Né accanimento terapeutico, né eutanasia

Con l’aumento delle possibilità tecnologiche, può accadere che si ecceda nell’uso di terapie, in malati che non ne traggono giovamento.
Ferma restando la liceità della sospensione di un intervento che si configura come accanimento terapeutico, è da sottolineare, però, come si faccia un uso strumentale di questo concetto, al fine di favorire il diffondersi di una cultura eutanasica.

Il termine “eutanasia” viene dal greco ”eu” e “tanatos” , e vorrebbe dire “buona morte”, presentata come la via da perseguire per porre fine ad una sofferenza “insopportabile”! Ma la morte non è mai né buona né dolce. Il morire è in realtà ancora un vivere; la morte, invece, è un mistero che viene continuamente tacitato e rimosso. E la perdita del senso, anche cristiano, della morte aumenta la paura. Tra medici di ragione e medici di fede, deve esserci sempre il senso comune del mistero.

L’ accanimento terapeutico è l’irragionevole ostinazione in trattamenti da cui non si possa ottenere un beneficio per il paziente, o un miglioramento della sua qualità di vita.

La desistenza terapeutica è l’atteggiamento terapeutico con il quale il medico desiste dalle terapie futili e inutili. Ha la sua base nel concetto di accompagnamento alla morte, secondo criteri bioetica e di deontologia medica, stabiliti ponendosi in antitesi all’accanimento terapeutico.

L’eutanasia è l’insieme di atti compiuti da medici o da altri, avente come fine quello di accelerare o di causare la morte di una persona. Si propone di porre termine ad una situazione di sofferenza fisica e psichica che il malato, o coloro ai quali viene riconosciuto il diritto di rappresentarne gli interessi, ritengono non più tollerabile, senza che un atto medico possa offrire sollievo.

Ma è eutanasia anche il suicidio assistito, ovvero l’atto mediante il quale un malato si procura una rapida morte, grazie all’assistenza del medico: questi prescrive i farmaci, su esplicita richiesta del suo paziente, e consiglia le modalità di assunzione.

La differenza non è tra il credente e il non credente, ma tra chi prende sul serio questi problemi e chi non lo fa.

Il confine tra ciò che si può e ciò che non si può fare…, tra ciò che si deve e ciò che non si deve fare… non è una linea precisa tracciata sul letto dei malati. Ma nel Codice Deontologico del medico, si afferma: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti diretti a provocarne la morte” !

E tale affermazione viene ripresa dal Giuramento di Ippocrate, che dice:

giammai, mosso dalle premurose insistenze di alcuno, propinerò medicamenti letali, né commetterò mai cose di questo genere

Il medico, infatti, è tale per curare la vita sempre e comunque; chi, invece, la vuole sopprimere non è degno di chiamarsi medico, ma si chiamerà “tanatologo”, ovvero lo scientista della morte!

L’accanimento terapeutico è una forma di egoismo, di debolezza, un non voler riconoscere i limiti attuali della medicina: lottare sempre non è fare di più…, ma fare la cosa giusta.

In un gruppo di pazienti anziani ospedalizzati, per esempio, il posizionamento di un catetere vescicale, senza indicazione specifica, si associa ad un aumento della mortalità: quattro volte maggiore durante l’ospedalizzazione, e doppia a 90 giorni dalla dimissione..! Ma capita anche che siano i parenti ad insistere che si faccia di più e così si rischia di prolungare solo l’agonia del paziente!

I bravi medici si fermano a riflettere, riconsiderano le proprie scelte, si confrontano con gli altri, chiedono consiglio ai colleghi. Insomma, mettono da parte il proprio ‘ego’!

La richiesta di eutanasia è spesso motivata da ragioni psicologiche o psichiatriche transitorie o curabili, e dalla inevitabile paura del dolore e della sofferenza; e a farla sono spesso i giovani e i sani, che non immaginano come reale la morte per sé. Sono loro che non sopportano di vedere la vecchiaia e la malattia.

Ma ogni medico sa come il malato grave quasi sempre istintivamente si attacca alla vita che gli rimane. Un conto è guardare il problema quando ci si sente immortali, tutt’altro è lo sguardo di un malato. C’è più speranza nei malati che nei sani! Per usare un linguaggio cristiano, croce e speranza procedono insieme! La sofferenza è sfida radicale, che rivela straordinarie risorse.

Inoltre, pensando al testamento biologico, di cui si discute tanto, da troppo tempo e con idee diverse, dobbiamo riconoscere che non siamo entità pietrificate che penseranno sempre ciò che pensano oggi. Le nostre scelte potrebbero cambiare, soprattutto se ci scoprissimo malati. Una adeguata terapia antidolorifica, e il sollecito accompagnamento del malato, consentono di attenuare o rimuovere il dolore, e di alleviare il senso della sofferenza, riducendo drasticamente la richiesta di eutanasia.

D = P x F

Dove D sta per dolore, P per psiche e F per componente fisica. Sappiamo che ogni prodotto per zero è uguale a zero; dunque, se con gli antidolorifici annulliamo la componente F, oppure con il sostegno morale o con la fede o con la vicinanza fisica – in una parola con l’amore – annulliamo la componente P, il prodotto sarà zero. E senza dolore viene meno la richiesta di ‘farla finita’!

Invece, di fronte al dolore, alla sofferenza e alla morte, la medicina offre una sensazione di impotenza che prelude all’abbandono del malato e della sua famiglia alla solitudine. (segue…)

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