La guerra di Grecia nella letteratura neogreca

Lucia Marcheselli, senigalliese, è docente di lingua e letteratura neogreca all’Università di Trieste.
Popinga ne ha pubblicato l’intervento al convegno “Memorie di un testimone“, oltreché l’articolo “L’occupazione italiana (1941-43) nella letteratura neogreca“. Questo secondo testo prosegue il tema della campagna di Grecia da parte dell’Italia fascista dal ‘41 al ‘43, e della resistenza greca.

Il 28 ottobre (anniversario dello scoppio della guerra greco-italiana del 1940-41) è tuttora, in Grecia, festa nazionale: gli alunni delle scuole sfilano in parata per le vie della città e depongono corone ai piedi del monumento ai caduti.

Perché però uscisse in Grecia un’antologia di opere letterarie e grafiche su quella che i greci chiamano Guerra d’Albania e sull’occupazione nazifascista del 1941-44 sono dovuti passare vent’anni dalla fine della guerra: l’An­tologia di testi letterari di Panaghiotunis e Nathanaìl1 è infatti, non a caso, del 1964.

Un’altra Antologia della letteratura greca della Resistenza, che però riguarda soprattutto i rapporti con i tedeschi, era stata commissionata a Elli Alexìu, nel 1957, dalla Deutsche Akademie der Wissenschaften di Berlino: ne uscì solo un primo volume (prosa), in edizione comune tedesco-greca, nel 19652.

Del 1974 invece (anche qui non a caso) è lo studio sui Testi in prosa sulla guerra e sull’occupazione a cura di Glikerìa Protopapà Bubulidu3.

Queste raccolte di testi, a venti o trent’anni di distanza dalla fine della guerra, dimostrano che una certa pro­duzione letteraria sui temi della Guerra d’Albania, del­l’Occupazione e della Resistenza, c’era: per quanto ri­guarda la prosa, la maggior parte dei testi è più o meno coeva agli avvenimenti, altri, ancora una volta, risalgono ai primi anni ’60, mentre i testi pubblicati negli anni ‘50 sono molto rari4.

Non a caso, dunque, anche gli anni in cui hanno visto la luce tutte e tre le raccolte sulla letteratura della Guerra, Occupazione e Resistenza sono il 1964-65 e il 1974: i primi due sono gli anni della distensione post-kennediana, e il 1974 l’anno della caduta della giunta dei colonnelli.

Dopo il tempo feroce della guerra civile (1946-49) e quello durissimo della repressione, gli anni di Kennedy avevano aperto spiragli di distensione; le elezioni greche del 1963 avevano segnato la caduta della destra e l’avvento al potere del centrista Gheorghios Papandreu (il padre dell’attuale primo ministro e leader del Movimen­to socialista panellenico PaSoK): sembrava di poter cautamente ricominciare a fare i conti con il passato.

Il colpo di mano del re, del giugno 1965 e poi la dittatura dei colonnelli (1967-74) separano le prime due antologie dalla terza raccolta di testi, pubblicata in ambito universitario, da una docente della nuova Facoltà di lettere dell’Università di Giànnina.

L’apparente scarso interesse degli studiosi di letteratura per i testi relativi al tempo di guerra dipende dun­que da cause politiche ben precise, e si spiega con la contraddizione che, già nel 1941, lorgos Seferis individuava così: «In una parola, pareva che fossimo assoluta­mente solidali con i regimi fascisti: quel che li disturbava ci disturbava, e quel che li rallegrava ci rallegrava. […]

Quando entrarono in guerra gli italiani, le cose si acutizzarono ancora di più. Cominciarono anche loro a fare gli arroganti: si sentiva che ci consideravano feudo loro. […]

Non dovevamo provocare, dovevamo essere remissivi, finché non ci colpivano apertamente: dopo, doveva­mo difenderci con tutte le nostre forze. Questa era la mia convinzione.

Bisognerà aggiungere che in quel momento nessuno, nemmeno i più folli, si aspettava la miracolosa esplosione dell’anima popolare, né le vittorie in Albania. Le pre­visioni più ottimistiche dei tecnici arrivavano fino a una linea difensiva sul Vermio per poche settimane: poi il trasferimento della capitale a Creta. I più non mettevano neanche in discussione la conquista fulminea del paese. Quando cercavi di controbattere, ti dicevano con aria sprezzante: “E l’aviazione italiana?” e ti tappavano la bocca. […]

Quando arrivò il 28 ottobre, Metaxàs non riuscì a vedere che solo allora, e non nelle cerimonie allo stadio, tutto il popolo era con lui, con la risposta che aveva dato a Grazzi all’alba. Non riuscì a capire che quel giorno non sanciva, ma abrogava il 4 agosto5 […]. Metaxàs non potè o non volle capire che il 28 ottobre era uscito dal circolo chiuso degli adulatori di piazza Sintagma per diventare un personaggio nella grande tragedia europea.

