L’indemoniato

Il 28 luglio, in Piazza Roma a Senigallia, serata sul satanismo. Sul palco un sacerdote, don Aldo Buonaiuto, coordinatore del numero verde anti sette occulte, ausiliare di polizia giudiziaria e consulente tecnico della magistratura. Presentando il libro “Le mani occulte, viaggio nel mondo del satanismo”, Don Buonaiuto ha tratteggiato il fenomeno, la sua storia e le molteplici sfaccettature. Un punto di vista socio-religioso, tutto sommato interessante ed equilibrato.

Poi, a metà serata, quando s’è trattato di analizzare le cause del fenomeno, Don Buonaiuto ha fatto intervenire sul palco un indemoniato. Aveva le sue stesse sembianze, portava gli stessi vestiti e addirittura lo stesso nome. Un indemoniato in carne ed ossa: la prova che Belzebù non solo esiste, ma può tranquillamente passeggiare per le nostre strade in un’afosa serata estiva.

L’indemoniato ci ha rivelato che, oltre a quelli del mostro di Firenze, anche l’omicidio di Cogne e la recente morte dell’antropologa Cecilia Gatto Trocchi (una studiosa del tema) potrebbero nascondere casi di satanismo. Chissà, magari anche Erica e Omar sarebbero disposti a dichiararsi in preda a Satana ed ottenere uno sconto di pena. Dopo la Pedofili S.p.A. ci mancava la Satanisti S.r.l.
Di seguito se l’è presa col relativismo etico e la scristianizzazione della società, che hanno rimosso il sacro, ridotto al silenzio e alla subalternità l’etica cristiana (soprattutto cattolica) e proposto modelli vuoti e ingannevoli, su cui le sette prolificano. Tra i modelli ingannevoli, oltre ai soliti (denaro, droga, successo, affari, edonismo, ecc.), ci sarebbe anche Harry Potter (noto anticristiano, già oggetto delle attenzioni del Papa). Anche il Codice da Vinci sarebbe pericoloso: troppo critico verso la Chiesa, le crociate e l’Opus Dei, avrebbe il torto di spacciare finzione per verità. Per non parlare della New Age…

Mentre l’indemoniato parlava, a nessuno – neppure a Don Buonaiuto – è passato per la testa che il fiorire di sette occulte, soprattutto in società occidentali evolute di matrice cristiana, potrebbe essere la degenerazione del tentativo di ricerca di una dimensione spirituale e trascendente che le chiese “tradizionali” – nella fattispecie quella cattolica – negli ultimi anni faticano ad offrire.
Se queste chiese alla fede sostituiscono un’etica, in cui la gerarchia si arroga il compito di stabilire cos’è Bene e cos’è Male, e i fedeli sono semplici osservanti tenuti ad uniformarsi a quei precetti, pena non solo essere peccatori ma anche non potersi dire cristiani, ci si può meravigliare se sempre più gente volge lo sguardo altrove?
Per andare sul concreto: una Chiesa che nega il funerale ad una poveretta ritenuta pubblica peccatrice perché viveva more uxorio con un divorziato forse non viene meno alla caritas e alla pietas che molti invece cercano nella dimensione spirituale? Ed ha qualcosa a che vedere con la fede il fatto che una normalissima coppia, anche sposata, non si possa dire cristiana perché fa uso di anticoncezionali?
L’immagine di una cultura cattolica marginalizzata, ridotta al silenzio e all’insignificanza dal relativismo etico e dal “laicismo” semplicemente non esiste. I recenti referendum sono stati l’ennesima dimostrazione del contrario: l’etica cattolica imposta (per legge) a tutti, anche a quelli che non la condividono magari perché appartenenti ad altre confessioni.
Stiamo assistendo in Italia al dilagare del relativismo etico o piuttosto al tentativo di imporre a tutti una sola etica, quella cattolica, magari sottoforma di etica condivisa? È in atto una rimozione del sacro oppure una progressiva dilatazione dello spazio del sacro a tutti gli ambiti dell’esistenza umana? Ma, in tal caso, se tutto è sacro, cosa rimane di sacro?
Non ci aspettavamo che l’indemoniato rispondesse a queste domande, ma almeno che ce (e se) le ponesse Don Buonaiuto.
Macché. Alla fine i due hanno salutato cordialmente, e dopo l’applauso se ne sono andati. Insieme.

Da Senigallia al Monte Catria

Da Senigallia, che si trova sulla costa adriatica a Nord di Ancona, nelle giornate chiare e serene, guardano verso Ovest, tra il profilo della catena appenninica che ci appare variamente sfumato all’orizzonte, si può osservare la sagoma del Monte Catria col suo caratteristico “gibbo” dantesco (Alcuni cultori di studi danteschi sostengono che Dante fu anche a Senigallia, perché solo da qui è possibile vedere il Catria con il caratteristico “Gibbo”). Maestoso nella sua mole, per più mesi all’anno incappucciato di bianco, il nostro monte, alle spalle delle colline marchigiane, è tra gli altri di certo il più bello per i suoi interessanti aspetti geologici, per le molteplici attrattive botaniche e per tutta quella miriade di curiosità naturalistiche che è in grado di offrirci.

Mettiamoci dunque in viaggio e percorrendo la SS N. 16 (Adriatica) verso Nord per circa cinque chilometri attraversiamo il ponte sul fiume Cesano e voltiamo immediatamente a sinistra sulla strada che ci porterà verso San Lorenzo in Campo e Pergola.

