico sistema per tentare di cancellare moralmente gli orrori di un tiranno negandone la memoria – almeno nelle opere pubbliche e nella toponomastica.
La stessa ex-Unione Sovietica, nel processo di ridiscussione del suo passato, ha ripristinato l’originale nome di Pietroburgo a Leningrado.
In Italia si vive, curiosamente, in un periodo nel quale discusse figure politiche paiono in procinto di comparire nelle città sotto forma di targhe di vie e piazze. Ma, dopo tutto, si tratta della condotta non allineata di un paese facente parte di una più ampia coalizione.

Il caso di Bruxelles – sede del governo europeo – pare più vergognoso perché testimonia di uno scandaloso oblio, forse di una negazione di fatti ormai comprovati, se non – e sarebbe ancora più grave – di un persistente, sconcio omaggio della popolazione belga ad un sovrano – le Roi-Bâtisseur – che, senza dubbio, ha contribuito a consolidare la prosperità del paese, ma a quale prezzo.
E Bruxelles dovrebbe rappresentare onorevolmente un continente che intende costituire esempio alternativo all’ormai unica superpotenza residua.
Non pare il caso di formulare modeste o immodeste proposte di immediata cancellazione dell’ignominioso toponimo, sembra semmai necessario far sì che questo macroscopico insulto all’integrità dell’Europa, che si vuole rinnovata, venga reso di più ampio possibile dominio pubblico.
È questo l’intento di questa nota.

Vincenzo Fidomanzo

Roma, luglio 2007

NOTE

(1) Si tratta dell’arcinota risposta di Stephen Dedalus a Mr. Deasy. Cfr. James Joyce, Ulisse. Trad. it. di Giulio de Angelis. Milano, Mondadori, 1982, p. 47. Il testo originale recita: “History, ‘Stephen said,’ is a nightmare from which I am trying to awake.”

(2) Dalla nota introduttiva (p. 16) di Clara Zagaria a Mark Twain, Soliloquio di re Leopoldo. Apologia del suo ruolo in Congo [1905] con un saggio introduttivo di Gianni Baget Bozzo. Bari, Dedalo, 1982, 56 p. Traduzione italiana della stessa autrice della nota di King Leopold’s Soliloquy. A defence of His Congo Rule (1905). Una nuova traduzione del libretto è stata pubblicata da Giuliana Bendelli (con una postfazione di Paolo Maria Veronesi) con il titolo: Soliloquio di re Leopoldo. Una difesa del suo governo in Congo. Como, Ibis, 2001, 73 p. Già alcuni decenni fa venne pubblicato Il soliloquio di re Leopoldo con il sottotitolo Le rivelazioni della stampa sui massacri compiuti dalle truppe belghe nel Congo. Roma, Editori Riuniti, 1960. 78 p.
Nella nota 1 a p. 11 del testo di Gianturco si legge ancora: «e di dissipare l’oscurità che ne circondava le popolazioni.»

(3) Cfr. le pp. 16-17 della nota di Clara Zagaria già citata.

(4) Corrado Gianturco, La rivoluzione congolese, cit., p. 15.

(5) Cfr. Adam Hochschild, Gli spettri del Congo. Traduzione di Roberta Zuppet. Milano, Rizzoli, 2001, p. 147. Sulla copertina compare il sottotitolo: Re Leopoldo del Belgio e l’olocausto dimenticato. Si tratta della traduzione italiana di idem, King Leopold’s Ghost. A Story of Greed, Terror, and Heroism in Colonial Africa. Boston, Houghton Mifflin, 1998. Questo libro ha goduto di una certa fortuna editoriale, è stato infatti ripubblicato negli Stati Uniti nel 1999 dalla stessa casa editrice e in Inghilterra, a Londra (Papermac, 2000). Questo testo, scritto da un docente dell’Università di Berkeley, servirà ad alcuni ad approfondire alcuni aspetti del perfido sterminio e ad altri a venirne semplicemente a conoscenza.
Ma i testi più autorevoli sul Congo di Leopoldo sono comunque stati scritti da un diplomatico belga che fu anche funzionario territoriale in Congo: Jules Marchal (1924-2003) e sono: L’État Libre du Congo: Paradis Perdu. L’Histoire du Congo 1876-1900. 2 vv. Borgloon, Éditions Paula Bellings, 1996; e ancora idem, E. D. Morel contre Léopold II: L’Histoire du Congo 1900-1910. 2 vv. Paris, L’Harmattan, 1996. Questi due importanti studi sono il frutto di approfondite ricerche tra i documenti conservati negli archivi del Ministère des Affaires Étrangères di Bruxelles; documenti che fino a qualche anno fa erano in parte esclusi dalla consultazione.