Il popolo fece il possibile per fargli capire quanto profondamente fossero cambiate le cose. Dal torpore del­l’indifferenza in cui si trovava fino ai primi di agosto si risvegliò di colpo, compatto, fresco, vivo. Resta da vede­re, comunque, se Metaxàs era costituzionalmente in gra­do di recepire i messaggi dell’anima popolare. Così man­tenne alla guida di un simile popolo le stesse mezze calzette che, tra le inaudite convulsioni dell’Europa, gli ammannivano una Grecia campata in aria, fuori della realtà […]

La colpa più grave di Metaxàs, però, non era stata solo di non aver fatto piazza pulita di tutti quei signori. Non si era trattato cioè solo di un’omissione, ma anche di un’azione: aveva favorito nel suo àmbito il disprezzo e la paura dell’indipendenza di giudizio, lo scherno per la libertà, l’assuefazione ai metodi delle guardine di commissariato, la delazione: tutto il complesso dei metodi dei regimi fascisti, ripassato con una mano di colore ellenico, tipo manifesti turistici. Insieme a tutto questo, diede ai suoi anche il “No”. Ma il “No” non si conciliava facil­mente con tutto il resto. Si creò così, in quei manigoldi incoscienti e fondamentalmente zotici che erano gli uo­mini del regime, uno stato d’animo contraddittorio, che difficilmente riuscivano a conciliare, sia pure superficial­mente. Il “No” significava che la Grecia combatteva la guerra più pericolosa della sua storia dalla parte di quelli che erano contro le forze del fascismo. Ma il regime gre­co era anch’esso fascista: com’era possibile far combina­re questi due fatti? La soluzione, furbescamente, la tro­varono gli uomini di Metaxàs: la nostra guerra non era affatto una guerra contro l’Asse – era, nel quadro della crisi mondiale, un episodio del tutto particolare, senza alcun rapporto col resto: la nostra guerra era solo una guerra contro l’Italia – nemmeno: era una guerra contro le forze militari dell’Italia.

A un certo punto, mentre si svolgeva questa strana guerra, i servizi di sicurezza notarono che certi intellettuali tiravano troppo la corda: nei loro articoli contro il nemico usavano con sospetta insistenza frasi che bolla­vano a fuoco l’ideologia di Mussolini. Così una sera li rastrellarono e li portarono in questura. In tempo di pace, li avrebbero caricati su qualche trabiccolo e li avrebbero mandati a intrecciare idilli nelle belle isole dell’Egeo. Ma in quel momento avevano anche degli Alleati: misure del genere non si adattavano alla mentalità alleata. Il com­missario si limitò dunque a dar loro l’ammonizione:

– Signori – disse – siete assolutamente liberi di rafforzare il morale del popolo. Ma non è giusto insultare il fascismo. Siamo anche noi uno Stato fascista. […]

Così, se dovessi rappresentare l’insieme del popolo greco, direi che alla base della piramide la gente sapeva benissimo perché combatteva: combatteva la schiavitù, qualunque schiavitù portata dall’Asse. Ma al vertice del­la piramide dividerei gli spiriti in due categorie: gli avversari dell’Asse in blocco, e gli avversari solo delle For­ze Armate italiane. Questi ultimi, secondo logica, avreb­bero dovuto aver paura che vincessimo la guerra. Gli uomini di Metaxàs, tranne pochissimi, appartenevano a quest’ultima categoria»6.

Se al tempo della dittatura di Metaxàs e dell’Occupazione la classe dirigente greca viveva questa schizofrenia, dovuta al fatto che la Grecia era anch’essa uno stato fa­scista, al tempo della guerra civile e poi della repressione, l’argomento Resistenza e dintorni non poteva non essere un campo minato: come parlare dei fieri soldati del fronte albanese senza dire che erano stati gli stessi, dopo il crollo del fronte e la fuga del re, a nascondere le armi per poi impugnarle contro l’invasore? E che gli esecrati ribelli della guerra civile uscivano anch’essi in gran parte dalle file della Resistenza?

D’altra parte, un numero cospicuo di testi scritti in tempo di guerra, o sulla guerra, erano molto lontani dalla retorica guerresca e patriottarda di maniera, che si contentava di paragonare i soldati della Guerra d’Albania ai combattenti del 1821 senza dire contro che cosa, e perché cosa, il popolo greco aveva combattuto sulle monta­gne dell’Epiro e dell’Albania con tanto accanimento: prima di tutto, anche se la Resistenza non era stata, nem­meno in Grecia, monopolio dei comunisti, nessuno po­teva negare che i comunisti ne erano stati il nerbo, alme­no per quel che riguarda il livello armato.

Ma il Partito Comunista è stato fuori legge, in Gre­cia, fino al 1974: ha avuto per un quarto di secolo la sua direzione e il suo segretario nell’Unione Sovietica, ed è stato, almeno fino alla scissione del 1968, il Partito Comunista più filosovietico e più monolitico dell’Occiden­te. Riconoscergli qualche merito, sia pure pregresso, non rientrava nelle possibilità ideologiche né della destra rea­zionaria degli anni ’50 né della dittatura dei colonnelli.

In secondo luogo, il pacifismo di fondo di molti di questi temibilissimi combattenti strideva con l’iconografia «patriottica» di maniera, risalente più ai tempi dei Komitadzìdes delle guerre balcaniche (1912-13), o al tempo della spedizione di Asia Minore (1922) prima della di­sfatta del Sangario, che non allo spirito della seconda guerra mondiale, soprattutto antifascista e antidittatoriale.

Molti dei canti popolari anonimi fioriti nelle retrovie del fronte albanese, in alcuni dei quali pure prevale la giusta fierezza per aver contrastato l’invasione, sono la migliore dimostrazione delle considerazioni esposte finora:

«Che cos’hai, nero corvo, da gracchiare e strillare? Forse hai sete di sangue? O vuoi delle carogne? Vattene su ad Elbasàn, Morava, Tepeleni, e vedrai corpi greci sepolti tutti in fila. Vattene sullo Smòlika, sopra la Samarina: vedrai corpi italiani, ne son pieni i burroni»7.