Non a caso il nostro itinerario ha avuto inizio da Senigallia; infatti a noi sembra che questa ridente cittadina, famosa per la sua immensa spiaggia dalle sabbie finissime e vellutate, sia il naturale avampaese del gruppo del M. Catria in quanto vicinissima alla valle del Cesano che ora risaliamo e che è quella percorsa dall’omonimo fiume che nasce da versante Sud del nostro monte. Questa valle si presenta ampia e ricca di verde; le colline declinano dolcemente sia verso il mare che verso il fiume testimoniando così con la morbidezza delle loro forme, i tipi geologici presenti, cioè argille e sabbie del Pliocene; nei tratti in cui si riscontra una morfologia leggermente più aspra troviamo affioramenti di sabbie e arenarie debolmente cementate. Dopo quattro chilometri circa si sale su un evidentissimo e direi quasi didattico terrazzo fluviale; dopo poche decine di metri ci si immette sulla SS 424 proveniente da Marotta. Ai lati è possibile osservare i campi con le colture più caratteristiche della zona che oltre al grano e alle erbe foraggere tradizionali (medica, sulla, trifoglio) annoverano anche barbabietole, mais, cavolfiori ed ottimi vigneti; oggi si notano anche molte colture più moderne e specializzate quali il pomodoro, il pisello, il peperone, il girasole, la cipolla ed altre di questo genere. Dopo nove chilometri (sempre dal ponte su fiume Cesano) ci appare sul pendio delle colline che sono alla nostra sinistra un bosco artificiale a conifere e latifoglie con molti e grandissimi lecci; questo ha una estensione di circa dieci ettari ed è conosciuto come il bosco di Monterado poiché sorge ai piedi dell’omonimo paese noto soprattutto per la tradizionale a sagra della “porchetta” che ogni anno raccoglie qui, i primi giorni di maggio, gente da tutta la regione.

Ancora più avanti, sulla destra, Castelvecchio e poi Monteporzio; quest’ultimo toponimo ci ricorda come una volta tutte queste colline fossero ricoperte da estesi querceti e quindi anche… luogo di pascolo per i maiali. Dopo una trentina di chilometri incontriamo San Lorenzo in Campo. Dopo questo centro abbandoniamo i terreni del Pliocene che erano qui presenti soprattutto con le argille marnose e siltose, azzurre del Pliocene inferiore e medio ed entriamo nelle argille marnose ed arenarie del Miocene superiore, che sovrastano di poco la strada stessa, la quale corre pero sempre sulle alluvioni terrazzate del fiume. Prima di arrivare a Pergola, da cui distiamo ancora una decina di chilometri, incontriamo la caratteristica alternanza di calcari marnosi e marne della formazione dello “Schlier” e soprattutto del “Bisciaro” (il termine “bisciaro” ha avuto forse origine dal tipico aspetto degli strati calcarei nodulosi che simulano la sagoma di un rettile). Poco prima del bivio per Monterolo possiamo osservare, per quasi un chilometro, il primo affioramento di “Scaglia cinerea”, altra caratteristica formazione della serie marchigiana. Successivamente, poco prima di Pergola, la strada toccherà la formazione della Scaglia cinerea che in quel punto presenta tipiche alternanze di marne grigio-verdognole e rosso-vinate in cui non è troppo difficile rinvenire molte interessantissime “impronte problematiche”.

La località ora raggiunta, Pergola, è oggi poco conosciuta, fu fondata nel 1200 dagli Eugubini alla confluenza del Cinisco col Cesano, sui terrazzi alluvionali; godeva nel Medioevo di grande celebrità per la produzione e la lavorazione delle lane, che qui era fiorente.

A questo punto ci si presenta la possibilità di scegliere due percorsi: prendere la strada che conduce a Cagli e percorrerla fino a S. Savino dove si volta per Frontone (da qui ancora due chilometri di strada in terra battuta, ma con fondo agevole), oppure passare per Bellisio Solfare e Serra S. Abbondio per giungere fino a Frontone; chi volesse, da Bellisio Solfare può raggiungere con una piccola deviazione Percozzone e Cabernardi per raccogliere cristalli di zolfo nelle discariche delle miniere un tempo assai sfruttate. Pur essendo la prima strada proposta forse la più panoramica, in quanto ci consente di vedere il gruppo del Catria nella sua completezza, noi transiteremo per la seconda poiché ci permette l’attraversamento di zone più interessanti dal punto di vista geologico e perché consente, a coloro che lo volessero, di effettuare una sosta al Santuario della Madonna del Sasso, che sorge inerpicato su un dirupo scosceso, circa duecento metri prima del bivio per Serra S. Abbondio. Da qui la strada che corre ora con un tappeto asfaltato di ottima qualità, incide più o meno profondamente una anticlinale, mettendo in luce particolarmente una alternanza di calcari marnosi e marne della formazione della “Scaglia rossa”, che con varie, policrome ed elegantissime sfumature ci accompagnerà per un certo tratto.

Di fronte a noi, improvvisamente, su un cucuzzolo caratteristico ed inconfondibile, ci appare il Castello malatestiano di Frontone, altra apprezzata meta di gite ed escursioni… gastronomiche. Qui infatti si trovano le specialità più gustose a tipiche di tutta la zona, cioè il coniglio in porchetta, la crescia (una specie di piadina romagnola) col prosciutto e dell’eccellente agnello arrosto. Si continua oltre Frontone, verso Cagli, per un chilometro, fino alla frazione di Buonconsiglio dove si volta a sinistra di fronte alla chiesetta, per la stradina che ci condurrà fino al rifugio della Vernosa, a duecento metri dalla vetta. Abbandonate le case di Buonconsiglio la strada corre a fondovalle, parallela ad un torrentello le cui acque ci scendono incontro tenendosi sulla nostra sinistra.