(6) Cfr. Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., p. 152.

(7) Cfr. le pp. 24-25 del già citato Soliloquio di re Leopoldo di Mark Twain, Bari, Dedalo, 1982.

(8) Joseph Conrad (1857-1924) viaggiò sul fiume Congo negli anni del traffico dell’avorio, e pensò certamente a qualcuno di questi crudeli militari-mercanti – forse proprio a Léon Rom, l’ufficiale delle teste mozzate – nel creare lo spietato Kurtz del suo noto Cuore di tenebra (1902).
Nel 1909 – l’anno della morte di Leopoldo II – anche sir Arthur Conan Doyle (1859-1930) scrisse un The crime of the Congo. An Account of conditions in the Belgian Congo. London, Hutchinson & Co., 1909, tradotto l’anno successivo in francese. Questo libro è stato di recente riproposto anche nella sua traduzione francese.

(9) Cfr. Soliloquio di re Leopoldo, cit. p. 48.

(10) Cfr. Edmund Dene Morel, La croce del negro. Traduzione di Anita Dobelli Zampetti. Roma, Casa Editrice Rassegna Internazionale, 1923, pp. 151-152. Si tratta dell’edizione italiana di idem, The black man’s burden. The white man in Africa from the fifteenth century to the World War. Manchester, National Labour Press, 1920. x, 241 p.
Questi “antichi” dati hanno trovato conferma nelle recenti stime di Jan Vansina, professore emerito di storia e antropologia dell’Università del Wisconsin, ritenuto il maggiore etnografo vivente specializzato nelle popolazioni del bacino del Congo.

(11) Cfr. ancora Soliloquio di re Leopoldo, cit., p. 41.

(12) Idem, p. 8.

(13) Si pensa al console britannico Sir Roger Casement (1864-1916), autore del Report on the condition of the Congo state (1904), una relazione sulle condizioni in cui versavano gli indigeni congolesi negli anni dell’amministrazione del re Leopoldo.

(14) Si pensa al missionario americano presbiteriano di colore William Henry Sheppard (1865-1927). Sul ruolo svolto dai missionari cattolici è meglio stendere un pietoso velo.

(15) Sono ancora osservazioni di Clara Zagaria (Soliloquio di re Leopoldo, cit.), p. 17. Cfr. Jacques Willequet (1914-), Le Congo belge et la Weltpolitik 1894-1914. Bruxelles, Presses Universitaires de Bruxelles – Paris, Presses Universitaires de France, 1962; per le indicazioni sull’operazione di propaganda, manipolazione e corruzione della stampa – europea e americana – intrapresa dal re belga attraverso il Bureau de la Presse dello stato indipendente, vedi la p. 107 e passim.

(16) Mark Twain, The gilded age. A tale of to-day con Charles Dudley Warner (1873). Cfr. idem, L’età dell’oro e altri racconti. Prefazione di Luigi Berti. Traduzione di Adriana Valori Piperno e Enzo Giachino. Roma, G. Casini, 1954. xii, 678 p.

(17) A ben considerare la radice stessa degli Stati Uniti è imperialista – si pensi al trattamento dei nativi -, e la sua prosperità era in gran parte frutto dello schiavismo.
Nel 1904 Leopoldo attribuì importanti diritti di concessione – aprendo una striscia di territorio attraverso lo Stato del Congo – a influenti esponenti della finanza statunitense quali Nelson W. Aldrich, John D. Rockefeller junior, i Guggenheim, Thomas Ryan, J. Pierpont Morgan, nel tentativo di mettere a tacere il movimento internazionale di denuncia del suo operato tessendo una fitta rete di potenti relazioni di interesse economico. Si veda ancora Adam Hochschild, Gli spettri del Congo, cit., p. 296.

(18) Un esempio di mea culpa non inautentico può essere considerato il libro di Karl Jaspers dal titolo evocativo del contenuto La colpa della Germania. A cura di Renato De Rosa. Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1947. xxvii, 151 p. Il libro è stato ripresentato ai lettori italiani con il titolo: La questione della colpa. Sulla responsabilità politica della Germania. Milano, Cortina, 1996. 140 p.