Dove traspare l’orgoglio di chi ha avuto il tempo di seppellire i propri morti, ma anche la pietà per gli scon­fitti insepolti.

In altri prevale invece nettamente il giudizio politico sulle responsabilità della guerra: «Non passeranno i barbari sopra la terra greca: Con la grazia di Dio combatteranno i greci. Porco italiano, vattene e prendi un’altra strada e quello che ci hai chiesto prendilo con la spada. […]

Scaglia, mio Dio, la folgore e brucia Mussolini, che noi ci liberiamo, si salvano anche loro. Abbi pietà dei giovani, di quel sangue innocente e scaglia giù la folgore, brucialo Mussolini perché la colpa è sua, che piangon tante madri e giovani ai confini si ammazzano a migliaia.

Aiuta il nostro esercito glorioso, tu, mio Dio,

e sia la fine della guerra buona come l’inizio. […]»

Del resto, i curatori dell’Antologia del 1964 lo dicono apertamente nell’introduzione, che lo spirito che anima questa letteratura di guerra e di resistenza è tutt’altro che guerrafondaio:

«I curatori fanno notare due aspetti di questa edizio­ne e del loro lavoro.

Primo, l’alto livello artistico dei testi […]

Secondo. In tutti si trova diffuso lo spirito pacifista del nostro popolo.

Il nostro è sì un popolo di combattenti, ma non di guerrafondai. E’ di pace che parlano tutti, in quel tempo di guerra: dall’interno della guerra vedono la Pace come unico bene di questa terra […]»9.

Quanto alla qualità artistica delle opere antologizzate, in realtà si osserva una notevole discontinuità nell’Antologia del 1964, che vuole essere onnicomprensiva e uni­sce autori grandi e grandissimi a nomi sconosciuti, ma difetta anche di scrupolo filologico: fra i più interessanti brani antologizzati c’è comunque una delle ultime poe­sie di Iorgos Sarandaris, poeta greco cresciuto in Italia e morto di tifo nel 1941, dopo essere stato al fronte a com­battere contro i suoi amici di giovinezza, stordito dall’im­provvisa consapevolezza della realtà della morte: «NON HO POTUTO ANCORA
Non ho potuto ancora versare una lacrima
Sulla catastrofe

Non ho guardato ancora bene i morti della mia compagnia,
Come hanno perso l’aria che io respiro,

come la musica dei fiori
Il ronzio dei nomi che hanno le cose
Non arriva alle loro orecchie.
Ancora non hanno nitrito i cavalli
Che mi porteranno vicino a loro.
Gli parlerò.
Piangerò con loro
Poi li rialzerò in piedi:
Ci rialzeremo tutti insieme
Come se niente fosse, e la battaglia
Non fosse passata sopra le nostre teste» 10.

Al fronte, insieme con Sarandaris, c’era anche il suo amico poeta Odisseas Elitis, sopravvissuto a quella tragedia e poi insignito del premio Nobel per la letteratura (1979). Elitis ha lasciato testimonianze letterarie di quel­l’esperienza anche in una delle sue opere maggiori, il Dignum Est del 195911. Prima ancora, però, aveva scritto il Canto eroico e funebre per il Sottotenente caduto in Albania12 e un «poema per due voci», l’Albaniade, in cui due voci monologano alternativamente, dal punto di vi­sta delle sentinelle, l’una greca e italiana l’altra:
«[…] – Non c’è nessuno tranne Dio
Che sappia la strada
Del sangue, o sappia come

– Mentre nell’aria si bilancia in cerca di un agnello l’aquila

E già l’agnello ha gli artigli e afferra
Sulla schiena gli spuntano le ali
Dell’Ossa
e del Parnaso!

– “Giovinezza giovinezza, primavera di bellezza!’

Ragazzi dell’Ossa e del Parnaso!
Mitsos! Vanghelis! Iòrgaros! Kanellos!
– Carlo! Giovanni! Guido! Alberto!

– Il ferro si scontra col ferro, un tuono crocifigge la mente
Stridono i denti, la memoria è giudicala dal futuro
ORA SI GIOCA IL TUTTO PER TUTTO!»13.

I due monologhi si intrecciano restando separati,
eppure le linee del pensiero dei giovani che combattono
su opposti fronti non sono totalmente aliene: l’una e l’altra invocano i nomi dei compagni. Fra i prosatori che hanno vissuto l’esperienza della guerra al fronte, e che ne hanno fatto oggetto di rielaborazione letteraria, il più emblematico è probabilmente Iannis Beratis, che nel suo Il largo fiume ha lasciato pagine indimenticabili, purtrop­po quasi totalmente ignote in Italia14. Anche Beratis par­la della guerra senza fanatismi guerrafondai né odio: in guerra si uccide e si muore, si combatte per difendere la propria terra, ma non c’è spazio per l’odio contro il ne­mico, che pure è un invasore: «Tornammo dentro. Erano entrati anche molti altri soldati e parlavano tutti insie­me. Stavano tutti intorno a un soldato bassotto, piccino, vivace, che continuava a ridere allegramente e si cavava varie cose dalle tasche.