Ad un certo punto arriviamo ad una caratteristica gola chiamata Stretto del Mandrale, il cui fianco sinistro è per la maggior parte dell’anno bagnato da uno stillicidio che consento lo sviluppo di feltri viscidi e compatti di Cianoficee; nelle nicchie e nei luoghi adiacenti prosperano moltissime felci dalle fronde delicate ed eleganti. Circa cinquanta metri prima dello stretto è possibile rinvenire, nel detrito di falda che si trova sulla destra, una interessantissima stazione di Drypis spinosa, una bellissima cariofillacea che attira l’attenzione dell’osservatore non solo per le sue foglie oltremodo pungenti, ma anche e soprattutto per il suo habitat d’avanguardia: infatti vive rigogliosa su questa grossolana breccia calcarea che tra l’altro è in continuo movimento. Questa è una specie di origine balcanica e ciò ha permesso ad alcuni ricercatori di fare interessantissimi studi sulle relazioni che intercorrono tra le flore appenniniche e quelle danubiano-carpatiche.

Continuiamo il percorso ed affrontiamo i primi tornanti che incidono i fianchi della montagna rendendo visibili gli strati di calcare biancastro a grana fine (calcare rupestre) in cui si possono osservate chiaramente gli effetti della microtettonica; nei giunti di stratificazione, e più precisamente nelle piccole cavità che qui si sono formate, e facile rinvenire molti piccoli cristalli di calcite, la cui raccolta è assai facile e divertente.

Sulle pendici più ripide della montagna s’intravedono delle macchie quasi nere sparse qua e là: sono i lecci che hanno resistito alla millenaria caccia dell’uomo e che con caparbietà sostengono questa terribile battaglia per la vita.

Gli aspetti vegetazionali sono qui i più disparati nelle diverse stagioni; in marzo i primi accenni della vita che riprende li dà il Corniolo (Cornus mas) che si ricopre di minuscoli fiori gialli prima ancora di inverdire. Subito dopo è possibile cogliere i colori delicatissimi degli amenti dei noccioli (Corylus avellana) che sono sparsi qua e la nella boscaglia. L’estate è un’esplosione di verde che gradualmente scema nella policromia indescrivibile del paesaggio autunnale. In mezzo alle querce incontriamo frequentemente carpini, aceri e frassini; tra i muschi che tappezzano le pareti più ripide ed umide si notano i magnifici esemplari di una bellissima Polipodiacea, Ceterach officinarum, la “Felce rugginosa”.

I faggi li incontriamo poco prima di raggiungere i prati di Valpiana che sono a quota 950 circa. Qui, stante la presenza di un opportuno ricovero, troviamo al pascolo molte mucche, alcuni cavalli ed i muli, collaboratori insostituibili dei boscaioli. Nel mese di maggio questa zona è ancora più bella del solito a causa di una splendida fioritura di candidi asfodeli.

Tra i faggi, per ancora un paio di chilometri rinveniamo abbondante l’Agrifoglio (Ilex aquifolium); nel sottobosco ci sono Daphne laureola, Scilla bifolia, Cardamine bulbifera, e talvolta anche una bellissima Papaveracea, Corydalis cava.

Abbiamo superato quota mille e percorriamo la strada che è stata tracciata sul fianco nord del Monte Acuto nel mezzo del bosco di faggio che qui è piuttosto giovane ma rigoglioso e vitale; ciò testimonia le adatte condizioni ecologiche presenti per questa specie. Sempre sul fianco dell’Acuto esiste un piccolo rifugio aperto a tutti e quindi anche affidato alla pubblica educazione; purtroppo stiamo costretti a lamentarci (e il discorso vale anche per il prossimo rifugio, quello della Vernosa) della maleducazione e della scorrettezza dei visitatori che lasciano qui in terra i resti dei loro festini e che imbrattano molto volentieri anche i muri di queste stanze. Proprio qui intorno al rifugio è facile la ricerca delle ammoniti liassiche e con un pò di fortuna e buona volontà se ne possono trovare degli esemplari interi e piuttosto belli. Sì continua a salire su questa strada che è di recente costruzione; come le altre (più nuove e più inutili) ha inferto con il suo tracciato una grave ferita alla montagna. Arriviamo ai primi prati; in questa zona si trovano le rocce più antiche, infatti sotto le cosiddette Balze della Porta c’è il “Calcare Massiccio”, formazione ben individuabile perché costituita da calcari, calcari dolomitici anche cristallini senza stratificazioni evidenti. In tutto il resto della zona c’è la formazione della “Pietra corniola”, costituita da calcari grigio-brunastri, ben stratificati, con all’interno eleganti e regolarissimi cristalli di pirite, noduli e lenti di selce grigia, ammoniti, brachiopodi ed echinidi.

La vetta del Catria, che si raggiunge a piedi dal rifugio della Vernosa in circa venti minuti, è costituita da calcare rupestre, i cui strati emergono abbastanza regolarmente in direzione S-W.

