L’occupazione italiana (1941-43) nella letteratura neogreca

Intervenuta al recente convegno “Memorie di un testimone“, del quale abbiamo pubblicato la registrazione audio integrale, Lucia Marcheselli, senigalliese, docente di lingua e letteratura neogreca all’Università di Trieste, ci ha gentilmente concesso la pubblicazione del seguente articolo, in cui approfondisce alcuni aspetti dell’occupazione italiana dal ’41 al ’43, e della resistenza greca. Di un secondo testo è imminente la pubblicazione.

L’occupazione italiana (1941-43) nella letteratura neogreca[1].

Lo stereotipo degli “Italiani brava gente” è più o meno dominante nella letteratura e nella memorialistica greca riguardante gli anni terribili dell’Occupazione congiunta italotedesca (1941-43).

CollaborazionistiI testi di riferimento sono molti, di diverso valore letterario e storico: per una breve comunicazione come questa, non avrebbe senso redigere una bibliografia ragionata, tanto più che una ricognizione completa del materiale non è stata fatta finora nemmeno in Grecia.

Per un Congresso come questo, può essere più interessante segnalare alcuni punti cruciali, che illustrano meglio la posizione occupata dagli Italiani nell’immaginario collettivo greco: per prima cosa, va detto che il giudizio sugli Italiani non è mai disgiunto, anche quando non se ne parli apertamente, dal confronto con i Bulgari, ma soprattutto con i Tedeschi, che hanno lasciato un ricordo terribile in Grecia, contribuendo in tal modo ad alleggerire l’atteggiamento generale dei Greci nei confronti dei loro, relativamente più miti, alleati di occupazione.

Questo atteggiamento di maggiore benevolenza nei confronti dei soldati italiani non è ovviamente fatto solo di sentimenti positivi: spesso è anzi intessuto di un pizzico di disprezzo, più o meno blando, condito di stupore per la scarsa voglia di combattere dimostrata dai soldati italiani, presi individualmente, una volta firmato l’armistizio.

Rodis Rufos Provelènghios, nella sua monumentale trilogia Cronaca di una crociata[2], così esprime questo confronto, commentando gli eventi successivi all’8 Settembre:

Un esercito in dissoluzione è sempre brutto, molto più repellente di un’orda di civili. Lo spettacolo di quegli Italiani, che due giorni prima procedevano eleganti e superbi, con divise ben curate, e ora si trascinavano a testa bassa, disonorati, straccioni o, ancor peggio, sghignazzando indifferenti, condotti come pecore da due o tre tedeschi armati – quello spettacolo era ancor più triste, perché non seguiva una battaglia o una disfatta, non era lo spezzarsi di un arco dopo una tensione eccessiva. Era un rilassamento improvviso, che metteva a nudo la mancanza di nerbo e di fede interiore in quella plebaglia che poco prima recitava avvolta in manti imperiali. E l’impressione che facevano era così miserabile, che disarmò immediatamente tutto quel popolo greco che prima li odiava. Fu la compassione a circondare quei ragazzi bruni che improvvisamente avevano mostrato quanta poca voglia avessero in realtà di ammazzare e di farsi ammazzare, dal momento che nessuno aveva minacciato la loro casa o la loro ragazza. Perché gli Italiani non erano vili in nessun senso risibile, come li aveva accusati una propaganda giornalistica di bassa lega: combattenti che si erano trovati ad affrontarli sapevano smentire una simile sciocchezza. Solo, per la maggior parte, erano abbastanza civili da aver superato il primitivismo sanguinario del «combattimento per il combattimento» […], e abbastanza normali da non sottomettersi facilmente, nel momento cruciale, a principi astratti di onore e a imperativi che intimavano loro di morire e di distruggere ogni speranza di ritorno alla loro bella terra. Nel momento cruciale, si era risvegliato in loro Sancho Panza – avevano buttato alle ortiche il loro «superego» impennacchiato e la dignità, e si erano sottomessi, dimostrando che il loro amore per cose appariscenti come il loro esercito e il mare nostrum finiva lì, dove avrebbe smesso di essere un gioco e avrebbe richiesto un’inutile sacrificio della vita. Facevano pensare a quei ragazzini cher alzano una bandiera nera col teschio sulla loro barchetta e partono per conquistare il mondo, ma appena finisce il cibo o si alza un po’ di vento vogliono tornare dalla mamma.