Era appena arrivato. Voleva assolutamente vedere il suo fratellino che era lì. L’allarme l’aveva colto per strada – ma chi se ne importa! – non si era fermato neanche un momento. E mitragliavano sodo, quei cornuti.

Aveva preso per la vita suo fratello, che era molto più alto di lui, e lo teneva abbracciato.

E adesso, sergente – eh, Nikolòs? dicevano tutti gli altri soldati intorno a lui. Raccontaci, dai, raccontaci un po’. Ne abbiamo sentito parlare ieri all’Ordine del Giorno.

Rideva, alzava le spalle e chinava la testa, come se fosse timido.

Eh, cosa doveva dire… Ecco, quelle cose lì – quella stilografica d’oro, quell’orologio da polso e quello da tasca, quella tabacchiera lì e quelle due pistole, piccole ma eccellenti… Le aveva portate per spartirsele col suo fratellino… Le aveva trovate là, nelle tasche degli ufficiali italiani uccisi. Non potevamo immaginare che roba avevano addosso. Ecco, anche quel portafoglio lì. C’era dentro anche la sua fotografia – un bel giovanotto! – e anche quell’altra, che si vede che era sua moglie. (Le fotografie adesso giravano di mano in mano). L’aveva ammazzato. Non aveva potuto far altro, perché in quel momento l’aveva visto con una bomba a mano, pronto a tirarla. Gli era saltato addosso di fianco e gli aveva spa­rato. Perciò aveva preso per ricordo quel portafoglio.

Il soldato bassotto si era interrotto un momento, perché tutti gli altri adesso si erano chinati sulle due pistole e le osservavano incuriositi, e lui voleva mostrare qualcosa nel meccanismo. Si tirava fuori dalle tasche delle pallottole, che teneva lì sfuse, e le caricava.

Ah, avevano lavorato bene, benissimo, quella volta lì. Il loro reparto era stato costretto a ripiegare all’improvviso. Loro, una decina in tutto, compresi i due ufficiali che erano davanti a tutti, non era possibile che lo raggiungessero. Si erano buttati nell’acqua, si erano nasco­sti sotto il ponte. L’acqua gli arrivava al petto, e anche più su. La loro fatica più grande era di non far bagnare le armi, lui in particolare la sua mitragliatrice. Le tenevano in spalla, sopra la testa. Sopra di loro, sul ponte, sentivano passare tutto il tempo gli italiani. Passavano, passavano, non la finivano mai. L’acqua era gelata, di ghiaccio. Tutta la notte non aveva fatto altro che muovere i piedi dentro gli stivali. Erano rimasti otto ore così dentro l’acqua. Alla fine avevano sentito di nuovo rumore di battaglia.

“Era il nostro reparto, che si era riorganizzato e tor­nava all’assalto. Gli italiani hanno cominciato a ritirarsi. Li sentivamo correre come matti sul ponte. Allora siamo saltati fuori anche noi e abbiamo occupato il più in fretta possibile l’altro capo, abbiamo piazzato le mitragliatrici e abbiamo cominciato a falciarli per non farli passare. Non ne è passato più neanche uno – e quelli rimasti vivi sono stati tutti presi prigionieri. Ah sì – mentre stavamo per andarcene mi sono detto: andiamo a vedere anche sotto il ponte. Mi sono buttato nell’acqua e, dalla parte opposta a quella dove prima stavamo noi, dentro fin quasi al collo, c’erano un colonnello italiano e tre capitani. Appena mi hanno visto hanno alzato le mani. Li ho disarmati tutti, lì dentro l’acqua, e li ho fatti salire su uno dietro l’altro, come tacchini, facendo tutto il tempo segno che non avessero paura. Greco bono, bono, gli dicevo dandomi dei colpetti sul petto. Bono, bono, dicevano anche loro intanto che andavamo avanti. Eh, tutto qui…”. […]

Nikolòs, da civile, faceva il commesso»15.

Dopo il ripristino della democrazia, naturalmente, molti altri autori hanno parlato della Guerra d’Albania e dell’Occupazione: uno dei più interessanti è Christòforos Milionis, epirota di un paesino subito fuori del confine di Kakavià con l’Albania.