Sulla sella tra i due monti (Acuto e Catria) si osservano dei magnifici prati circondati dal ceduo di faggio in cui sono sparsi qua e là cespugli di questa specie che assumono qui forme elegantissime in seguito sia all’azione del vento sia come conseguenza delle morsicature inferte dal bestiame durante il pascolo (“meccanomorfosi”). È difficile dire quante sia il più bello tra gli spettacoli che ci vengono offerti dalle fioriture primaverili: all’inizio distese di crochi, poi la fantasmagoria dei colori delle viole e delle primule che for mano un tappeto continuo. Qua e là ogni tanto si osserva il volo festoso del Fringuello, del Cuculo, della Ghiandaia che rallegrano ancor di più il paesaggio. In questi luoghi fino a qualche decina di anni fa c’erano le aquile che nidificavano; il territorio era considerato come il più nordico raggiunto dal lupo; per la Coturnice, che dovrebbe essere la regina incontrastata di queste vette, dobbiamo dire che non è così frequente come ci si potrebbe aspettare. Nella zona ci sono oggi i cinghiali liberati qualche anno fa a titolo sperimentale dal Comitato della Caccia di Pesaro; essi sono divenuti numerosissimi ed anche molto dannosi perchè “rufolano” sui prati incidendo gravemente la cotica erbosa ed offrendo cosi la prima via d’attacco all’erosione. Ad un centinaio di metri dal rifugio arriva anche la strada che, dall’antica Abbazia di Santa Croce di Fonte Avellana, sale sul versante Sud-Est del Monte attraverso bellissimi boschi di faggio, seguendo un tracciato molto discutibile anche dal punto di vista tecnico. Scendendo di qui qualcuno potrà fermarsi per raccogliere un po’ di vischio (Viscum album) che cresce rigoglioso su alcuni faggi, e che, sempre verde com’è, si può notare molto più facilmente in inverno.

Dopo essersi ancora fermati in qualche prato per raccogliere Carlina acaulis var. caulescens (oggi tanto apprezzata per le composizioni di fiori secchi), arriviamo all’Abbazia che sorge ai piedi del monte, nel mezzo di un “catino” di detriti di falda quivi assai potenti; il luogo è bello paesisticamente e l’architettura della costruzione assai interessante: infatti vi si può ammirare un chiostro, una sala capitolare, un refettorio e l’antico scrittolo dove i monaci ricopiavano i testi classici; la chiesa è costituita da una navata con presbiterio sopraelevato che appoggia sulla cripta sottostante; l’abside ha forma circolare. Dal piazzale antistante il Monastero si può osservare un magnifico esemplare di Tasso (Taxus baccata) a testimonianza di come una volta questa specie crescesse abbondante nella zona; oggi è possibile rinvenire solo alcuni piccoli esemplari sparsi più in alto nel ceduo di faggio.

Seguendo la strada di fondo valle ci si porta rapidamente fino a Serra S. Abbondio, luogo in cui vi salutiamo e vi auguriamo un buon rientro alle vostre città; ci scusiamo con voi qualora vi avessimo fatto affaticare un po’ troppo, ma siamo sicuri che ricorderete sempre con piacere il Monte Catria.

(Ringrazio il dott. Francesco Corbetta ed il dott. Giulio Pisa per il prezioso aiuto e gli appassionati consigli che hanno contribuito ad una migliore stesura di questo lavoro).

L’Italia e il terrorismo islamico

Dopo i ripetuti inviti di mescalino e andrea finalmente mi sono deciso a scrivere alcune brevi righe sul terrorismo di matrice islamica che in questi giorni sta colpendo ripetutamente in Europa e nel resto del mondo minacciando attentati anche in Italia.

L’ ispirazione mi è venuta leggendo proprio su popinga un articolo di andrea intitolato “Lacrime e Sangue”, dove partendo da una affermazione del direttore di libero Vittorio Feltri (per me condivisibile), sul fatto che per avere maggiore sicurezza bisogna rinunciare ad un po’ di libertà, si ribadiva la posizione liberale secondo cui anche le emergenze gravi come il terrorismo vanno affrontate senza misure eccezionali e nel rispetto delle leggi ordinarie.

Questa posizione, se in linea di principio può essere condivisibile, non tiene, secondo me, conto della situazione e delle caratteristiche del moderno terrorismo, riflettendo purtroppo l’incapacità della nostra classe politica di affrontare e risolvere i problemi del paese reale senza ricorrere ai soliti teatrini e alle astuzie da legulei che hanno ormai schifato tutti gli italiani.

Nei dibattiti televisivi infatti tutti sono d’accordo nel riconoscere le peculiarità di questo terrorismo basato sul fanatismo religioso ed antioccidentale rispetto al terrorismo degli anni ’70 e ’80 che era invece di natura ideologica o nazionalista (come ad esempio nel caso dell’ IRA) ma nessuno sembra disposto ad affrontare seriamente il problema di come, aldilà delle misure proposte dal governo, il nostro paese deve affrontare il problema del terrorismo e dei rapporti con l’islam.

L’unico vantaggio che l’Italia ha nei confronti dei terroristi è che essi appartengono tutti, come hanno dimostrato gli attentati di Madrid e Londra, alle comunità islamiche dove trovano aiuti e fiancheggiatori e che per nostra fortuna queste comunità sono facilmente identificabili e controllabili all’interno del territorio nazionale anche perché composte da persone di origine araba o africana anche se ben integrate.

Quindi è vero che bisogna agire, come da più parti ripetuto, in campo internazionale e ben vengano le misure approvate dal governo tra cui quella che permette all’esercito di perquisire persone e cose (approvata proprio ieri), ma soltanto colpendo duro i terroristi ed i loro fiancheggiatori con misure volte ad un maggior controllo sulle comunità islamiche italiane (come ad esempio l’espulsione degli imam più pericolosi, la chiusura delle moschee, la schedatura di tutti i mussulmani e degli italiani convertiti all’islam, le limitazioni per l’acquisto di apparecchiature elettroniche come i computer e i telefonini o all’accesso a determinate professioni legate alla sicurezza nazionale) si potranno prevenire nuovi attentati evitando di piangere nuovi morti e si darà maggiore sicurezza ai cittadini.