Da quel giorno Dìon [scil. il protagonista] provò per gli Italiani compassione e una certa simpatia, nessuna vglia di ironizzare. Come la maggior parte dei Greci, li trovava più umani, nella loro debolezza, dei loro carcerieri nordici, rigidi e coerenti. Quelli erano ammirevoli, e odiosi[3].

Le testimonianze sull’8 Settembre e sul disfacimento dell’esercito di occupazione sottolineano tutte, più o meno benevolmente, lo stupore dei Greci nel vedere gli Italiani consegnare le armi ai Tedeschi senza reagire, e poi l’indignazione e la pietà dei Greci nel vedere gli Italiani maltrattati dai loro ex alleati: ecco come ne parla Ioanna Tsatsu, sorella del poeta Iorgos Seferis e impegnata ad Atene nei servizi assistenziali della Resistenza, nelle pagine di diario di quei giorni[4]:

8 Settembre 1943. Circola una notizia segreta, una notizia incredibile. In principio passava confidenzialmente di bocca in bocca. Ma oggi risuona come un peana in tutto il Paese: «L’Italia ha capitolato».

Stamattina, per un po’, un senso di trionfo ci ha invaso. E’ una vittoria anche nostra. Per curiosità di un momento storico, ho preso i bambini e siamo andati fuori del Comando Piazza[5]. Né bandiera italiana né carabiniere alla porta. Gente comune andava dentro e fuori. Le carte stracciate straripavano e si spargevano per la strada.

Dov’è finito il fortilizio che decideva delle sorti e delle vite umane. Tutta quella finzione si è dispersa ai quattro venti […].

25 Settembre 1943. Come fanno i Tedeschi a trattare così gli Italiani, i loro ex alleati? E’ duro vedere qualcuno che si comporta male con un essere umano, chiunque esso sia.

Quanto ai Greci veri, li governa un’antica tradizione di umanità. Hanno dimenticato i guai passati per mano degli Italiani,gli hanno aperto le loro case, li hanno curati. Adesso il nemico comune e principale sono i Tedeschi.

26 Settembre 1943. Stamattina è entrata come un turbine nel nostro ufficio la moglie di Ghetsalis. Irriconoscibile, spettinata, gli occhi furenti che lanciavano fiamme, quasi impazzita.

Abbiamo smesso di lavorare e stavamo a guardarla a bocca aperta. Era la prima volta che la vedevamo in uno stato simile.

– Quelli non sono uomini – diceva. – l’ho visto coi miei occhi. I Tedeschi erano pochi e gli Italiani erano moltissimi, ma ognuno consegnava la pistola senza ribattere. Voi non ci credete di sicuro, non riuscite a capirlo. Ma io ho visto coi miei occhi, se no non ci crederei nemmeno io.

[…]

Ha le sue ragioni. Suo figlio aveva ammazzato e si era fatto ammazzare per tenersi la sua pistola[6].

Sul versante letterario, sulle conseguenze dell’armistizio c’è anche un racconto di Ilìas Venezis: due vecchi commentano l’affondamento di una nave tedesca carica di prigionieri italiani, che sono rimasti intrappolati nella stiva:

«Che cosa non passano anche loro per mano dei Crucchi! – disse capitan Manolis. – Scontano tutto quello che hanno fatto». «Tutto si sconta, quaggiù» concordò Barba-Fìlippas. «Ero andato in Mesòghia a comprare del crine: i Tedeschi si portavano dietro una massa di Italiani prigionieri. Erano mezzo nudi, avvolti nelle coperte, la maggior parte senza scarponi. Stavo là con l’altra gente a guardarli passare». «E la gente li prendeva a sassate?» domandò il vecchio boscaiolo. Il pescatore di polipi lo guardò negli occhi. «Niente – dice -. Per Dio! Nessuno dei contadini fiatava, neanche una parola per maledirli, nessuno ha fatto il gesto di sputargli addosso. E sì che ne avevano passate tante per colpa loro!»[7].