Ecco come Milionis, che allo scoppio della guerra era un bambino di otto anni racconta il primo impatto dei greci con gli italiani invasori, all’indomani del 28 ottobre: «Tutto questo finché non cominciò la guerra, che cambiò tutto. L’ultima volta, domenica sera, venne a veglia zia Marina da sola, perché Katerina era andata dalla nonna, all’altro capo del paese. Dopo cena, il padre tor­nò al telefono, nella segreteria della scuola. Tornò a mezzanotte. “Non va per niente bene, disse: stanotte suc­cederà qualcosa. Al confine c’è un gran movimento”. Aprirono la finestra a ovest. File di luci si trascinavano, dall’altra parte, in Albania, per la strada di Argirocastro. Nastri luminosi si srotolavano nel cielo, e di tanto in tanto formavano delle lune vacillanti. “Sono riflettori”, disse il padre. Trattennero zia Marina a casa loro. All’alba, sul confine scoppiò la fucileria. La gente uscì per le strade, e se ne stava lì con le mani in mano. “Cosa stiamo qui a fare?” dissero. “Verranno gli aeroplani a bombardare, è meglio che andiamo nelle buche”. Radunarono un po’ di roba, si fecero prestare del pane da chi ne aveva, perché era lunedì: la maggior parte avrebbe fatto il pane quel giorno, ed erano rimasti senza. Suo padre si caricò in spalla la nonna, e andò con lui anche zio Nikolas, per aiutarlo. Se ne andarono in una grotta vicina. Zia Marina tornò indietro, per andare a chiamare Katerina ancora una volta. Sentirono la sua voce venire di lontano, insieme al crepitìo delle mitragliatrici, come da un altro mon­do: “Io resto con la nonna, andiamo alla Griza”. Zia Marina tornò imprecando. E quando le passò la stizza disse: “Ho incontrato per la strada due dei nostri, a ca­vallo, del posto di confine. Non dobbiamo andare da nessuna parte, dice, solo starcene a casa!”. A quel punto si accorsero che lì non erano affatto al sicuro, e che erano in piena vista da tutte le parti. Tornarono indietro. Non erano ancora arrivati davanti alla casa di zio Nikolas che apparvero gli aeroplani. Erano tre, volavano alti e luccicavano al sole. Si rintanarono al piano terra, insieme con le pecore. Fu allora che si sentirono le mitraglia­trici subito fuori, sulla strada, e loro rimasero chiusi in quello scantinato, seduti in terra in mezzo al letame. Non smisero per tutta la notte. Doveva essere ormai vicina l’alba, quando zia Marina disse: “Che strano sogno ho fatto! E ho appena chiuso gli occhi! Era come se fossi fuori della porta di casa di mia madre, e lì c’era un sol­dato italiano, alto e roseo. Il cielo era pieno di stelle. Guarda, mi dice l’italiano: alza il fucile e spara in alto. E dal cielo sono cadute delle stelle”.

Quando uscirono al mattino, finita la sparatoria, seppero del macello che era successo alla grotta della Griza. Degli italiani c’erano passati davanti, li avevano scambia­ti per soldati e avevano sparato. Poi, dalle grida, avevano capito e si erano avvicinati. C’era un mucchio insangui­nato. Fra gli altri, anche Katerina e la sua nonna. Un italiano aveva preso in braccio la ragazzina, piangendo come un bambino»16.

Nell’opera di Christòforos Milionis il ricordo della guerra, dell’Occupazione e della guerra civile è ricorrente: non solo in Acrocerauni, che è del 1976, ma anche nei primi racconti di Dissonanza (1962), nel bellissimo ro­manzo Rione Occidentale (1982) e nella raccolta di rac­conti Kalamàs e Acheronte (1984). Anche se nulla viene edulcorato, e le immagini sono spesso terribili, però, il sentimento che ne traspare nei confronti degli invasori italiani non è mai l’odio: prevale anzi una specie di sim­patia per quei soldati, contadini e popolani sentiti come affini anche quando entravano allegri e impennacchiati al momento dell’invasione: tutta un’altra cosa rispetto ai nazisti, che invece porteranno solo morte e terrore e saranno odiati a morte: «II 28 ottobre gli italiani entraro­no anche da noi. Verso mezzogiorno erano già arrivati in paese, tutti eleganti, ben stirati e rosei, con un sacco di stellette di metallo all’occhiello. Come a nozze. Fra le altre cose, che non è il momento di ricordare, ci fu la catastro­fe delle galline. Le incantonavano in un vicolo, le acchiappavano e gli tiravano il collo. Poi passavano di casa in casa, con in spalla un mazzo di galline, le teste slogate penzolanti, in cerca del proprietario, da risarcire pagan­do con lek albanesi, nichelini che su una faccia avevano Vittorio Emanuele con l’elmetto e sull’altra i fasci con la scure del fascismo – cinque lek per gallina. Quanto va­lessero, non facemmo in tempo a scoprirlo. Del resto, anche per gli italiani era una scusa, per girare per le case, attaccare discorso, gli occhi attaccati alle finestre, chissà mai che spuntasse qualche ragazza romantica, con rose e colombe, come quelle delle lucide cartoline che gli spedivano da Roma e da Napoli, e che facevano vedere ai contadini. E così, pian piano, prendevano confidenza, gli uni e gli altri […]»17.

A prevalere è poi la pietà, durante la disperata ritirata verso l’Albania e anche dopo la guerra, quando la missione militare incaricata del recupero dei caduti torna in quelle terre martoriate: «Arrivarono però le loro musi­che, che installarono in un campicello, dove tutti i pome­riggi suonavano O campagnola bella, quella che poi di­ventò Buffone Mussolini – pochi giorni dopo, cioè, verso il 20 novembre. Processioni interminabili di soldati ita­liani che adesso se ne tornavano in Albania, attaccati alle code dei cavalli, tutta la notte, e noi guardavamo di na­scosto, pieni di terrore e di gioia insieme, sollevando un poco il lembo della coperta che avevamo appeso alla fi­nestra. E quando fece giorno, e i contadini cominciaro­no a mettere fuori il naso dal paese per razziare, trovava­no morti ammazzati sotto ogni albero. Alcuni semisepolti e altri insepolti del tutto, restarono lì a marcire, senza musiche e senza fiori, perché quell’inverno fu duro, tut­to neve e gelate. E quando cominciò la primavera – quel­la cupa primavera – tutto era finito.