I soloni liberali e i loro amici comunisti si mettano il cuore in pace, purtroppo siamo in guerra (per fare la guerra diranno loro, bisogna essere in due ma come la storia insegna per dichiararla basta uno solo) e per tutti, ma sopratutto per chi comanda, dovrebbe valere l’antico detto latino “Salus Rei Publicae suprema lex esto”, senza contare che è mille volte preferibile, pur nella sua decadenza e nelle sue contraddizioni, la nostra civiltà occidentale che la folle teocrazia islamica di Bin Laden e soci.

La Grande Storia della Guerra

Quali sono le pulsioni dell’animo umano che spingono alla guerra? Come si è evoluto il concetto di guerra e la sua realizzazione pratica?

John Keegan risponde a queste domande partendo dalle prime battaglie rituali dei popoli preistorici sino al concetto di annientamento totale dell’avversario. Keegan parte appunto dai combattimenti dell’età della pietra, spesso incruenti e puramente rituali, per poi legare lo sviluppo dell’arte bellica allo sviluppo della società stessa.

Con la nascita dell’agricoltura cominciano infatti i primi conflitti tra popoli nomadi e popoli sedentari nelle pianure dell’Asia minore. Questo periodo vede l’avvento dei popoli a cavallo (animale domesticato già nel IV millennio a.C.), prima tramite il carro da combattimento, che porta gli Assiri al dominio di tutta la mezzaluna fertile.

In seguito il carro da combattimento (utile solo in pianura) viene soppiantato dall’uso del cavallo montato. A prendere il sopravvento sono dunque i popoli della “steppa”, eccellenti cavalcatori, tra cui i più noti sono gli Unni, i Turchi e i Mongoli, che riusciranno a conquistare il più grande impero della storia.

Parallelamente i Greci cambieranno radicalmente il modo di combattere, introducendo la “falange”, la prima forma di esercito organizzato in maniera “moderna” con un armamento standardizzato (la panoplia) e uno schieramento disciplinato. I romani modificheranno poco questo schema, rendendolo solo più flessibile, nella conquista del loro grande impero.

E’ solo nel XV secolo che avviene un’altra svolta epocale: l’avvento della polvere da sparo e del cannone che permette ai turchi di abbattere le poderose mura di Costantinopoli.

Il cambiamento introdotto dal cannone non è solo tattico ma anche psicologico: dallo scontro “corpo a corpo” si passa “all’uccisione a distanza” che finisce per togliere ogni remora ai guerreggianti. Si giunge così alla teoria “dell’annientamento totale dell’avversario” ottenibile ai nostri giorni con le “armi di ditruzione di massa”.

Siamo giunti quindi alla fine della guerra? La paura dell’annichilimento totale porrà fine all’innato istinto che porta gli uomini a sfogare la propria aggressività contro i propri simili? Keegan conclude la sua analisi asserendo che la guerra è diventata ormai una abitudine per l’uomo, ma che non sopravviveremo se non ci disferemo delle nuove abitudini che abbiamo imparato!

John Keegan
La grande storia della guerra
Dalla preistoria ai giorni nostri

(Mondadori, 1996)

“The Marble Man” di Thomas L. Connelly

Chi non conosce il mitico generale Robert E. Lee comandante dell’armata della Virginia durante la guerra civile americana? Ebbene la sue fama ha valicato i confini degli Stati Uniti ed è giunta in tutto il mondo. Molti conoscono il nome del generale Lee pur essendo completamente all’oscuro delle vicende e dell’esistenza stessa di questo conflitto.Ma come ha potuto la figura di Lee, uno degli sconfitti, divenire così famosa?

Ce lo spiega Thomas Connelly, professore di storia dell’università della Carolina del Sud, in questo interessante saggio. In realtà alla fine della guerra civile la fama del generale Lee era pari, se non inferiore, a quella di altri generali confederati tra cui “il vecchio Joe” Johnston, “Stonewall” Jackson ed altri. Certo il ruolo di Lee durante la guerra fu di primo piano e fu l’unico generale sudista che provò a invadere il territorio dell’Unione, ma la sua fama e la sua grandezza crebbero solamente al termine della guerra e dopo la sua morte.

Le varie generazioni che gli succedettero crearono e modificarono l’immagine del generale a seconda dei loro scopi politici, facendolo diventare prima un idolo dei popoli del Sud, vinti ma sempre combattivi e pronti al riscatto, poi un vero e proprio simbolo nazionale, venerato anche al Nord da coloro che lo avevano sconfitto, ed infine un eroe della middle-class, il prototipo dell’uomo libero che combatte per la sua terra contro le ingiustizie. Insomma la figura di Lee viene plasmata ogni volta in maniera diversa a seconda dei fini politici dei suoi apologi.

Una visione della storiografia alquanto orwelliana che ci invita a riflettere sui personaggi storici, su come le loro figure siano state rappresentate attraverso i secoli e su come siano giunte a noi. Un monito a essere sempre critici di fronte alla storia ricordando che questa, come noi la conosciamo, non è la pura verità, ma solo una rappresentazione fatta da uomini con i loro fini politici e propagandistici.

The Marble Man
di Thomas L.Connelly (libro in inglese)

InCiampi

È qualche giorno che mi mordo le mani.
Perché polemizzare per l’articolo di Alberto Teloni su La Voce Misena del 30 giugno? Perché discutere sulla blasfemia e rispondere alle falsità sulle bestemmie e i finanziamenti di Radio Radicale, invece di farsi quattro risate leggendo La Voce Misena della settimana precedente?
Credevamo ci fosse un limite alla quantità di balle da sparare in un mese. Ci sbagliavamo.