Gli elementi che risultano sono gli stessi: l’odio per gli occupanti si focalizza immediatamente e definitivamente sui Tedeschi, mentre gli Italiani, fra il miles gloriosus e Sancho Panza, ispirano quasi subito compassione, anche se le anime semplici come la povera signora Ghetsalis, che aveva avuto il figlio fucilato proprio dagli Italiani[8], non riescono a capacitarsi che dei soldati si lascino disarmare senza reagire.

Ma gli Italiani le armi non le consegnano solo ai Tedeschi: le vendono, anche, ai Greci delle varie fazioni, o se le lasciano rubare: ne parla Rodis Rufos (e nella Cronaca di una Crociata sono gli studenti universitari che vogliono organizzare un Battaglione Sacro per unirsi ai partigiani nazionalisti a comprare le armi al mercato nero); ne parla anche Alèxandros Kotzias, uno dei più importanti romanzieri del dopoguerra, nel suo primo libro, Assedio[9], in cui gli Italiani entrano però solo di striscio, perché la vicenda è tutta incentrata sulle figure e sulle motivazioni dei collaborazionisti dei nazisti, che degli Italiani non avevano comunque mai fatto gran conto:

Gli Italiani […] li prendevano in giro anche i lattanti. Nessuno aveva intenzione di prenderli sul serio. […]

E così quando si arresero gli Italiani a Kimi e buttarono i fucili, eh, il finimondo che successe! Li batterono sul tempo, dunque, quei furboni, e gli presero le munizioni dai depositi, intanto che arrivavano i Tedeschi. Capisci che baratto – una sigaretta, dieci mucchi di mitragliatrici Breda e di fucili ’91. Quel furbone di Kitriniaris gli porta sua sorella, a quel fesso di caporale. Si è fregato una Fiat intera, caro mio[10].

Blando disprezzo e scarsa considerazione, dunque, che traspare un po’ dappertutto, per degli occupanti che si lasciavano “prendere in giro” (o corrompere) facilmente, magari per una donna o per un buon bicchiere di vino: sul versante opposto a quello dello schieramento di Kotziàs, la stessa immagine degli Italiani risulta anche nel primo romanzo di Dimitris Chatzìs, Fuoco, del 1946. Qui si tratta della presa di coscienza resistenziale delle donne di una famiglia patriarcale, in cui il vecchio capofamiglia era sempre riuscito a cavarsela con gli Italiani tenendogli tavola imbandita e offrendogli da bere. Quando, dopo l’8 Settembre, arrivano i Tedeschi, il vecchio pensa di poter continuare a cavarsela allo stesso modo – i Tedeschi mangiano e bevono, e poi gli danno ugualmente fuoco alla casa[11].

Eppure non mancano le testimonianze di atrocità e misfatti commessi anche dagli Italiani: Iannis Beratis, nel suo Itinerario del ’43[12] accenna tra l’altro a villaggi bruciati dagli Italiani:

Ci fermammo, una volta scavalcata la cresta, arrivati a Patiòpulo. Il paese, grosso, era stato completamente bruciato dagli Italiani, e non ci si trovava anima viva[13].

Eppure, poche righe più sotto, commentando la durezza della marcia, annota soltanto:

Me la spassavo  col battaglione  degli Italiani che veniva con noi. A momenti crepavano (anche per il grosso zaino che portavano in spalla), si fermavano tutti i momenti per asciugarsi il sudore e riprendere un po’ fiato, e scuotendo la testa bassa come bestie stanche non facevano che dirsi l’un l’altro, ansimando: Che paese![14].

E più in là si sofferma a lungo sui prigionieri italiani, che vengono usati dai partigiani greci per i servizi di sussistenza[15], su Luigi, il soldato che non fa che piangere, da quando ha saputo che sua moglie e i suoi figli sono morti in un bombardamento:

Piangeva e scriveva. I suoi occhi, quando li alzava, erano tutti rossi. Scriveva – e non aveva neanche più dove scrivere. Si era arrabattato dieci anni, con quelle due mani, per costruirla, quella casa, per sistemarlo e metterlo a punto, quel podere.