(19) Pare che esistano ancora una gigantesca statua equestre di Leopoldo, su un lato del palazzo reale, e un suo busto, decorato da camelie e azalee, tra le serre del sontuoso castello di Laeken.

Chi scrive si augura che in chi legge alberghi ancora una superstite capacità di indignazione, una facoltà della quale, di recente, certa stampa è stata capace di ironizzare.

18 pensieri riguardo “Una piazza di Bruxelles”

  1. Ottimo articolo e ottimo il fine che persegue.
    Interessante anche la riflessione sulla storia che insegna o non insegna; per come la vedo io la storia insegna a chi vuol comprendere veramente ciò che è successo, quindi non a tutti.
    Essere disposti ad imparare qualcosa da quello che è successo oggi è cosa rara; ben vengano queste riflessioni e ben vengano le cancellazioni di indegni luoghi di memoria per personaggi come Leopoldo II.
    Ma senza guardare fino a Bruxelles mi accontento di guardare un po’ più vicino, al nostro “bel paese”: se è vero che Stalingrado è diventata San Pietroburgo (in Russia) ancora in Italia dobbiamo leggere vie e strade chiamate Stalingrado, Leningrado ecc (cosa che tra l’altro ha suscitato particolare stupore tra persone che hanno vissuto nel dramma dell’ex urss)
    E per fortuna ormai sull’olocausto sappiamo tutto (o quasi) come giusto che sia, ma guai a ricordare, che so, i morti delle foibe o i morti fatti dal comunismo: si tocca un tabù, oppure un nervo scoperto.
    Quando accanto alle tante innocenti vittime dei lager, ricorderemo anche quelle dei gulag, delle foibe, del Congo e di ogni parte del mondo saremo tutti un po’ meno ipocriti.

  2. Mi scuso se aggiungo un secondo commento, ma per completezza e curiosità sono andato a cercare alcune vie intitolate a personaggi più o meno ignobili presenti in alcune città d’Italia; ecco qualche esempio
    Via Lenin
    Via Stalin
    Via Maresciallo Tito
    Via Unione Sovietica
    Via Mao Tse Tung
    Via Ho Chi Minh
    Via Che Guevara
    Via Trostskji
    Perchè nessuno protesta per queste vie? Perchè sono tollerate anche da coloro i quali, poco tempo fa, protestarono perchè a Fano si discuteva se intitolare una piazza ad Almirante? (che fino a prova contraria era un parlamentare italiano e non è stato un feroce dittatore come alcuni citati e onorati).
    Per me la piazza ad Almirante può anche non essere concessa, me ne frega ben poco anche perchè non sono nostalgico di tempi che sarebbe meglio non fossero mai esistiti ma vedere questi cartelli, solo immaginarli mi fa veramente ridere.

  3. soltanto per segnalare (odio fare queste rettifiche) che l’attuale San Pietroburgo ha sostituito Leningrado e non Stalingrado, che attualmente si chiama Zarizyn (almeno così recita la mia carta della Russia)

    colgo inoltre l’occasione per ricordare a Gabriele che Stalingrado e Leningrado sono state le due città dove si è fermata l’avanzata del Nazismo in Europa

    a Leningrado la resistenza si è protratta per quasi tre anni, mentre a Stalingrado il più potente esercito della Storia, la VI Armata di Von Paulus, forte di 300.000 uomini, 1000 tank e 1200 aerei venne bloccata per quattro lunghi mesi da un esercito di straccioni, un muro umano, che consentì all’URSS di preparare uomini e materiali per il contrattacco che in tre anni avrebbe portato l’esercito sovietico a Berlino

    la più grande pagina di Storia della II Guerra Mondiale, mai riconosciuta e tantomeno celebrata da Hollywood

    il D-day è stato il colpo di grazia, ma il Nazismo è stato fermato e sconfitto nelle pianure russe, soprattutto nella battaglia di Kursk, altro episodio poco conosciuto

    trovo che intitolare vie a Stalingrado e Leningrado sia un giusto riconoscimento a fatti poco riconosciuti dalla Storia “ufficiale” anche perchè le due città non sono affatto collegate ad episodi di crimini contro l’umanità

    sui personaggi che hai citato dovrei aprire un dibattito infinito e non ne ho voglia