Il 23 giugno il corsivista de La Voce Misena ci ha fatto sapere che Carlo Azeglio Ciampi non gli piace. Non va bene, il Presidente della Repubblica, per tre motivi:

1) Costa troppo.

«Qualunque cittadino di questa nostra Italia vivrebbe da signore con meno della metà di quello che prendono di stipendio ministri e sottosegretari, parlamentari di ambo le camere e, naturalmente, presidenza della repubblica».
E poi, quello sprecone di Ciampi, ha il maledetto vizio delle parate militari. Passi per quella del 2 giugno, «purtroppo [sic] tradizionale e non del tutto imputabile a lui», ma quella della marina militare «è tutta una sua invenzione»: tra dragamine, portaerei e motoscafo presidenziale, nel golfo di Napoli si bruciano vari milioni di euro in nafta, allestimenti e impegni. Dovrebbe, il presidente dalle mani bucate, prendere esempio dal Papa: niente trasferte, niente aerei (al più un piroscafo in terza classe), pochi allestimenti e impegni. D’altra parte, sembra chiedersi il commentatore, qual è l’utilità dell’istituto presidenziale? Eh già, qual è l’utilità delle cariche rappresentative? L’aporìa è evidente a tutti, tranne che a Padre Teloni.
Ma non importa, veniamoci incontro. Per limitare le spese, si potrebbero accorpare le cariche: allontaniamo Ciampi e nominiamo Benedetto XVI presidente della Repubblica italiana.

2) Non se la smette di fare proclami risorgimentali.

Ha proprio ragione, Teloni: non piace neppure a noi, quello scalmanato di Ciampi, a cavallo con la camicia rossa e il fazzoletto al collo. Come si permette, il capo dello Stato nato dal Risorgimento, invece di girare col santino di Pio IX e il Sillabo, di ricordare quellospregiudicato massone anticlericale di Cavour, che un giorno, dopo aver alzato il gomito, si mise in testa di fare l’Italia unita? Che ci troverà, poi, in quell’avventuriero giramondo di Garibaldi e in quell’altro nullafacente – come cavolo si chiamava… ah sì Mazzini – un gagà di quelli alla armiamoci e partite?

3) È andato a votare per i referendum sulla procreazione assistita.

«Già i referendum sono stati da soli una spesa enorme, ma se avessero ottenuto validità per un solo voto, e non importa la vittoria dei sì o dei no, la colpa del milione di euro rimborsata ad ogni comitato promotore, sarebbe stata proprio di Ciampi».

Non della legge elettorale o della gente che è andata a votare: no, di Ciampi. Come si permette il presidente della Repubblica, garante supremo della Costituzione, di tacere per tutta la campagna referendaria, di non profferire parola né per il voto né per l’astensione, né per il Sì né per il No, di non entrare nel dibattito politico? Avrebbe dovuto fare come Pera e Casini: dichiarare che non sarebbe andato a votare, difendendo e valorizzando la scelta astensionista. E chissà, magari anche iscriversi a “Scienza & Vita” e partecipare ad una puntata di “Porta a Porta”, seduto al fianco di Giuliano Ferrara.
E mica «importa la vittoria dei Sì o dei No». Quell’ingenuo di Ruini non aveva capito niente, si era sbagliato a dire che l’astensione era il modo più efficace di opporsi alla modifica della legge. Non avevano capito niente nemmeno quelli che predicavano l’astensione mirata, responsabile e ragionata. No no: non bisognava andare a votare a prescindere. Il 12 giugno fa troppo caldo, meglio andare al mare.
Diciamo la verità, la democrazia costa. «Sappiamo a chi costa. Ma chi intasca?» si chiede l’anima candida. In caso di raggiungimento del quorum, un milione di euro se lo sarebbero intascato di sicuro, come rimborso, quelle sanguisughe dei comitati promotori.
Un milione, mica un miliardo di euro che s’è beccata nel 2004 la Chiesa cattolica dallo Stato con l’otto per mille…

A Scola di coerenza

«In questo caso, a fronte di una questione epocale e in presenza di quesiti piuttosto astrusi, mi sembra un esercizio formalistico di democrazia pretendere che milioni di persone si esprimano su problemi così complessi con una semplice crocetta sulla scheda. Noi dobbiamo lavorare per una democrazia sostanziale, anche valorizzando i corpi intermedi. L´indicazione del non voto favorisce la maturazione della questione in una società democratica e plurale come la nostra».
(Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, intervistato da La Repubblica il 23 maggio 2005 a proposito dei referendum sulla procreazione assistita)

«Il libero dibattito delle idee va difeso, però alla fine si devono assumere i valori risultanti dal confronto: “Io dico la mia idea, tu la tua; il popolo giudichi qual è la migliore e lo Stato laico la assuma. La democrazia mi pare funzioni così”».
(Card. Angelo Scola, patriarca di Venezia, intervistato dal Corriere della Sera il 17 luglio 2005 sul patto per una nuova laicità)

Mai sputare in alto…

Lo scorso 30 giugno su La Voce Misena, settimanale della Curia senigalliese, è apparso un articolo firmato da Alberto Teloni.
Il pezzo, una vera e propria pinacoteca di castronerie e grossolanità (opinabili), conteneva almeno due falsità (non opinabili): che Radio Radicale, definita «radio libera bestemmia», «usufruisce di generoso finanziamento pubblico perché trasmette in modo integrale le sedute parlamentari».
Senza sentire il bisogno d’informarsi prima di scrivere fandonie, l’autore era andato oltre, producendosi nel seguente capolavoro: «ma a chi interessano le sedute parlamentari? Noia infinita e dibattito scontato».