Una terra dura, che ti rinnegava. Ma alla fine ne aveva fatto un piccolo paradiso. Le voleva bene fin da piccolo, alla sua Giulietta, fin da quando andavano in Chiesa insieme – per la Prima Comunione. E solo allora, da uomo, era andato a chiederla, e l’aveva sposata. Guarda, Giulietta, le aveva detto, ho fatto tutto con le mie mani, e sarà tutto nostro.

Avevano avuto due bambini, due angioletti di Dio – il maschietto aveva gli occhi e i capelli della mamma, la bambina era bionda come lui – ormai avevano tutte le loro bestie: il cavallo, i due buoi e quel cane a chiazze bianche e marroni, Giono, che faceva sempre le feste al solo vederti.

Ma perché? – ah, che solo gli dicessi il perché. Che cosa avevano fatto di male lui, lei, e quei due innocenti?

In principio – allora, che non era ancora prigioniero – non avevano voluto dirglielo: non sapevano come dirglielo. E poi certi vecchi commilitoni, ormai tanto uniti dall’Abissinia, dalla Spagna, dall’Albania, un giorno decisero di andare a offrirgli da bere.

Il vino era molto buono e dopo aver molto bevuto, ormai brilli, Luigi, gli dissero, aspetta un momento, sei un uomo, e ci conosciamo da tanto tempo. Bisogna farsi coraggio, e non piangere, e mostrarsi uomini. In patria, quando tornerai, non troverai più n casa, né moglie, né figli. Ormai, dopo il bombardamento dell’altro mese, tutto è diventato un deserto, pieno di cenere e tizzoni. Tua moglie coi tuoi figli non ha fatto in tempo a uscire di casa. Prendi le lettere dei nostri compaesani che ce lo raccontano – e che fino adesso non te le abbiamo volute mostrare.

Lo presero fra le braccia, Luigi, e poi sotto le ascelle, per riportarlo al Battaglione, perché non poteva camminare, perché piangeva e chiamava come una donna – e non si vergognava di nessuno – la sua Giulietta, il suo Tonino, la sua Silvietta dai riccioli d’oro. Piangeva e urlava come una belva ferita, che non può più rialzarsi per sfuggire alla sua gelida infinita solitudine, in uno splendido e indifferente plenilunio.

Ah, ma un giorno tornerò nella nostra Italia, signor Ufficiale – e allora non mi potrà più trattenere nessuno. Prenderò per il collo tutti i colpevoli di questa guerra disastrosache ci hanno imposto per forza e gli griderò in faccia: Che cosa ti aveva fatto di male la mia Giulietta? che cosa ti avevano fatto i miei due innocenti? che cosa ti avevo fatto io?

Ma quando finirà questa guerra? Che ne sarà di noi quassù in cima? E lei non sa, non può sapere quanto è umiliante essere prigionieri, schiavi…

Luigi, ehi, che ti venga un accidente! si sentirono di dentro le vociacce della compagnia. Sei diventato sordo, che non senti? Porta subito tre bicchieri d’acqua. E lavali bene! Ma che diavolo, ti è già venuto sonno? Cos’è quella faccia?

Ah, è un gran bravo ragazzo, mi dissero quando tornai a sedermi al nostro tavolino. E’ sempre volenteroso e gentile. Non badare che gli parliamo in questo modo. Cidivertiamo, e ci ride anche lui. Gli insegnamo tutto in greco. Ha i suoi guai anche lui, poveretto. – E’ per quello che l’hanno separato dagli altri prigionieri e lo tengono con loro. Gli vogliono tutti bene.

«Dai dunque, dì agapi, che ti senta anche il signore, qui».

Agapi, diceva Luigi a occhi bassi, mentre appoggiava i tre bicchieri d’acqua, stando bene attento a non bagnare nessuno[16].