    per il resto l’articolo è interessante, complimenti

  4. Pardon, sono stato tratto in inganno dall’articolo nel quale si citava Stalingrado e non Leningrado; tuttavia non cambia la questione.
    La storiche battaglie combattute in Russia hanno certo contribuito a mettere in ginocchio il nazismo, ma non vedo proprio cosa c’entri questo.
    Come è anche scritto nell’articolo in Russia il nome di Leningrado è stato eliminato, ripristinando il vecchio nome, la cosa è significativa.
    Io non trovo che intitolare vie e piazze a Leningrado e Stalingrado sia un giusto riconoscimento; per amor di correttezza dovremmo allora chiamarle “via della battaglia di Leningrado o di Stalingrado” a voler essere precisi.
    Sugli altri personaggi citati vorrei proprio sapere cosa ne pensi, almeno se sei d’accordo con me che sia indegno dedicare vie a dittatori come Tito.

  5. prima di fare proposte dovresti leggere la storia di queste “battaglie”, ammesso che tali si possano definire

    scoprirai che furono ben più che semplici battaglie

    il cambio dei loro nomi fa parte di un condivisibile revisionismo storico dell’ex URSS, ma se intitoliamo una via a Cartagine non ci vedo niente di male a chiamarne un’altra Stalingrado, sono luoghi della memoria

    quanto ai personaggi citati ritengo che i nomi delle strade debbano essere condivisi da tutti i cittadini, pertanto eviterei le celebrazioni politiche

  6. “Via Lenin
    Via Stalin
    Via Maresciallo Tito
    Via Unione Sovietica
    Via Mao Tse Tung
    Via Ho Chi Minh
    Via Che Guevara
    Via Trostskji”
    E poi sono io quello che “devia” solo per fare caciara, eh?”
    Queste sono le polemiche che si facevano nel cesso dei maschi alle superiori…

  7. Sveglia Patregnani! L’articolo si intitola “una piazza di Bruxelles” e io sto parlando di piazze e vie intitolate a feroci dittatori, quindi non mi sembra di far polemiche, diversamente da te che ancora una volta ti arrampichi sugli specchi e non rispondi mai nel merito di quello che uno dice.
    Per Maddeche: dici che i nomi devono essere condivisi da tutti i cittadini; io non penso che siano condivisibili strade intitolate a Tito o Stalin, per una questione di buon gusto o di rispetto delle vittime (già che ci siamo intitoliamone qualcuna a Hitler o Pol Pot, personaggi dai quali alcuni di quelli citati non si differenziano molto, perlomeno in quanto a numero di vittime fatte)
    Davide io non so di cosa parlavi tu nel “cesso delle superiori” ma questi sono argomenti seria e non si tratta di mera caciara.
    Per una volta cerca di fare uno sforzo e rispondere nel merito: pensi sia giusto intitolare una strada a Stalin o Tito?

  8. No. Non penso sia giusto. Ma quei nomi (nella maggior parte dei casi) non sono stati attribuiti in tempi recenti. Anche quei nomi fanno parte della storia di una comunità. Al di là delle polemiche, secondo questa logica portata all’estremo, potrebbe sembrar giusto l’abbattimento di tutti i monumenti di epoca fascista. Ogni momento lascia il suo segno. Una strada intotalata Stalin è il segno di un momento storico, sicuramente un momento balordo…ma cancellare non ha senso.
    Ciao. Civediamo al concorso Vedovelli.

  9. Alcuni nomi sono stati attribuiti in tempi non poi così tanto lontani (penso alle strade intitolate a Tito); per me intitolare significa ricordare “rendendo omaggio” diciamola così… forse sarebbe meglio ricordare un po più spesso questi personaggi nelle pagine dei libri di storia che dimostrano di esserne carenti.
    Un monumento può anche avere una sua utilità, una targa no.
    Se seguiamo il tuo ragionamento allora dobbiamo intitolare una via ad Hitler, a Mussolini, a Pol Pot, a Saddam ecc.
    Ripeto, meglio qualche pagina ben scritta nei libri di storia.
    Ciao
    P.s. che roba è il concorso vedovelli? Scusa l’ignoranza…

  10. No. Guarda. Non mi hai capito. Forse ho scritto male:
    Mettiamo che a il sindaco di “Frittole” nel 1957 intitola una strada a Stalin. Bene. Oggi, 2007, tu passi in quella strada. La “fotografia storica” che hai non è quella del periodo staliniano…no! La fotografia è: A Frittole nel 1957 c’era una Giunta Comunale di cretini. Ma cancellare non ha senso. é storia anche quella. Ok? Hai capito cosa intendo ora?
    Ciao (per quel che riguarda i libri i storia….ne parleremo)