Se le sedute del Parlamento non interessano a nessuno, ci viene il dubbio che sia così anche per le sedute del nostro Consiglio comunale. Ormai da anni le trasmette in diretta Radio Duomo, che La Voce Misena del 13 luglio definisce una radio «al servizio della conoscenza e quindi della democrazia, […] un modo agile ed efficace di prendere parte alla cosa pubblica».
Per questo servizio, Radio Duomo ha chiesto e ottenuto un finanziamento pubblico – questo sì! – da parte del Comune, il quale ha concesso:
• 1549.37 € per il 2001 (delibera nº 12 del 16/01/2002);
• 2100 € più i.v.a. per il 2002 (determina nº 721 del 24/05/2002);
• 2100 € più i.v.a. per il 2003 (determina nº 914 del 12/06/2003);
• 2400 € più i.v.a. per il 2004 (determina nº 1330 del 12/10/2004).

Personalmente crediamo che il servizio offerto a Senigallia da Radio Duomo non sia meno utile di quello offerto su scala nazionale da Radio Radicale. Ma, qualora l’affermazione fatta su La Voce Misena fosse vera, il Comune starebbe sprecando soldi per qualcosa che nessuno sfrutta, o che – peggio – ha effetti narcotici sulla popolazione. In tal caso, sarebbe opportuno rivedere la scelta.
Qualche domanda semplice semplice.

All’Amministrazione comunale:
1) Sul sito istituzionale del Comune sono documentate le sole erogazioni del 2001, 2002 e 2003, a cui va aggiunta quella del 2004. Esistono finanziamenti per il 2005 e prima del 2001? Se sì, a quanto ammontano?
2) Per quale motivo non è stata fatta una gara pubblica d’appalto per le radiocronache delle sedute consiliari, come avviene per i lavori parlamentari?
3) Radio Duomo non è l’unica emittente a coprire Senigallia: si prevede di passare alla gara d’appalto per gli anni a venire? Se sì, con quali regole?
4) Si prevede di rendere disponibili le sedute consiliari anche via internet in audio oppure in audio-video?

All’Amministrazione comunale e a Radio Duomo:
5) Esiste fra il Comune e Radio Duomo un accordo che disciplina la trasmissione delle sedute, fissando un impegno minimo (numero di sedute, minuti trasmessi, diretta o differita, trasmissione integrale o parziale)?
6) L’emittente è abilitata a seguire anche i lavori delle commissioni?
7) Sono state fatte delle stime sull’audience di Radio Duomo durante la trasmissione dei lavori consiliari?

A La Voce Misena:
8) A quando, sul vostro settimanale, una bella reprimenda contro i palinsesti di Radio Duomo?

Blasfemo chi?

Quando, prima dei referendum sulla fecondazione assistita, vedemmo su un altare (laterale o meno, poco importa) della Chiesa delle Grazie di Senigallia un manifesto di propaganda per l’astensione, il parroco ci disse indispettito che era tutto regolare. Di che s’impicciano, ‘sti mangiapreti?
L’altra settimana abbiamo letto su La Voce Misena, settimanale della Curia senigalliese, una reprimenda dello stesso Padre Alberto contro i blasfemi. Lungi dall’imbarcarsi in concetti etici e in massimi ragionamenti, il Nostro non fa che indulgere in minimi slogan per tutto l’articolo, prendendosela addirittura con i bestemmiatori annidati a Radio Radicale.

Il ragionamento (si fa per dire) è questo:

1) Anche se in Italia (purtroppo) la bestemmia non è più reato, andrebbe ugualmente punita;
2) A Radio Radicale (gli hanno riferito) si bestemmia;
3) Togliamo i soldi a Radio Radicale e facciamo tacere una volta per tutte Pannella, Bonino e Capezzone!     

1) «È vero che una serie di sentenze della Cassazione e pronunciamenti della Corte costituzionale hanno svuotato di certe difese il nostro codice penale».
Siamo in attesa che la Chiesa si faccia, in quanto tale, promotrice di proposte di legge verso lo Stato italiano: non manca molto, basta dare un’occhiata al documento della Conferenza Episcopale delle Marche sul lavoro domenicale. Nel frattempo, una curiosità: qual è il codice penale di cui Padre Alberto ha nostalgia? Forse il codice Rocco?
«Bestemmiare non è lecito sia che si offenda il nome di Dio in chiave biblica o cristiana sia che si offendano altre espressioni della divinità, sia pure di modesta invenzione umana».
Condanno anch’io la bestemmia, ma lo Stato italiano l’ha depenalizzata. È un bene o un male? Siamo sempre lì, alla distinzione tra peccato e reato. In attesa che la CEI faccia reintrodurre il reato penale, un’altra curiosità: quali sarebbero le altre espressioni della divinità, sia pure di modesta invenzione umana? Forse i simboli delle altre religioni? Padre Alberto, glielo va a spiegare Lei agli ebrei e ai musulmani che il loro Dio è una modesta invenzione umana? E come la mettiamo con quegli inventori giocherelloni buddisti o induisti?   

2) Che a me risulti, a Radio Radicale non si bestemmia né più né meno di quanto si bestemmi al “Grande Fratello”. Ci sono momenti di apertura agli interventi telefonici del pubblico, senza filtri, e dunque è qui che si possono sentire volgarità.