E anche se non tutti gli Italiani sono simpatici e “innocenti” come Luigi (che peraltro, prima dell’Albania, si era fatto l’Abissinia e la Spagna, e doveva di sicuro averne viste anche lui di tutti i colori), l’atteggiamento di Beratis non è mai di odio, né di aperto disprezzo, nemmeno quando riferisce di fatti atroci e giustizia sommaria:

E in quel periodo capitò che si svolgessero degli interrogatori di Italiani per un processo da celebrarsi in sèguito, che io servissi da interprete e che mi toccasse ogni tanto andar su e giù per quella maledetta strada scoscesa che ormai era diventata un incubo. E mi ricordo di uno di quelli che mi fece tanto tribolare e che faceva sempre finta di non capire (per trovare il tempo di prepararsi la risposta, a quanto pare), mentre ero certo che ormai il greco l’aveva imparato a perfezione. E quando, poi, per caso uscivamo insieme, non faceva altro che dirmi che capiva benissimo che il popolo greco potesse avercela con l’ esercito italiano e odiarlo, mentre i Carabinieri, di cui anche lui era un ufficiale, non si erano immischiati in niente e avevano semplicemente eseguito disposizioni per il mantenimento dell’ordine.

Lo guardai sorridendo con finta cortesia, e (come se fosse qualche asperità del terreno a costringermici) mi allontanai bruscamente da lui, che da un pezzetto tentava, come se niente fosse e apparentemente in tutta sincerità, di prendermi a braccetto. Sapevo bene, da una quantità di informazioni ben precise, che quell’uomo lì, il cui viso ora era tutto dolcezza, come se stillasse miele mentre mi sorrideva, aveva ordinato l’esecuzione di almeno 72 Greci, a volte partecipandovi di persona, solo nel tempo in cui era stato comandante dei Carabinieri ad Arta.

Lo mandammo a valle, in un altro paese, per un supplemento d’inchiesta, con una scorta di Partigiani. I Partigiani, quando tornarono – un po’ troppo presto – dichiararono con aria strana che fino al Paese non c’era potuto arrivare perché gli era presa una sincope. Nessuno chiese niente di più[17].

Oltre ai misfatti “ufficiali” degli Italiani, la letteratura ci restituisce anche episodi di colpevole leggerezza, di stupida brutalità, che però non intacca, alla fine, il benevolo giudizio globale che per il senso comune greco si riassume nello stereotipo: “Italiani e Greci: una faccia, una razza”.

Il racconto di Ilìas Venezis Gente del Sarònico[18], a cui abbiamo già accennato, si svolge tutto attorno a un delitto assurdo, scaturito dallo stupido scherzo di un soldato italiano, che vuole impressionare una pastorella incontrata su un sentiero scosceso: l’ufficiale spara un colpo di fucile vicino all’orecchio del mulo, per vederlo scappare. La ragazza però si era legata la cavezza alla cintura, per avere le mani libere: trascinata sulle rocce dal mulo imbizzarrito resta uccisa.

«Che peccato»  mormorò un Italiano, abbassando la voce.
«Non badare» disse con indifferenza il grasso ufficiale.
Si diressero in fretta verso la riva per andarsene. Senza voltarsi indietro[19].

Nel corso del racconto, che è lungo e forse un po’ farraginoso, l’odio e il desiderio di vendetta dominano nel cuore del vecchio padre e del fratellino della ragazza. Alla fine, però, dopo una lunga lotta interiore decidono di dare sepoltura non solo al cadavere di un Italiano affogato e gettato a riva, ma anche alle ossa di un altro, ritrovate fra le rocce e fatte oggetto di un lugubre tiro a segno da parte di alcuni giovani cacciatori venuti dalla città.

In questa storia c’è di sicuro una buona dose di retorica sui buoni sentimenti dell’umile popolo, lontano dalle raffinatezze e dalle astrattezze della politica internazionale, o perfino delle contrapposizioni ideologiche. Ma se andiamo all’altro estremo della scala sociale, e prendiamo in considerazione i sentimenti di un personaggio di tutt’altro calibro, protagonista di ben tre romanzi (altrettanto retorici) del noto uomo politico Evànghelos Averoff Tossitsa[20] , che apparteneva allo stesso ambiente di Ioanna Tsatsu, troveremo più o meno gli stessi atteggiamenti.