Finito, cioè, si fa per dire. Tornarono gli italiani, ma cambiati, senza quell’aria della prima volta, e mogi. Le loro prime parole: “No bono guerra”. Si chiusero in fret­ta nelle loro carabinierie e lasciarono campo libero ad altri. Un breve intervallo. […]

Quanto agli italiani, quasi ce li dimenticammo anche loro, con tutto il resto, e le loro ossa rimasero sparse nelle forre a marcire, o le calcinava il sole d’estate. Per quasi dieci anni. Finché nel 1951 venne una missione italiana a raccoglierle per rimpatriarle. Li aiutammo, per quanto possibile. Andarono fino a Tepelèn, Klisura eccetera. A capo, un generale: Il generale dell’armata morta del mio amico Kadarè, che col suo libro mi ha ricordato queste e molte altre cose. Ma cosa vuoi dire, o confessare. Sono storie per balcanici. Noi adesso ce la passiamo alla gran­de. Let’s go, boys. “Let’s go West’» 18.

Anche Odisseas Elitis, nella Lettura Prima del suo poema Dignum Est, racconta la durezza dell’inverno e delle marce nel fango, e l’incontro con i soldati italiani già ricacciati in Albania e in rotta, ma pur sempre meglio equipaggiati e nutriti dei greci vincitori, nel gennaio del ’41: «All’alba di San Giovanni, il giorno dopo l’Epifania, ricevemmo l’ordine di muovere ancora in avanti, per quei posti dove non c’è né feste né giorni di lavoro. Si doveva, a quanto pare, occupare le linee che fino allora avevano tenuto quelli di Arta, da Chìmarra a Tepelèn. In quanto loro combattevano fin dal primo giorno, di continuo, ed erano ridotti quasi alla metà, e non ce la facevano più.

Dodici giorni già eravamo stati più indietro, nei paesi. E proprio quando il nostro orecchio ricominciava ad abituarsi agli scricchiolii dolci della terra, e sillabavamo timidamente l’abbaiare del cane o il suono di una campa­na remota, ecco che bisognava, a quanto pare, ritornare al solo suono che conoscevamo: quello lento e profondo del cannone, quello secco e veloce delle mitragliatrici.

Notte su notte avevamo camminato incessantemente, uno dietro l’altro, come ciechi. Scollando a fatica il piede dal fango, dove a volte sprofondava completamente fino al ginocchio. Perché il più delle volte piovigginava, fuori sulle strade, come pure dentro la nostra anima. […]

E’ che ormai eravamo molto vicini ai posti dove non c’è ne feste né giorni di lavoro, né malati né sani, né poveri e ricchi, lo capivamo. Perché laggiù anche il frastuono, una cosa come una tempesta dietro la montagna, cresceva sempre più, tanto che alla fine leggevamo chiaramen­te il rumore lento e profondo del cannone, quello secco e veloce delle mitragliatrici. Poi perché, sempre più spes­so, ci capitava ora di incontrare, provenienti dall’altra parte, le lente processioni dei feriti. […]

C’erano delle volte che si trascinavano dietro anche dei prigionieri, appena catturati da poche ore, negli attacchi improvvisi che facevano le pattuglie. Il loro fiato puzzava di vino, e le loro tasche erano piene di scatolette e di cioccolate. Noi però non ne avevamo, che i ponti erano tagliati dietro di noi, e i nostri pochi muli erano anche loro impotenti fra la neve e la fanghiglia scivolosa.

Finalmente, a un certo punto, apparvero di lontano i fumi che salivano qua e là, e i primi bengala all’orizzonte, rossi, luminosi»19.

Traspare, nei testi di chi la guerra l’ha vissuta, l’estrema miseria dell’esercito greco vittorioso in Albania: il freddo, la fame, i pidocchi e le cimici, la difficoltà degli approvvigionamenti, la necessità di improvvisare e di arrangiarsi, in mancanza di organizzazione e di mezzi. E poi la morte: degli amici, delle bestie da soma e anche dei nemici – fatale e pur sempre incomprensibile, quasi inaccettabile, sia per gli amici che per i nemici.

Ci vuole un bambino di dodici anni per rallegrarsi candidamente della distruzione del nemico, in un diario intimo dei primi giorni di guerra, scritto naturalmente molto lontano dal fronte: si tratta del futuro poeta Titos Patrikios, allora interno in un collegio dell’isola di Spetzes e naturalmente ben imbottito di retorica e propaganda dai suoi professori, com’è naturale:
«Venerdì 8 novembre. Le notizie sono molto piacevoli. Corizza è stata oc­cupata20 […]. Dopo un violento combattimento. Aspetta­vamo un allarme anche oggi, ma non c’è stato. La sera ho imparato che Corizza non è stata occupata, ma che è questione di ore. Come pure che l’occupazione di Argirocastro è questione di ore. Gli italiani hanno lanciato cibi con l’aeroplano, in zone fulmineamente occupate dai gre­ci. Oggi sono venuti taluni operai e hanno cominciato a scavare nuovi rifugi molto migliori di quelli vecchi.

Sabato 9 novembre. Corizza non è stata occupata, ma è come se avessimo preso il Parnete, la Penteli e l’Imetto di Atene […] Il direttore ci ha detto molte cose. La Di­visione degli alpini è stata decimata sul Pindos. Era avan­zata eccessivamente e in seguito è rimasta tagliata fuori e viene decimata. Su tutti i fronti i greci sono all’attacco. I prigionieri italiani fanno pena.