3) Radio Radicale «usufruisce di generoso finanziamento pubblico perché trasmette in modo integrale le sedute parlamentari. OK; ma a chi interessano le sedute parlamentari? Noia infinita e dibattito scontato».
Padre Alberto, tra uno sbadiglio e l’altro, perché la CEI non propone di abolire, se non ancora le sedute parlamentari, almeno la trasmissione dei dibattiti? Le sembrerà impossibile, eppure quelle sedute noiose, quei dibattiti scontati sono l’esercizio della rappresentanza popolare, incarnano l’essenza stessa dello Stato democratico. Pensi che orrore: c’è addirittura una maggioranza e un’opposizione…!!!
Ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Chi un mese fa invitava all’astensione ai referendum facendo appello alla maturità del popolo italiano, adesso con aria di sufficienza snobba l’interesse di quanti vorrebbero seguire le loro istituzioni. Di grazia, Padre Alberto, quali sarebbero i canali “leciti” e non noiosi dell’informazione politica e parlamentare?

Per inciso, il generoso finanziamento pubblico a Radio Radicale per la trasmissione delle sedute parlamentari sta solo nell’immaginazione di Padre Alberto. Radio Radicale è vincitrice di un concorso pubblico (aperto a chiunque) per la fornitura delle radiocronache dei lavori parlamentari: per tale servizio le viene corrisposto il prezzo stabilito in fase di appalto.
È piuttosto la Chiesa ad usufruire di un generosissimo finanziamento pubblico da parte dello Stato, tramite l’8 per mille. E Padre Alberto non ci venga a raccontare che quello è denaro donato volontariamente da ogni contribuente con la dichiarazione dei redditi, non ci parli come il card. Ruini di democrazia fiscale. Perché lui dovrebbe sapere che la Chiesa si becca non solo quasi tutti i soldi di coloro (i due terzi dei contribuenti) che non esprimono alcuna preferenza, ma anche la metà dei soldi che vanno espressamente allo Stato. E non ci dica nemmeno che quei soldi vanno per le “opere di carità”, perché l’80% prende altre strade.
Come punizione per i blasfemi, tra il serio e il faceto Padre Alberto propone di «togliere a Radio Radicale mille euro per ogni bestemmia trasmessa. Vediamo se riescono a farsela finita», o in alternativa «di abrogare con referendum i signori Pannella, Bonino e Capezzone» (sempre che arrivi al quorum, aggiungo io…).

Sono d’accordo: togliamo a quegli sporcaccioni dei radicali il diritto di trasmettere le sedute parlamentari. Chi le vuole ascoltare vada a Roma. Le scelte – Padre Alberto concorderà – devono essere consapevoli e volontarie. Allora aboliamo anche l’8 per mille, giacché a me dà fastidio che chi non esprime preferenza sia d’ufficio buttato nel calderone di coloro che finanziano la Chiesa cattolica. E mi disturba soprattutto un sospetto, che ancora non riesco a confermare ma neppure a diradare: che il mio 8 per mille sia stato usato direttamente o indirettamente per la campagna astensionista agli scorsi referendum. 
È proprio il caso di dirlo: mai flatus vocis fu migliore investimento. Forse Padre Alberto si riferiva a se stesso.

Lacrime e sangue

«Lo spettacolo dunque continua», scrive Vittorio Feltri su “Libero” dell’8 luglio, il giorno dopo gli attentati a Londra. «E continuerà chissà fin quando. Forse finché da vili quali siamo, o illusi o semplicemente incoscienti, rifiuteremo di affrontare il nemico come va affrontato ogni nemico: con forza. Il che significa adottare misure eccezionali e riconoscere che siamo in emergenza; anzi, in guerra. Il regime di guerra richiede sacrifici speciali, anche la rinuncia a certe libertà. La sicurezza ha un prezzo. Più sicurezza equivale a meno libertà».

Abbiamo già sentito queste parole. Si espresse così anche Ugo La Malfa alla Camera il 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Aldo Moro. Giorgio Almirante fu anche più esplicito: chiese leggi speciali, il ripristino della pena di morte e la sostituzione del ministro dell’Interno con un militare. 
Oggi come ieri, ci viene detto che, quando Annibale è alle porte, la legge che valeva fino a ieri non deve valere più. Lo Stato di diritto non basta: ci vogliono leggi speciali, misure eccezionali. È un’emergenza, la gente deve capire.
Scusate, se di fronte al pericolo si eliminano diritti che valevano fino a ieri, si sospende la legalità costituzionale, si intaccano le conquiste che la nostra civiltà ha raggiunto in secoli di evoluzione, la lotta non è forse persa in partenza? Il nemico forse non ha raggiunto il suo scopo, mettendoci in condizione di dover rinunciare alle nostre libertà?
Di fronte ai barbari si dovrebbe invece alzare più in alto la bandiera dello Stato di diritto, il vessillo della democrazia e della legalità, applicando le leggi che esistono invece di invocarne di nuove. E se democrazia vuol dire anche scontro, battaglia di opinioni e culture, sarebbe bene diffidare di chi, gridando all’emergenza, invoca unità nazionali e unanimismi. La democrazia deve funzionare con le sue regole, il suo pragmatismo, finanche le sue contraddizioni. È questo il suo limite, ma anche la sua forza.
In tutto ciò, proprio dall’Inghilterra abbiamo molto da imparare.
«Non ho nulla da offrire», disse Winston Churchill il 13 maggio 1940 davanti alla Camera dei Comuni, «se non sangue, fatica, lacrime e sudore. Abbiamo di fronte a noi la più terribile delle ordalìe. Abbiamo davanti a noi molti, molti mesi di lotta e sofferenza». C’era la guerra e Annibale era veramente alle porte. Eppure di lì a pochi mesi, in una Londra sotto le bombe naziste e con centinaia di vittime civili al giorno, lo stesso Parlamento avrebbe riconosciuto il diritto all’obiezione di coscienza.
We shall never surrender significava (e deve significare) anche questo.