Nikitas Koletis, rampollo di una famiglia di proprietari terrieri educato a Parigi, intellettuale raffinato e poeta decadente, nel corso della guerra si trova implicato in una vicenda connessa con il tentativo degli occupanti italiani di creare un Principato Valacco secessionista nelle zone della Tessaglia e della Macedonia abitate da una minoranza latinofona, i cosiddetti Kutsovlachi.

La sua esperienza degli Italiani è molto più lunga e ravvicinata, in quanto egli viene addirittura deportato in Italia, proprio perché, pur essendo di origine Valacca, non solo rifiuta di collaborare attivamente con gli occupanti, ma addirittura tenta di organizzare una sorta di resistenza armata.

Una nota dell’Autore avverte addirittura:

Tutto quello che, in questo romanzo, riguarda l’attività pubblica della Legione Romana e le azioni della Divisione Forlì, come pure la reazione nei loro confronti, risponde strettamente a realtà[21].

Si tratta dunque in gran parte di un’esperienza personale, e quindi particolarmente intensa. Eppure, anche qui, gli strali del disprezzo sono rivolti molto più ai collaborazionisti locali che non agli occupanti. Perfino l’ufficiale fascista Conte Castelleone, rivale in amore del protagonista, ne esce meno peggio di quel che si potrebbe pensare: dopo un pugilato feroce, in cui il greco sta per avere la peggio e si arma di un bastone, contravvenendo alle regole del gioco sportivo, il fascista non lo ammazza:

L’Italiano, immobile, capì che l’altro non scherzava. Entro qualche minuto, uno dei due sarebbe stato morto. Rischiava di finire male senza ragione, ingloriosamente, in modo ridicolo. Ketty, il suo amore, sarebbe rimasta sola in quel deserto, con quell’uomo impazzito d’odio e di umiliazione. E se l’altro non l’avesse ammazzato, e avesse fatto in tempo ad ammazzarlo lui, avrebbe dovuto dare delle spiegazioni… che spiegazioni?… avrebbe commesso un omicidio assurdo […][22].

Se ne va, dunque. E, al momento della deportazione, mentre alcuni soldati italiani ironizzano sul fatto che i Greci piangono nel lasciare le mogli (“«Guarda come piangono i Greci! Sono questi gli uomini che abbiamo vinto in Albania?»)[23], Castelleone rende a Nikitas Koletis l’onore delle armi.

E nonostante tutte le esperienze spiacevoli del campo di concentramento e della deportazione, alla fine della sua avventura Nikitas è in pace con l’Italia: parla Arnaldo, marchese di Castelvecchio, ex Garibaldino in Grecia nel 1897 e 1912, ex legionario fiumano, ma antifascista, che troverà per il prigioniero greco un contatto con un sottomarino inglese, e che gli consegna un messaggio di pace:

[…] Il sole è uno solo per tutti […] E quando lo si capisce, allora hanno valore solo i buoni ricordi, i fiori, la musica, e la gente che ti ama e che ti capisce. E questa gente non ha nazionalità […] Tu odiavi fanaticamente gli Italiani. Hai visto cos’hai detto or ora: li ami[24].

LUCIA MARCHESELLI LOUKAS
Università di Trieste


[1] Pubblicato in “Letterature di Frontiera/ Littératures Frontalières”, (Roma), VI, 2, Lug..- Dic. 1996, pp. 193-201.

[2] Chronikò mias stavroforìas: I riza tu mithu (La radice del mito), 1a ed. 1954; Porìa sto skotadi (Marcia nelle tenebre), 1a ed. 1955; I alli ochthi (L’altra riva), 1a ed. 1958. Nuova ed. in un volume, Atene, Kedros, 1972.

[3] Chronikò mias stavroforìas, cit., ed. 1972 pp. 110-11.

[4] Filla Katochìs (Fogli dell’Occupazione), Atene, Estìa, 1965.

[5] In it. nel testo.

[6] I. Tsatsu, op. cit., pp. 112 e 117-18.

[7] Anthropi tu Saronikù: Ora Polemu (Gente del Sardonico: Tempo di Guerra), 1a ed. 1946, 2a ed. Atene, Estìa, 1969, p. 53.