Domenica 10 novembre. […] Prima che ce ne andassimo il direttore ci ha detto che sono scadute le prime due settimane di guerra, che siamo all’attacco dappertut­to e che la Divisione degli alpini è stata completamente distrutta. […] C’è stato anche uno spettacolo di Karaghiozis. La commedia era “Il matrimonio di Morfoniòs”. Nell’intervallo Zukis ha detto che la giustizia divina pu­nisce gli italiani, perché molti dei resti degli italiani si sono affogati nel Kalamàs straripato»21.

Lucia Marcheselli Loukas
docente di lingua e letteratura neogreca all’Università di Trieste

Riferimenti

1 Antologia di testi letterari sull’epoca 1940-1941. Epopea d’Al­bania – Invasione tedesca – Creta, a cura di Panos N. Panaghiotunis Pavlos Nathasail: Il canto popolare – La poesia – La prosa – Il saggio – La pittura, Atene, Ed. Dodèkati Ora, 1964 (= Ant. ’64).

2 Elli Alexic, Anthologie der Literatur der Griechischen Widerslandsbeuregung von 1941 bis 1945. Band I. Prosa. Berlin, Akademic-Verlag / Atene, Iridanòs, 1965.

3 Glikerìa Protopapa-Bubulidu’, Testi in prosa sulla guerra e sull’Occupazione, Giànnina, Università (Appendice N. 1 dell’Annuario della Facoltà di Lettere), 1974.

4 Al 1945 risale To Mnima tis Griàs (La Tomba della Vecchia) di
Anghelos Vlachos; la prima parte di To platì potani (Il largo fiume) di Ianis Beratis, Anthropi tu mithu. Tetradia apó ton palano (Uomini del mito. Quaderni di guerra) di Stei.ios Xefludas, Aprilis. To vivlìo tu ghiù mu (Aprile. Il libro di mio figlio), una specie di autobiografia, di A. Terzakis, che nel 1964 avrebbe condensato i suoi ricordi ed esperienze di guerra in un libro di divulgazione sto­rica, Epopea greca 1940-41; del 1947 gli Armatomeli! (Uomini in armi) di Lukis Akritas. Della vita militare al margine della guerra, nelle retrovie, parla I sklirì vrochì (La pioggia battente) di Michalis Peranthis, del 1952. Del 1961 sono poi due libri diseguali: I Panthei .I Kerkòporta (La saga dei Panthei. I cancelli dell’arena) di Thasos Athanasiadis e O italikòs lòfos (La collina italiana) di N. Galazis, libro violentemente antimilitarista, in cui italiani e greci sono raf­figurati intenti a scannarsi per mesi per il possesso di una collina, finché vengono presi alle spalle dall’invasione tedesca, che dimo­stra quanto inutili fossero i loro combattimenti. Al 1963-64, infi­ne, appartengono altri tre titoli: Stàvrosi chorìs andstasi (Crocifis­sione senza resurrewne), di Nikos Athanasiadis; Asthenìs ke Odipori di Ghiorgos Theotokas, che vi riprende i temi del suo precedente Ierà Odòs (Via Sacra, 1950); I foni tis ghij (La voce della terra, Bologna, Cappelli, 1966) di Evànghelos Averoff Tossitsa.

5 II 4 agosto 1936 Metaxàs, con l’appoggio del re, instaurò in Grecia una dittatura di tipo fascista, continuata, dopo l’invasione nazista dell’aprile 1941, da un regime «quisling» durato fino alla ritirata delle forze naziste, nell’ottobre del 1944.

6 Iorgos Seferi, Manoscritto Sett ‘41. Atene, Ikaros, 1a ed. 1972 (ora in Dokimès. III, 1993, passim.

7 Ctr. Ant. ’64, cit. p. 10.

s Cfr. ivi, p. 11.

9 Cfr. ivi, p. 6.

10 Cfr. ivi, pp. 92-93.

11 O. Elitis. Axion Estì, Atene, Ikaros, 1959.

12 O. Elitis. Poesie precedute dal Canto eroico e funebre per il Sottotenente caduto in Albania, a cura di Mario Vitti, Roma, Il Presente, 1952 (1a ed. greca 1945).

13 Cf. Ant. ’64, cit., p. 44.

14 Un brano del Largo fiume, raffrontato a un passo corrispondente de La linea del Tomori di Manlio Cancogni è stato tradotto e presentato da Fany Kiskira Kazantzi, Due itinerari opposti e con­vergenti, in «Letterature di Frontiera» (Roma), IV, l, genn.-giu. 1994, pp. 169-177.

15 Iannis Beratis, To platì potani (Parte II: Monti, bestie e uomini), Atene, Ed. «Tachidromos», 1965, pp. 169-171.

16 Cfr. Ch. Milionis, Sotto l’azzurra superficie. Racconti, Trieste, Ed. Ricerche 199 , pp. 67 ss. (trad. L. Marcheselli Loukas).

17 Cfr. Ch. Milionis, Il mio amico d’infamia Ismaìl Kadarè, in «Italoellinikà» (Napoli), III, 1990, pp. 81-90 (trad. L. Marcheselli Loukas).

18 Ibid.

19 O. Elitis, Axion estì, cit., pp. 30-32.

20 In realtà, Corizza fu occupata il 28 novembre del 1940. Sulla Guerra d’Albania e sulle vicende precedenti e successive della Gre­cia si veda Rocco Aprile, Storia della Grecia moderna (1453-1981), Lecce, Capone Editore, 1984.