  11. Si si… io intendevo che col senno di poi sarebbe meglio cancellarle, per rispetto delle vittime, magari intitolare quelle strade alle vittime fatte da loro.
    Però ci siamo.
    Ciao

  12. Bene. sono contento che ci siamo intesi uan volta tanto.
    Ah il Concorso di Poesia Vedovelli è quello organizzato dalla nostra comune amica Anna Bernardini…Quindi…non puoi scappare 🙂

  13. Tra il serio ed il faceto, a proposito di nomi di vie.
    Mio zio mi raccontava sempre questo episodio avvenuto dopo l’incidente mortale di Bruno Mussolini,avvenuto a Pisa. Non so in quale città, ma gli dedicarono una via.
    Pare che sulla targa in marmo un ignoto, con un pezzo di carbone, poco sotto il nome, scrisse:
    Via anche il padre“.

  14. Proprio oggi, 11 agosto 2007, History Channel ha trasmesso un lungo documentario sugli orrori del Congo e sull’orrenda figura di Leopoldo II.
    Poich*é in passato avevo già visto un pezzetto di questo documentario, ritengo che ogni tanto lo ritrasmettano.
    Gli interessati che posseggono Sky (io non ho neppure il televisore ed oggi ero ospite in casa di parenti) potranno informarsi per sapere quando lo ritrasmetteranno

  15. Vedi Davide… strano ma stavolta ci siamo capiti, chi l’avrebbe mai detto! 🙂
    Si Anna mi ha già informato del concorso Vedovelli.
    Ciao

  16. Per chi fosse interessato alla storia della spartizione dell’Africa tra le varie potenze europee, segnalo un buon libro non troppo specialistico, ma molto esplicativo:

    Henry Wesseling, La Spartizione dell’Africa (1880-1914)

    In particolare viene spiegata bene la storia del Congo belga, la regione più ricca dell’Africa che fu assegnata allo stato più piccolo e debole d’Europa, il Belgio, grazie alle lotte tra le varie potenze coloniali (Francia, Germania ed Inghilterra su tutte) e grazie al lavoro diplomatico del suo sovrano, il suddetto Leopoldo II.

    Uno stato grande 2.400.000 Km2 (8 volte l’Italia) nelle mani di un piccolo sovrano ambizioso e furbo, che sognava colonie nei mari e si ritrovò con un immenso territorio nel cuore dell’Africa.

    La divisione arbitraria del continente africano, attuata dagli europei, ci aiuta anche a comprendere molti degli attuali conflitti che si combattono all’interno di Stati assolutamente disomogenei dal punto di vista etnico e religioso.

    In definitiva la Storia può anche non insegnarci nulla, ma sicuramente ci aiuta a capire le dinamiche e le ragioni degli avvenimenti che si svolgono nel mondo attuale.

    Per quel che riguarda il diverbio sulla toponomastica, posso solo dire che anche io cercherei di eliminare i nomi di alcuni dittatori dalle vie delle nostre città, ma si potrebbe aprire una lunga polemica su chi e cosa eliminare.

    Per esempio, la figura di Cristoforo Colombo è vista di buon occhio in Europa, mentre non lo è altrettanto tra gli indigeni americani: per noi è un grande esploratore, per altre popolazioni è l’inizio di un incubo.

    Lo stesso discorso vale per Leopoldo II che magari in Belgio è considerato un grande sovrano e che ha compiuto le medesime atrocità perpetrate da tutti gli stati colonizzatori.

    Non mi si venga a raccontare che inglesi, francesi, tedeschi o anche noi italiani (nel nostro piccolo) non abbiamo i nostri scheletri nell’armadio o che siamo stati più benevoli verso i colonizzati.

    E allora perché non togliere tutti i riferimenti alla regina Vittoria o agli altri governanti dell’epoca?

    Insomma potremmo entrare in un gorgo da cui non si esce più, dunque penso che ogni popolo debba scegliere le figure da onorare.

    Non vedo perché la Comunità Europea dovrebbe impedire al Belgio di ricordare Leopoldo II, il quale, nel bene e nel male, è stato uno dei sovrani più significativi del paese.

  17. Finalmente voci bibliografiche scritte “comme il faut”! A parte ZUPPET in maiuscolo alla nota 5, tutto perfettamente corretto. L’Autore si è forse fatto aiutare da un esperto nelle arti dell’editoria? Complimenti.

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