[8] I. Tsatsu, op. cit., p. 54.

[9] Poliorkìa, 1a ed. 1954, 2a ed., riveduta, Atene, Kedros, 1961.

[10] Fotià, 1a ed. 1946, 2a ed. Atene, Kìmena, 1979, 1981, pp. 10-12.

[11] Poliorkìa, ed. 1961, pp. 11 e 95.

[12] Odiporikò tu ’43, 1a ed. 1946, 2a ed. Atene, Ermìs, 1976, 1985. Beratis è autore anche di un bellissimo romanzo sulla guerra d’Albania, Il largo fiume (To Platì Potami, 1a ed. 1946, 2a ed. ampliata Atene, ed. Tachidromos, 1965), di cui ha scritto su questa rivista Fanì Kiskira Kazantzì (IV,1, Gen.-Giu. 1994, pp. 169-77).

[13] Odiporikò tu ’43, ed. 1985, p. 92.

[14] Ibid. (il corsivo è in it. nel testo).

[15] Anche Rodis Rufos (Chronikò mias stavroforìas, cit.) parla spesso dell’eccellenza degli Italiani come servitori: “[…] dopo un po’, un altro Italiano portò un vassoio di paste. […] Abbiamo un capocuoco italiano… «Ma cosa sono questi Italiani?» domandò Dìon. «Prigionieri, o transfughi. Servitori eccezionali, solo che rubano». (p. 221). […] Una quantità di Italiani serviva  prontamente e con intelligenza gli Inglesi e gli interpreti: un ex maître d’hôtel serviva come se si trovasse ancora nel più elegante albergo di Roma. Tutti quei servitori riuscivano misteriosamente a disporre di grandi pezzi di paracadute – il loro tessuto serico era l’unico mezzo di scambio nella Grecia Libera Montana, oltre alla sterlina d’oro – e se la passavano bene” (p. 284).

[16] I. Beratis, Odiporikò tu ’43, cit., pp. 63-65.

[17] Ibid., pp. 104-05.

[18] Cf. supra, nota 7.

[19] Anthropi tu Saronikù: Ora Polemu, cit., p. 28. Le parole in corsivo sono in it. nel testo.

[20] I Fonì tis Ghis (La voce della terra), Atene, Estìa, 1964; Ghi tis Odinis (Terra del dolore), Atene, Estìa, 1966; Otan xechnusan i Theì (Quando gli Dei dimenticavano), Atene, Estìa, 1969.

[21] I Fonì tis Ghis, cit., p. 1.

[22] Ibid., p. 377.

[23] Ibid., p. 391.

[24] Ghi tis Odinis, cit., p. 57.

5 pensieri riguardo “L’occupazione italiana (1941-43) nella letteratura neogreca”

  1. In privato ringrazierò Lucia
    non servono parole espressioni
    quanto detto scritto verrà stampato e conservato nei nostri archivi come tutto quanto altro riusciamo a “raccogliere”
    Ad ora grazie a tutti per l’iniziativa ed il conoscere cose forse dimenticate.
    dario.

  2. Ho provveduto come da mio impegno già espresso a stampare quanto sopra detto-scritto da LUCIA MARCHESELLI
    eppoi sempre nello stesso faldone ho accluso quanto rimessomi da Gianluigi tramite Popinga gli 11 podcast che permettono ascoltare le vive voci dei relatori e dei presenti.
    Altro sino ad ora non posseggo
    Nell’interesse storico-civile mi rimetto a quanto altri posseggono documenti o similia per far si che si possa raccogliere nel faldone della iniziativa più di quanto sino ad ora raccolto.
    La documentazione tutta logicamente verrà conservata e messa a disposizione di studenti e coloro che non sanno.
    Grazie per la collaborazione data sino ad ora.
    dario.

  3. Ritengo l’articolo di Lucia Marcheselli assolutamente originale e prezioso per chiunque voglia conoscere la verità storica quale ci è rivelata dalla voce dei grandi della letteratura: un approccio emotivo e coinvolgente che lascia un segno profondo nella memoria del lettore.

    Grazie, Lucia

    Eleonora Carbonari

  4. Pingback: Popinga

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