21 Titos Patrikios, I Simmorìa ton 13. Imerològhio tou 1940 ki alla graftà, Atene, Diatton, 1992, pp. 33-34.

6 pensieri riguardo “La guerra di Grecia nella letteratura neogreca”

  1. Piccola curiosità.
    Dopo l’attacco italiano alla Grecia, quest’ultima, con la legge n. 2636/1940 dichiarò lo stato di guerra nei confronti dell’Italia e…anche dell’Albania (pur sapendo benissimo che l’Albania non era più uno Stato sovrano, essendo stata invasa dall’Italia, esattamente come la Grecia). A seguito del trattato di pace di Parigi, lo stato di guerra con l’Italia venne abrogato, ma restò quello nei confronti dell’Albania. E resta tuttora in vigore, malgrado le ripetute richieste di abrogazione da parte delle autorità albanesi e malgrado entrambi i Paesi facciano ormai parte della NATO! Si potrebbe mandare Calderoli in Grecia per fare un po’ di “semplificazione legislativa” da quelle parti?:-)

  2. Nessuna domanda sul perché due paesi della NATO siano – almeno per quanto continua a sostenere uno di essi – in “stato di guerra” fra loro?

  3. Semplice Watson:-). Non solo perché il mantenimento dello “stato di guerra” con l’Albania aiuta all’occorrenza i cari greci a trattare da “spie nemiche”:-) i poveri emigranti albanesi che si recano laggiù per guadagnare qualche soldo col sudore della fronte, bensì anche – e soprattutto – perché nella Grecia del nord ci sono in ballo grosse proprietà immobiliari appartenenti a cittadini albanesi di – orrore e raccapriccio!:-) – religione islamica. Devi da sape’, caro Gabriele (ma ‘ste cosucce a vosotros beati occidentali nessuno le dice) che alla fine della IIGM, le forze nazionaliste elleniche agli ordini di un certo generale Napoleonis Zervas (cfr. http://en.wikipedia.org/wiki/Napoleon_Zervas ) fecero una bella – si fa per dire – pulizia etnica di TUTTI (qualche decina di migliaia, le cifre non sono concordi) gli albanesi di religione islamica, ma cittadini greci e residenti nel cosiddetto “Epiro del sud” (o Grecia del Nord, che dir si voglia), spingendoli a furia di massacri e violenze in territorio albanese. Con la scusa che erano stati “collaborazionisti” – donne e bambini compresi:-) – con italiani e tedeschi (un po’ come i turchi con gli armeni nella IGM, ma vuoi mettere la grancassa mediatica per i cari fratelli CRISTIANI armeni rispetto a quei trogloditi:-) e per di più MUSULMANI:-) albanesi….). Ebbene, buona parte di quegli “epurati” erano decisamente benestanti e alcuni perfino ricchi possidenti di centinaia di ettari di terreni agricoli, uliveti, frutteti ecc. Il caro Governo ellenico del dopoguerra sequestrò tutti i beni immobili degli esuli e li tiene tuttora in istato di “sequestro conservativo”. E quando gli eredi di quei disgraziati tentano oggi, dall’Albania,  di chiedere la restituzione dei beni di famiglia, si sentono rispondere dai cari discendenti di Platone, Aristotele&Co: “Pussa via, brutti albanesi, che con voi siamo ancora in guerra!”.

    Saluti

    P.S. Per ulteriori informazioni: http://en.wikipedia.org/wiki/Expulsion_of_Cham_Albanians

  4. Quello che lascia perplessi in questa vicenda è il fatto che l’Onu, in circa 60 anni non sia riuscito a risolvere questa situazione.

  5. Caro Gabriele, ma quale perplessità: ti risulta forse che l’ONU abbia risolto qualche situazione, quale che fosse?:-). Oppure magari l’ONU temeva che il suo eventuale incaricato della vicenda facesse la brutta fine di un certo Enrico Tellini, incaricato a suo tempo dalla Società delle Nazioni (antesignana dell’ONU) di dirimere certe faccende di confine fra Grecia e Albania.
    Saluti
    P.S. Penso che la situazione si potrà risolvere solo con l’ingresso dell’Albania nell’UE e relativi ricorsi alla Corte di Giustizia UE. Prospettiva che, ovviamente, i carissimi fondamentalisti ortodossi discendenti di Omero, Platone &Co vedono come il fumo negli occhi.

    P.S.2 So di dare un dispiacere agli estimatori della lingua&letteratura neogreca, ma questa la devo proprio raccontare. Ai tempi in cui facevo il prof alla Facoltà di Medicina Veterinaria di Tirana, l’UE ci offrì delle borse di specializzazione, da utilizzare – a scelta – presso la Facoltà omologa di Bari (Italia) e quella di Salonicco (Grecia). Io ovviamente:-) scelsi Bari, mentre altri colleghi scelsero Salonicco. Ebbene, di tutti questi ultimi solo a una collega fu negato il visto dal consolato ellenico a Tirana…no, non trarre conclusioni affrettate:-), non era una nota sfruttatrice della prostituzione o trafficante di droga o – come magari penserebbe il buon Mazzufferi:-) – una ex-agente della famigerata Sigurimi:-), la conoscevo benissimo. Aveva il solo “torto” – fra tutti i colleghi che scelsero Salonicco – di avere nome e cognome “musulmani”. Dici che fosse solo una coincidenza?:-)

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